N. 60 - Dicembre 2012
(XCI)
SKOPAS
IL MAESTRO DEL PATHOS
di Massimo Manzo
Nel
panorama
artistico
del
IV
secolo
a.C.,
noto
come
l’età
del
passaggio
dalla
perfezione
classica
alla
nuova
sensibilità
ellenistica,
la
figura
di
Skopas
riveste
un
ruolo
centrale,
condizionando
in
modo
indelebile
i
futuri
sviluppi
della
scultura
greca.
Solo
analizzando
la
complessità
del
suo
percorso
artistico
si
può
infatti
comprendere
come
dallo
stile
sereno
e
perfetto
di
Policleto
e
Fidia
si
sia
potuti
approdare,
attraverso
l’intermediazione
prassitelica,
ai
nuovi
canoni
artistici
di
Lisippo.
Le
notizie
biografiche
su
Skopas
sono
modeste.
Sappiamo
che
nacque
da
una
famiglia
di
artisti
a
Paros,
isola
delle
Cicladi,
intorno
al
390
a.C.,
ma
si
trasferì
presto
ad
Atene,
dove
mosse
i
primi
passi
nel
campo
della
scultura.
Come
già
era
avvenuto
per
Prassitele,
suo
coetaneo,
il
fervido
clima
artistico
dell’Atene
di
quegli
anni
dovette
influenzare
fortemente
il
giovane
scultore,
che
poté
osservare
e
studiare
il
registro
stilistico
della
piena
età
classica
utilizzato
soprattutto
da
Fidia.
Il
cammino
di
Skopas
verso
la
piena
maturazione
artistica
parte
proprio
dall’assimilazione
del
modello
dei
grandi
maestri
del
V
secolo,
la
cui
influenza
va
scemando
con
l’affermarsi
di
un’espressività
adeguata
al
clima
storico
e
politico
del
secolo
successivo.
Pur
avendo
riscosso
notevole
successo
anche
in
epoche
successive,
l’identificazione
delle
opere
di
Skopas
risulta
spesso
difficoltosa,
data
la
scarsità
delle
copie
giunte
fino
a
noi.
Ciò
nonostante
possiamo
ricostruire
facilmente
le
peculiarità
del
suo
“marchio”
artistico,
così
unico
ed
innovativo
rispetto
agli
scultori
che
lo
hanno
preceduto
o
seguito.
Tra
le
opere
giovanili
intimamente
legate
al
modello
fidiaco
gli
studiosi
pongono
il
cosiddetto
“Apollo
Barberini”,
del
quale
oggi
la
Gipsoteca
di
Monaco
conserva
una
copia.
Tale
scultura
ha
una
storia
travagliata;
realizzata
per
il
santuario
di
Apollo
a
Ramnunte,
in
Attica,
già
in
età
romana
attraversò
il
mare
per
giungere
a
Roma,
dove
ornò
il
tempio
di
Apollo
Palatino
voluto
da
Augusto.
La
figura
è
qui
ancora
rispondente
alle
proporzioni
classiche,
tuttavia
lo
scultore
rivela
delle
potenzialità
tecniche
che
matureranno
nelle
opere
degli
anni
successivi.
Intorno
al
353
Skopas
si
recò
in
Asia
minore,
dove
insieme
ad
altri
importanti
artisti
greci
(tra
i
quali
Leocares
e
Timoteos)
partecipò
alla
realizzazione
del
meraviglioso
Mausoleo,
voluto
dalla
regina
Artemisia
per
celebrare
il
marito
Mausolo,
satrapo
della
Caria.
Probabilmente
all’artista
di
Paros
venne
affidata
la
decorazione
scultorea
del
lato
orientale
del
monumento,
raffigurante
scene
di
Amazzonomachìa.
Il
fatto
che
Skopas,
non
ancora
quarantenne,
sia
stato
uno
dei
protagonisti
della
costruzione
di
un
così
prestigioso
monumento,
aiuta
a
capire
come
la
sua
fama
fosse
già
internazionale.
Terminata
l’esperienza
in
Asia,
che
presumibilmente
durò
qualche
anno,
Skopas
fece
ritorno
in
Grecia,
dove
diresse
i
lavori
di
ricostruzione
del
tempio
di
Atena
Alea
a
Tegea,
in
Arcadia.
In
questa
occasione
dimostrò
di
possedere
la
poliedricità
tipica
dei
grandi
artisti.
Assunse,
infatti,
non
solo
l’incarico
di
scultore,
ma
anche
di
architetto,
progettando
lui
stesso
il
tempio.
Nei
frontoni
scolpì
scene
mitologiche:
la
Caccia
al
cinghiale
calidonio
(in
quello
orientale)
e la
Lotta
tra
Achille
e
Telefo
(in
quello
occidentale).
Gli
scarsi
resti
dei
frontoni
giunti
fino
a
noi,
seppur
malandati,
sono
preziosissimi,
poiché
mostrano
nella
carriera
di
Skopas
un’evoluzione
stilistica
in
pieno
svolgimento.
Alcune
teste
ci
danno
immediatamente
l’idea
di
quali
siano
state
le
novità
introdotte
nella
rappresentazione
delle
figure.
Attraverso
l’accentuazione
di
alcuni
tratti
fisici,
infatti,
come
gli
occhi
incavati,
sgranati
e
rivolti
verso
l’alto,
le
labbra
carnose
e
semiaperte,
Skopas
riesce
a
far
emergere
prepotentemente
la
sofferenza
e la
drammaticità
dei
personaggi.
È
proprio
l’attenzione
al
pathos,
e
quindi
all’interiorità,
a
prevalere
per
la
prima
volta
rispetto
alla
perfezione
esteriore.
Ulteriore
conferma
del
registro
espressivo
adottato
dallo
scultore
di
Paros
sono
poi
due
delle
sue
opere
più
celebri:
il
Meleagro
bronzeo,
scolpito
tra
il
345
e il
340,
di
cui
oggi
possediamo
diverse
copie
marmoree,
e la
Menade
danzante,
risalente
al
330,
conservata
in
una
piccola
copia
al
museo
di
Dresda,
probabilmente
parte
di
un
gruppo
scultoreo
più
ampio.
Nella
prima,
oltre
ai
già
accennati
accorgimenti
presi
dall’artista
nella
riproduzione
del
volto
per
evidenziarne
l’intensità,
mutano
le
proporzioni
corporee
canonizzate
da
Fidia
e
Policleto.
In
questo
caso
la
testa
è
più
piccola,
leggermente
fuori
misura
rispetto
al
corpo
dell’eroe.
Se
pensiamo
a
questa
caratteristica,
tipica
delle
future
sculture
di
Lisippo,
noteremo
come
Skopas
abbia
preannunciato
un
aspetto
essenziale
dell’arte
ellenistica.
Il
capolavoro
dell’artista
di
Paros
rimane
però
la
Menade,
nella
quale
sono
condensati
in
modo
perfetto
tutti
gli
elementi
che
lo
rendono
unico
nella
storia
dell’arte
antica.
Rappresentata
nel
mezzo
dell’estasi
orgiastica,
in
essa
il
disequilibrio
diventa
l’aspetto
centrale.
La
menade
esprime
infatti,
attraverso
l’ardita
torsione
all’indietro,
una
dimensione
di
profonda
irrequietezza.
In
questo
senso
è
come
se
il
corpo
femminile,
incapace
di
controllare
le
pulsioni
interiori,
subisse
delle
contrazioni,
degli
scatti
improvvisi,
spinto
dall’alcol
e
dalla
danza
verso
uno
stato
d’incoscienza.
È
incredibile
che
una
tale
carica
di
pathos
possa
provenire
da
una
piccola
copia,
quella
di
Dresda,
di
appena
75
cm
di
altezza,
per
giunta
in
cattive
condizioni
di
conservazione.
La
sua
forza
espressiva
è
paragonabile
solo
a
quella
dei
famosi
“incompiuti”
michelangioleschi,
scolpiti
duemila
anni
dopo,
quasi
che
un
medesimo
invisibile
sentimento,
attraversando
i
secoli,
unisca
i
due
scultori.
Uno
degli
ultimi
capolavori
di
Skopas
è
senza
dubbio
il
Pothos,
o
desiderio
amoroso,
ideato
intorno
al
330
e
facente
parte
di
un
ampio
complesso
statuario
presente
a
Samotracia,
in
cui
il
maestro
avrebbe
rappresentato
anche
Fetonte
e
Afrodite.
Si
tratta
di
una
scultura
che
ebbe
grande
successo
nel
corso
di
tutta
l’antichità,
tanto
da
essere
riprodotta
in
varie
copie
nei
secoli
successivi.
Nel
Pothos,
oltre
agli
importanti
dettagli
presenti
soprattutto
nel
viso,
come
lo
sguardo
trasognato
che
rende
perfettamente
lo
struggimento
amoroso,
e la
posizione
sbilanciata
del
corpo,
è
presente
un
chiaro
richiamo
allo
stile
di
Prassitele,
cui
Skopas
certamente
s’ispirò.
In
realtà
i
due
maestri,
seppur
in
modo
diverso,
fanno
parte
di
una
medesima
corrente
artistica,
che
attraverso
la
sintesi
compiuta
poco
dopo
da
Lisippo
traghetteranno
l’arte
greca
verso
nuovi
orizzonti.
Will
Durant,
nella
sua
splendida
“storia
della
civiltà”
accosta
in
modo
geniale
Prassitele
a
John
Keats
e
Skopas
a
Byron.
Tale
paragone,
immediato
ed
efficacissimo,
coglie
in
pieno
le
differenze
tra
i
due
scultori
e
nello
stesso
tempo
rende
chiara
l’estrema
originalità
delle
opere
di
Skopas,
caratterizzate
da
un’attenzione
unica
al
carattere
interiore
dei
personaggi,
che
non
si
esprime
più
attraverso
la
grazia
e la
sinuosità
tipiche
dello
stile
prassitelico,
in
cui
i
soggetti
sembrano
vivere
una
dimensione
metafisica,
ma
esplode
in
un’incontenibile
disagio
ed
inquietudine,
di
cui
il
corpo
diviene
lo
specchio
materiale.
È
proprio
questa
la
modernità
di
Skopas:
scolpire
i
sentimenti
e
renderli
immortali.
Riferimenti
bibliografici:
G.M.A.
Richter,
L’arte
greca,
Torino
1969;
A.
Giuliano,
Storia
dell’arte
greca,
Roma
1998;
W.
Durant,
Storia
della
Civiltà,
Vol.
II:
La
Grecia,
Milano
1956.