N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
La vecchia
farmacia e l’euro
analisi delle
ragioni dell’entrata
della Slovacchia
nell’Eurozona
di Lawrence M.F.
Sudbury
A Bratislava, nella
bellissima città vecchia, proprio dietro la grande
cattedrale gotica di San Martino e a quattro passi dal
Danubio, c’è una vecchia farmacia, ormai abbandonata ma
ancora abbastanza integra. Lo stile della costruzione è
quello tipico di fine ‘800 - primi inizi ‘900, con
qualche concessione liberty nelle balaustre arabescate e
negli ornamenti della facciata. La vecchia farmacia ha
ancora le insegne ben leggibili e sono scritte in tre
lingue: ceco, ungherese e tedesco.
Di fianco alla vecchia farmacia, chiusa tra essa ed un
massiccio edificio ottocentesco, c’è una brutta
struttura squadrata, un parallelepipedo anonimo nel più
puro stile comunista (l’estetica, anche più elementare,
mi fanno capire, era un lusso borghese da abolire). Mi
spiegano che non è esattamente un “panelak”, una delle
case popolari che il regime costruiva in serie, perché è
fatto in muratura e non come tutti i veri “panelak” di
pannelli (da cui il nome) prefabbricati bianchi.
Quando attraverso il
Danubio ed entro nel più grande quartiere di “panelak”
d’Europa, un incubo di blocchi anonimi che si estendono
per ben 11 kmq., mi accorgo della differenza, ma, al
momento, qui, nella città vecchia, dove tutto sa di
storia e cultura, il contrasto tra la vecchia farmacia,
leggiadra ed elaborata, con le sue insegne
internazionali, e questa mostruosità architettonica non
potrebbe essere più netto.
E mi rendo conto che quella visione d’insieme è, al
tempo stesso, una epitome della storia slovacca degli
ultimi cento anni e una spiegazione di quanto sta
accadendo ora a questa piccola e fiera Nazione danubiana.
Capodanno 2009: Bratislava, per l’occasione ribattezzata
“Partyslava” e l’intera Slovacchia sono in festa e ne
hanno ben ragione.
L’occasione è di quelle storiche: non solo l’inizio
dell’anno nuovo ma anche l’entrata del Paese, dalle
00.01 del 1 gennaio, nella zona dell’euro. La
televisione ne parla continuamente da mesi, dando
consigli, mostrando la nuova valuta, spiegando che si
tratta di un grande passo economico. Enormi cartelloni
che inneggiano al passaggio con l’accattivante scritta
“2€€9” campeggiano ad ogni angolo della città e,
immagino, della Nazione.
I politici della moderata sinistra ora al governo (una
sinistra, per altro, a lungo sospesa dall’Internazionale
Socialista per le sue inusitate alleanze con la destra
radicale) hanno già emanato disposizioni per bloccare
gli aumenti dei prezzi per sei mesi, al fine di evitare
il disastro avvenuto nei quindici Paesi che hanno
aderito all’euro prima del loro (ma, mi dicono, in
realtà gli aumenti di acqua, luce e gas ci sono già
stati nei mesi precedenti, un po’ per volta, in maniera
strisciante, per non intaccare il “goodwill” della
popolazione nei confronti della nuova valuta).
Mi chiedo se tutto questo entusiasmo che si respira
nell’aria sia giustificato, anche concedendo il giusto
peso all’orgoglio di essere la seconda Nazione
ex-comunista a rientrare nei parametri dell’euro (e, in
effetti, la prima Nazione dell’ex blocco sovietico,
tenendo conto che in Slovenia il comunismo di Tito, per
quanto ugualmente dittatoriale dal punto di vista
sociale, era sicuramente meno oppressivo dal punto di
vista economico).
Ne parlo con amici del posto. So già che la Slovacchia è
uno dei Paesi europei con il maggior tasso di espansione
economica: nel 1993 al momento della nascita della
giovane Nazione dalle ceneri della Cecoslovacchia, pochi
avrebbero potuto predire che nel 2008 il PIL per
abitante di Bratislava sarebbe stato superiore a quello
di Bolzano, ma i dati Eurostat parlano chiaro, con il
loro +146% per la capitale slovacca e il +136% del
“paradiso atesino”.
E’ una sensazione di ottimismo e di speranza nel futuro
quella che si respira nell’aria: d’altra parte, con un
9% di crescita annua tra 2007 e 2008, la disoccupazione
in calo, gli stipendi che aumentano, e l'inflazione che
resta bassa, la cosa non stupisce nessuno.
Eppure, mi dicono, c’è l’altro lato della medaglia: la
crescita è legata essenzialmente agli investimenti
stranieri che continuano a salire. L’aliquota fiscale
unica è stata la carta vincente e grazie a essa gli
investitori stranieri sono arrivati in massa sulle rive
del Danubio. Un esempio chiarisce bene la situazione:
l’anno scorso la Slovacchia era in competizione con
l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Polonia, altri nuovi
Stati dell’UE, per diventare il Paese natale della prima
fabbrica europea di auto KIA.
Benché il costo della
manodopera fosse identico in questi Paesi, le aliquote
fiscali là erano variabili e dunque la Slovacchia è
stata scelta per impiantare l’industria, cosa che le
porterà un miliardo di euro d’investimenti e creerà 2800
nuovi posti di lavoro. E non è solo la KIA Motors ad
aver scelto la Slovacchia: anche delle grandi industrie
automobilistiche del gruppo Peugeot-Citroën e della
Volkswagen vi si sono impiantate: in particolare, la
Volkswagen, nella sua enorme fabbrica a pochissimi
chilometri da Bratislava, costruisce gli chassis di
tutte le sue Touareg e, dal 2008, tutta la linea Touran.
A breve, se le cose continueranno così, la Slovacchia
diventerà il più grande Paese produttore di auto
procapite al mondo, ma cosa succederà con la crisi
mondiale? Cosa succederà se le multinazionali
decideranno di tagliare i posti di lavoro o anche solo
se troveranno condizioni più economicamente favorevoli
in qualche altro Paese, come ad esempio la Romania?
Insomma, mi spiegano, è un boom fragile quello che la
Slovacchia sta vivendo, legato a capitali esteri molto
più che all’imprenditoria nazionale e a quel 32% di
finanziamenti statali ad una agricoltura che avrebbe
dovuto diventare il settore trainante ma che, comunque,
stenta a decollare. E in queste condizioni, il passaggio
all’euro diventa, dal punto di vista economico, una
grande e rischiosa scommessa.
Da un lato c’è la possibilità che l’euro porti ancora
nuovo flusso di capitali attraverso le accresciute
possibilità di interscambio con l’Eurozona e un aumento
del turismo familiare verso il Paese, a far da
contraltare all’odioso turismo sessuale che sembra
essere solo un retaggio non voluto (e incomprensibile
per gli slovacchi) dell’ultima fase “perestoikizzante”
di un regime in agonia.
Dall’altro lato, però, c’è il pericolo concreto che i
prezzi lievitino proprio a causa di queste nuove
possibilità economiche. E’ già successo: quando, con la
caduta del comunismo, le frontiere si sono aperte, gli
austriaci sono arrivati in massa a fare spese qui,
attirati da prezzi che erano meno della metà dei loro.
Il risultato è che, per naturale legge economica, i
prezzi dei prodotti, all’infuori del cibo e dei servizi
sociali di stato, sono lievitati anche in Slovacchia e a
Bratislava in particolare.
Oggi una nuova ondata di aumenti significherebbe il
tracollo sociale per una Nazione in cui, se anche i
giovani laureati, pur continuando a vivere nei “panelak”
(ma sognando di costruirsi ville fuori città), ostentano
Rolex e cellulari di ultima generazione, gran parte
degli anziani ricevono ancora pensioni di stato di meno
di 400 euro.
Se questo è, dunque, il quadro, perché rischiare di
entrare così presto? Perché non seguire l’esempio dei
“cugini” cechi, né amati né odiati ma semplicemente
ignorati dopo che una incredibile vicenda legata ad un
trattino (i cechi in Parlamento volevano mantenere il
nome “Repubblica Cecoslovacca”, mentre i deputati
slovacchi volevano la ridefinizione in “Repubblica
Ceca-Slovacca”, a sottolineare la loro differenziazione
etnico-linguistica) ha segnato l’inizio della fine
dell’unione federale?
In fondo, quando la
Cecoslovacchia si è divisa la corona era scambiata alla
pari a Praga e a Bratislava e nel 2008, con la forza
dell’economia boema, il cambio era già 1/12 a favore
della valuta ceca, eppure il governo ceco è rimasto alla
finestra, aspettando l’evoluzione della crisi planetaria
prima di prendere decisioni riguardo all’euro…
Forse, la risposta sta nella vecchia farmacia dietro San
Martino, in quello stile liberty e nell’insegna in tre
lingue che dice di un clima di apertura mentale e di
internazionalità.
Qui siamo a Bratislava, anzi, qui siamo a Pressburg,
l’antico nome di una città nel cuore dell’Europa che per
secoli, da quando è stata capitale dell’Alta Ungheria
libera dai turchi a quando è stata sede delle trattative
di pace tra l’Austria e Napoleone, ha sempre vissuto la
storia europea come protagonista.
Mi guardo intorno, nella città vecchia, in quella “Stare
Mesto” che è una Vienna in miniaura, con i suoi palazzi
Biedermeier, con i suoi monumenti di un passato
glorioso, con le sue chiese maestose o con piccoli
gioielli della “Secessione” come la Chiesa Blu, che non
perde il suo fascino aggraziato pur fronteggiata com’è
da un fatiscente casermone degli anni ‘60 che, con i
suoi grezzi bassorilievi sul “proletariato che conquista
il mondo”, appare oggi solo un misero ricordo di
un’epoca di tristezza e di oppressione: guardo Pressburg
e capisco…
Penso a Vienna, così vicina che bastano 50 minuti di
treno o 70 di battello per raggiungerla, fino a 20 anni
fa così lontana da segnare il confine di un altro mondo
e capisco…
Osservo questo popolo, educatissimo, discreto fino ad
apparire mansueto, ma anche fiero al punto da riuscire a
conservare intatti i suoi costumi tradizionali e la sua
lingua dopo secoli di dominazioni straniere, osservo
questo popolo giovane, dinamico, pieno di voglia di
crescere e di aspettative per il futuro, pieno di
progetti per la sua Nazione, per valorizzarla, per farla
crescere agli occhi di potenziali turisti e capisco…
Ascolto gli slovacchi e mi sento ripetere, spesso, frasi
come: “guardati intorno, guarda quante potenzialità
abbiamo… Senza il comunismo oggi Bratislava avrebbe
potuto essere un centro economico come Milano da voi”,
penso che abbiano ragione e capisco…
L’euro, per questo popolo, non è solo una questione
economica: è una rivalsa contro la storia. E’ la rivalsa
di gente che, a fine ‘800, scendeva dai Tatra e dai
Fatra per andare a lavorare nelle nazioni vicine, per
costruire le cattedrali bellissime dei Paesi confinanti,
è la rivalsa di una Nazione asburgicamente raffinata
contro i “panelak” e tutto quello che hanno significato.
L’euro, per gli slovacchi, è la voglia di ritornare
centro d’Europa, un centro che sono già stati, contro
chi ha sempre voluto considerare questi 6 milioni di
persone solo un piccolo popolo di montanari (prima della
divisione mi è capitato di sentir dire da una ceca: “la
Cecoslovacchia sono solo Praga e la Boemia. I moravi
sono solo campagnoli e gli slovacchi dei montanari
ignoranti” e a vedere Bratislava e a parlare con i suoi
abitanti direi che nulla possa essere così falso) o una
massa di “proletari da indottrinare”.
Ecco, forse l’euro è per loro la vittoria della vecchia
farmacia dietro San Martino contro il tetro condominio
popolare che l’affianca. Sicuramente non saranno solo
rose e ci saranno tempi duri, ma dopo aver conosciuto
gli slovacchi e averne capito la voglia di tornare
grandi, è difficile non fare il tifo per loro. |