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N. 94 - Ottobre 2015 (CXXV)

Siracusa sotterranea
Le catacombe di Santa Lucia e i Quaranta Martiri di Sebastea

di Federica Campanelli

 

Le catacombe di Santa Lucia, impiantate nella zona Sud di Acradina, sotto il piano dell'attuale piazza di Santa Lucia, sono tra i complessi cimiteriali cristiani più antichi di Siracusa e della Sicilia. La loro realizzazione si fa risalire ai primi decenni del III secolo (tra il 220 e il 230 circa); di poco successivo – comunque entro la prima metà del III secolo – è invece il sistema cimiteriale di Santa Maria del Gesù, il primo nucleo dell'enorme area funeraria cristiana detta Vigna Cassia, che inoltre abbraccia le catacombe San Diego (anni '70 del 200) e Marcia (IV secolo). Post-costantiniane sono anche le più celebri catacombe di San Giovanni, la cui arteria principale, il decumanus maximus, datato al più tardi nel 360, segue il tracciato di un precedente acquedotto greco.

 

L'aspetto attuale del complesso funerario di Santa Lucia è frutto di un lungo processo di alterazioni che dalla genesi della necropoli è proseguito, attraverso i secoli, fino agli ultimi interventi del XVI secolo, quando fu innalzato il Sepolcro di Santa Lucia che demolì parte della struttura ipogea.

 

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(Foto di Giovanni Dall'Orto)

 

L'area è suddivisa in quattro regioni, A-B-C-D, fittamente collegate da un sistema di gallerie che ospita diverse tipologie di sepolture organizzate secondo il modello romano: loculi disposti in pile verticali lungo le gallerie delle più antiche zone A e B (nell'area N delle catacombe), e cubicoli che si aprono nelle gallerie della zona C (probabilmente posteriore al IV secolo).

 

Le prime importanti modifiche della struttura si ebbero tra VIII e IX secolo, a cavallo tra dominio bizantino e arabo. Nelle regioni A, C e D vennero infatti ricavati alcuni ambienti per il culto; in particolare, nella cosiddetta galleria E del settore A venne ricavato un sacello di cui rimane parte dello sfortunato ma affascinante dipinto murale raffigurante i Quaranta Martiri di Sebastea, un'iconografia oggi insolita nella chiesa occidentale.

 

L'opera celebra i quaranta legionari appartenenti alla Legio XII che nel 323 (o 324) a Sebastea, nel cuore della Cappadocia, subirono martirio sotto il governo dell'imperatore Licinio (308-324).

 

Le decorazioni dell'oratorio furono riportate alla luce nel primo Novecento grazie all'archeologo trentino Paolo Orsi che volle rimuovere lo strato di malta idraulica steso sulle pareti della suddetta galleria. Qui, infatti, si notava un solo elemento pittorico: l'immagine di una Vergine orante entro un clipeo. L'intuizione che il dipinto potesse continuare oltre il medaglione si rivelò giustissima, per tanto si proseguì a liberare l'affresco dallo strato di intonaco che lo teneva in ostaggio sin dal XV secolo, quando l'ambiente venne profondamente alterato per ricavarne una cisterna (identificata con H).

 

Non stupisce, dunque, che la superficie si presenti devastata da numerosi e profondi solchi, dal momento che questi venivano praticati per ottimizzare l'aderenza dell'intonaco al substrato.

 

Sulla volta dell'oratorio si riconosce una croce gemmata con la rappresentazione di due Arcangeli sulle terminazioni della traversa, un Cristo Pantocratore all'incrocio tra i bracci e la figura della Vergine sopracitata nella parte bassa del montante; tutte le figure sono inscritte entro medaglioni.

 

I quattro settori ottenuti dalla ripartizione dello spazio per mezzo della croce sono riempiti dalla rappresentazione dei Santi Quaranta, mentre la parete verticale contigua alla volta presenta una serie di ritratti, alternati da colonnine, dei santi Marciano (primo vescovo di Siracusa), Elena, Cosma, Damiano, nonché l'effigie di due presunti vescovi non identificati a causa dell'illeggibilità delle iscrizioni greche.

 

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Oratorio dei Santi Quaranta Martiri (reg. A)

 

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Particolare dell'affresco (VIII secolo)

 

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Ricostruzione grafica tratta da

Immagini rupestri bizantine nel siracusano, Istina Editore, Siracusa

 

Lo schema compositivo, la ieraticità delle figure ripetute nello spazio e l'uso di particolari decorativi come il nimbo perlato, tipico delle icone bizantine precedenti il IX secolo, risultano utili elementi per la datazione dell'opera, fissata al secolo VIII. Questa (unitamente a parte delle decorazioni parietali degli oratori rupestri di Pantalica; vedi Pantalica, tra archeologia e territorio. Dalle necropoli ai villaggi bizantini Parte I - Parte II), rappresenta un raro esempio di arte pittorica bizantina anteriore alla conquista araba dell'isola.



 

 

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