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N. 41 - Maggio 2011 (LXXII)

I dieci giorni della Slovenia

gli eventi dell'estate '91

di Alessandro Ortis

 

Quando si entra, oggi, in territorio sloveno si ha quasi l’impressione che questa giovane repubblica sia sempre stata europea.

 

Superati i valichi con l’Italia, si vede sventolare sopra i vecchi edifici delle dogane la bandiera a dodici stella dell’Unione Europea. E ci si sente a casa. Gli stessi iugoslavi, al tempo della repubblica socialista, sostenevano che gli sloveni erano «un popolo germanofilo, impregnato di militarismo e indottrinato di spirito antijugoslavo».

 

La Slovenia, però, non è stata sempre un territorio così tranquillo e pacifico. Fu questa, infatti, - una delle sei repubbliche socialiste costituenti la ex- Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia – a dare il via al sgretolamento dello stato voluto e creato da Tito nel 1945.

 

Già dal gennaio 1990, i dirigenti della repubblica slovena predisposero il nuovo assetto per il futuro stato. Lo strappo con la Lega comunista jugoslava, causato dall’abbandono della delegazione slovena dei lavori, capeggiata da Milan Kučan, dell’ultimo congresso della Lega a Belgrado, fu l’inizio della nuova stagione politica. D’ora in poi, la Lega comunista slovena avrebbe cambiato nome: si sarebbe chiamata “Partito della riforme”. Il nuovo slogan sarebbe stato “Europa adesso”.

 

Trascorsero solo tre mesi, e si tennero in Slovenia le prime elezioni libere dal dopoguerra. La vittoria, già annunciata da giorni dai sondaggi, andò al nuovo partito di Kučan. Egli divenne anche il nuovo presidente della piccola repubblica balcanica. A breve si sarebbe formato il primo governo non comunista della storia.

 

Nelle settimane successive, la Croazia, al fianco della Slovenia nel processo da lungo tempo avviato di indipendenza dal centralismo di Belgrado, elesse presidente Franjo Tudjman, ex generale dell’esercito e politicamente di destra. Anch’egli era pronto a formare un governo senza comunisti e che rilanciasse l’idea di una Croazia libera ed indipendente da Belgrado.

 

A dicembre, si svolsero le elezioni in Serbia: nuovo presidente divenne Slobodan Milošević, che formò un governo assieme ad altre formazioni nazionalistiche e cetniche. Nei piani del vozd serbo non c’era l’indipendenza né della Slovenia né della Croazia.

 

Con queste due repubbliche secessioniste che guardavano ad occidente e alla propria indipendenza da Belgrado, e la Serbia che si avviava verso un cammino di rivendicazioni nazionalistiche ed etniche, al progetto della «Grande Serbia» lontano dalle politiche di Tito, la Jugoslavia sembrò avere un destino già tristemente segnato.

 

Il 23 dicembre del 1990, con un referendum che ottenne l’88% dei “si”, la Slovenia si dichiarò indipendente dalla Federazione Socialista di Jugoslavia. Fu l’inizio della fine, dello smembramento di uno stato e del ritorno della guerra in Europa, quasi quarant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

 

L’indipendenza, tuttavia, avvenne concretamente solo il 25 giugno del 1991: nella piazza principale di Lubiana, la capitale, si svolse la solenne cerimonia che proclamò quanto già deciso con il referendum sei mesi prima. La bandiera tricolore, con la stella rossa, venne ammainata e sostituita con la nuova bandiera con al centro lo stemma araldico dei conti di Celje, con il monte tricorno. Questa fu la fine della Repubblica Socialista di Slovenia che lasciò il posto alla nuova repubblica, libera, autonoma ed europea.

 

Il clima di festa e gioia della popolazione in piazza, si contrappose al nervosismo e alla tensione che invece si aggirava nei palazzi della politica dei vertici militari belgradesi.

 

In poche ore, Lubiana venne sorvolata dai Mig dell’aviazione jugoslava e nelle strade intorno comparvero i primi carri armati dell’esercito federale. Il conflitto che iniziò il 25 giugno 1990 e che portò all’indipendenza della repubblica durò solo dieci giorni, tanto che gli storici lo chiamano “Guerra dei dieci giorni”.

 

Gli ordini arrivati da Belgrado per mettere fine a questo oltraggio erano chiari: unità meccanizzate e brigate corazzate dell’Armata Popolare Jugoslava di stanza in Croazia, a Jastrebarsko, Zagabria e Varaždin avrebbero dovuto prendere il controllo dei posti di frontiera tra le due repubbliche secessioniste, bloccare il porto di Caopodistria con l’aiuto della marina e occupare l’aeroporto di Brnik, a Lubiana.

 

In questo modo, la Slovenia sarebbe stata isolata dal resto del mondo. L’intera operazione sarebbe dovuta durare 24 ore o poco più: la linea di repressione alla quale si guardava era quella attuata in Lituania dall’URSS di quarant’anni prima. Questa tattica, però, presupponeva la completa incapacità di un corpo paramilitare che in Slovenia, negli ultimi trent’anni, si era rafforzato e divenuto un vero esercito: la Difesa Territoriale.

 

Questa era una sorta di corpo militare parallelo voluto dallo stesso Tito nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia. Avrebbe dovuto affiancare le attività dell’esercito federale in caso di attacco esterno alla Jugoslavia, per assicurare il controllo del territorio seguendo la tradizione dei miliziani partigiani di cui Tito fu comandante ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

 

Dagli anni Settanta, le autorità slovene avevano iniziato ad organizzare ed armare seriamente questo loro esercito con l’afflusso di armi provenienti dall’estero, da paesi come Singapore e Israele, con l’assenso di Tito. Gli stessi appartenenti alla territoriale vennero istruiti e formati, nel corso degli anni, dai militari dell’esercito federale. Nei giorni dell’indipendenza slovena, la Difesa Territoriale poté contare su quasi 50 000 uomini, tra militari e poliziotti.

 

Già nei giorni seguenti al 25 giugno, gli uomini della territoriale predisposero posti di blocco con cavalli di frisia, ma anche con camion, autobus e trattori per bloccare l’avanzata dei mezzi blindati dell’Armata Popolare provenienti dalla Croazia. Si impadronirono soprattutto di molti valichi di frontiera internazionali con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria.

 

I soldati dell’esercito federale venivano inviati in Slovenia con la motivazione che la Jugoslavia era stata attaccata dall’Italia e dall’Austria, affinché in loro crescesse l’orgoglio per la difesa del sacro suolo jugoslavo. Ben presto, però, ci si rese conto che la questione non si sarebbe risolta in breve tempo: i mezzi e gli uomini dell’Armata Popolare erano mal equipaggiati e quasi privi di munizioni di scorta, proprio perché i gerarchi e i comandanti di Belgrado credevano di poter sbarazzarsi dei territoriali sloveni in poche ore.

 

Nonostante l’esercito federale impiegò 115 carri armati, 32 cannoni semoventi, 82 veicoli blindati, 24 elicotteri ed effettuò 15 attacchi aerei, il morale degli sloveni non venne assolutamente scalfito. In tutto il paese ci furono scontri armati tra i due eserciti: Maribor, Lubiana, Nova Gorica, furono solo alcuni delle città coinvolte. Soprattutto per quest’ultima, situata a ridosso del confine, ci furono serie preoccupazioni per l’Italia: infatti alcuni colpi di mitragliatrice arrivarono sui palazzi limitrofi al valico confinario della Casa Rossa, provocando il panico tra la popolazione di Gorizia.

 

Non solo guerra reale, però: ci fu anche una guerra televisiva, mediatica. Il ministro dell’informazione, il giovane Jelko Kacin, organizzò ogni conferenza stampa come fosse uno spettacolo di teatro drammatico: si appellava alla comunità internazionale, affinché intervenisse, portando le immagini e le testimonianze degli eccidi compiuti dai soldati dell’Armata Popolare.

 

Come si aveva già avuto modo di vedere con la prima guerra del Golfo, la guerra in Slovenia fece molto leva sull’effetto televisivo: sfruttò al massimo le immagini, le riprese della televisioni per far si che la comunità internazionale, la Comunità Europea in primis, si interessasse del loro conflitto e intervenisse presso Belgrado.

 

Le conseguenze prodotte dalla internazionalizzazione del conflitto attraverso gli organi d’informazione furono principalmente due: i centralisti di Belgrado videro l’inefficienza del proprio esercito, incapace di reprimere gli attacchi della Difesa Territoriale; gli sloveni, invece, si sentirono “aggrediti” dal loro stesso esercito che vedevano come occupante e usurpatore.

 

Il 27 giugno il governo federale, guidato da Ante Markovič, propose l’immediata cessazione delle ostilità e il congelamento dell’indipendenza della Slovenia e della Croazia per tre mesi.

 

Così facendo, data la già riconosciuta debolezza di Markovič, il governo prendeva le distanze dalle azioni dell’Armata Popolare e si metteva al riparo da possibili accuse. Il 28 giugno alcuni Mig federali bombardarono l’aeroporto di Brnik e alcuni reparti cercarono di conquistare alcuni valichi confinari controllati dagli sloveni: l’effetto fu praticamente nullo.

 

Con il passare delle ore aumentavano sempre di più le diserzioni dei soldati federali, dei quali alcuni passarono alla territoriale, altri cercarono di tornare a casa propria. Tutte queste condizioni negative fecero emergere la paralisi strategica dell’esercito federale e la sua incapacità nel gestire la situazione in Slovenia.

 

Era ormai chiaro agli occhi di tutti che con le basi slovene circondati dalla Difesa Territoriale, che praticamente tenevano in ostaggio i soldati e i mezzi nelle caserme, con gli attacchi aerei e terrestri che portavano alcun risultato, la partita era ormai persa. Bisognava solo pensare ad una strategia d’uscita dal pantano sloveno.

 

Con la disfatta dell’Armata Popolare, la comunità internazionale si vide costretta ad intervenire. Le sue precedenti previsioni erano fallite: il governo di Markovič non era riuscito a tenere sotto controllo una situazione incandescente e c’era il concreto rischio che un gli scontri armati dilagassero anche nelle altre repubbliche jugoslave.

 

Una nuova guerra in Europa faceva paura a tutte le cancellerie. I primi che si sarebbero dovuti interessare alla faccenda jugoslava sarebbero dovuti essere gli europei, poiché il problema avveniva in casa loro: questo era infatti la linea diplomatica sostenuta dagli Stati Uniti, che non volevano impegnarsi in un altro conflitto bellico, dopo la guerra del Golfo, e desideravano mettere alla prova la comunità europea in politica estera.

 

Tuttavia, molti al Dipartimento di Stato erano convinti che l’Europa non avrebbe, anche questa volta, superato il test senza gli Stati Uniti.

 

Così, nei primi giorni di violenze in Slovenia, la Comunità Europea decise di costituire e inviare a Belgrado una «troika» diplomatica composta dal ministro degli Esteri del paese che aveva la presidenza della Comunità, dal suo predecessore e dal suo successore: andarono così in Jugoslavia il lussemburghese Jacques Poos, l’italiano Gianni De Michelis e l’olandese Hans Van den Broek.

 

Tutti e tre erano convinti che il momento fosse decisivo per la Comunità, per creare una politica estera indipendente da Washington. «Questa è l’ora dell’Europa. Non è l’ora degli americani» affermavano.

 

Giunti a Belgrado, la troika fu accolta dal presidente Markovič che comunicò loro di aver raggiunto una tregua con gli sloveni: un cessate il fuoco immediato e un congelamento dell’indipendenza per tre mesi di Slovenia e Croazia.

 

L’Europa, però, seguiva la linea del presidente francese Mitterand: non sarebbero dovuti nascere nuovi stati nel continente. Così, la troika ebbe come compito principale salvare l’integrità jugoslava.

 

Nei giorni seguenti, le trattative con i diplomatici sloveni, serbi e croati dimostrarono ben presto che era impossibile seguire questa linea. Inoltre, la Comunità Europea credeva che una nazione non avrebbe mai potuto provocarsi dei danni economici come quelli che un conflitto del genere comporta: si limitava a supporre che appena si fosse superata una soglia limite, oltre la quale non si sarebbe potuti andare, le acque si sarebbero calmate.

 

Gli europei, però, non fecero i conti con il nazionalismo serbo e la voglia di indipendenza e di libertà delle Slovenia e della Croazia, disposte a tutto pur di ottenere le loro richieste. E questa linea di pensiero rappresenterà il fallimento della diplomazia non solo europea, ma mondiale, nel fermare i combattimenti durante le guerre d’indipendenza della ex-Jugoslavia.

 

L’unico che fece un’analisi esatta del conflitto jugoslavo fu il ministro degli esteri tedesco Genscher, il 2 luglio a Klagenfurt, incontrandosi con il presidente sloveno Kučan e il ministro degli esteri Rupel: l’Armata Popolare e il governo di Belgrado avrebbero usato tutti i mezzi a disposizione per raggiungere i propri scopi in Slovenia.

 

Mentre questi si riunivano in Austria, a Belgrado cresceva la consapevolezza della crisi in atto: Miloševič, che ormai guardava «ad altre frontiere da controllare», quelle croate, prese in considerazione l’idea di abbandonare la Slovenia e ritirare l’esercito verso la Croazia, dato che la repubblica meno jugoslava era ormai persa.

 

Il presidente federale Mesič, in qualità anche di capo supremo delle forze armate, aveva ormai proclamato il blocco della ostilità da parte dell’Armata Popolare.

 

Il 3 luglio iniziò la ritirata dell’esercito federale dalla Slovenia verso Varaždin e Fiume, mentre altre unità corazzate partite dalla Serbia si fermarono nella Croazia orientale. Nelle ore successive, gli sloveni si ripresero i valichi di frontiera occupati dai federali e rafforzarono le loro posizioni nei territori sud-orientali.

 

Il 4 luglio la troika, i capi di governo della Slovenia, della Croazia e il capo di governo federale Markovič siglarono a Vienna un documento in otto punti dove si prevedeva la cessazione di ogni ostilità, la liberazione dei prigionieri, circa 5 000, la smobilitazione dei gruppi armati e il ritorno alla normalità delle comunicazioni.

 

L’ultima fase delle trattative di pace dell’indipendenza slovena si tenne il 6 luglio sull’arcipelago di Brioni, davanti a Pola, luogo di soggiorno preferito del maresciallo Tito, che qui trascorreva sei mesi all’anno.

 

Vi presero parte tutti i protagonisti di questo conflitto: la troika europea, il presidente del governo federale Markovič, il ministro degli esteri federale Lončar, i rappresentanti dello stato maggiore jugoslavo e i capi delle delegazioni slovena e croata, Kučan e Tudjman.

 

Le trattative durarono due giorni: alla fine, la Slovenia e la Croazia si proposero di partecipare a futuri colloqui sull’assetto della Jugoslavia, la Presidenza collettiva della Federazione venne reintegrata nella sua autorità, persa durante il conflitto, e tutte le parti in causa condannarono future ostilità reciproche.

 

La Slovenia, in particolare, con il memorandum di Brioni promise di ripristinare la situazione precedente al 25 giugno, giorno dell’indipendenza, per tre mesi, durante i quali si sarebbero decise le competenze dell’Armata Popolare sul territorio.

 

Nei giorni a seguire, il parlamento di Lubiana approvò il documento di Brioni, ma con molte riserve: infatti il presidente Kučan venne accusato in patria di aver gettato via il lavoro svolto nei dieci giorni del conflitto contro l’Armata Popolare, congelando l’indipendenza per tre mesi e non facendo espellere subito gli uomini e i mezzi dell’esercito federale dal territorio sloveno.

 

Ma il suo governo, con il fatto di essersi seduto ad un tavolo di trattative con la Comunità Europea, aveva già ricevuto un primo riconoscimento internazionale come soggetto autonomo. Inoltre, il 18 luglio, la Presidenza collettiva della Federazione si riunì a Belgrado e propose di ritirare completamente l’esercito dell’Armata Popolare dalla Slovenia nei successivi tre mesi.

 

Così di fatto, la Slovenia si ritrovò indipendente dalla Jugoslavia e dal centralismo dei socialisti di Belgrado, che ormai non consideravano più un problema l’indipendenza della piccola repubblica più europea che socialista.

 

Il ritiro iniziò ufficialmente il 29 luglio, e provocò una forte scosse tra i vertici militari: molti di loro videro andare in frantumi lo stato socialista che per decenni avevano servito e la decostruzione del sogno jugoslavo. I soldati serbi, per l’ennesima volta, avrebbero abbandonato la terra in cui vivevano per migrare verso un futuro incerto.

 

Alcuni scelsero di restare in Slovenia, subendo però la diffidenza del nuovo governo. Alcuni ufficiali sloveni abbandonarono la loro repubblica e si stabilirono a Belgrado: qui si ritrovarono ad essere uomini senza patria, senza onore, senza futuro e con una pensione da fame che il governo federale riconosceva loro come misero riconoscimento per il loro servizio svolto.

 

La “Guerra dei dieci giorni” costò la vita a 74 soldati e causò 280 feriti. La Difesa Territoriale fece 4782 prigionieri, catturò 31 carri armati, 4 elicotteri e 230 veicoli vari. Dei 25 000 soldati federali di stanza in Slovenia, quasi 8 000 disertarono o si arresero.

 

La perdita economica per la Slovenia fu di 3 miliardi di dollari. Nonostante questo buco di bilancio, il governo di Lubiana si preoccupò di rifocillare i soldati federali rimasti, fornirgli di biglietto ferroviario e rispedirli a casa loro.

 

Nei giorni del conflitto, alcuni autobus provenienti da Belgrado, pieni di madri di soldati, giunsero nelle caserme federali circondate dalla territoriale per poter visitare i propri figli e cercare anche di riportarli a casa. Quando arrivarono, trovarono un comitato di accoglienza di madri slovene che le accolse con fiori e generi di prima necessità.

 

La Comunità Europea si illuse, dopo la pace fredda di Brioni, che la bizzarra questione jugoslava, con alcune delle sue repubbliche riconosciutesi indipendenti in così breve tempo, si fosse chiuse. Ma si sbagliava: sarebbero trascorsi solo poche settimane prima che il conflitto si spostasse in Croazia e poi ancora in Bosnia. La guerra in Europa era davvero tornata.



 

 

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