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filosofia & religione


N. 103 - Luglio 2016 (CXXXIV)

la filosofia kierkegaardiana
il concetto di singolo
di Laura Sugamele

 

Il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard ruota attorno al concetto di singolo. La filosofia del singolo si definisce nella possibilità e nella scelta, una scelta che è radicale e libera. Nella scelta, il singolo mette in gioco la sua intera esistenza, perché con la scelta egli si determina come soggettività.

 

Pertanto, è la dimensione della possibilità, della scelta radicale, che costituisce concretamente il singolo e la sua esistenza. In Kierkegaard vengono, dunque, ad aggiungersi, oltre al concetto di singolo, anche quello di libertà, scelta e rischio.

 

La scelta implica, di fatto, il rischio che si cela dietro ogni libera scelta. In tal senso, il singolo afferma la sua libertà quando sceglie autonomamente, ovvero quando sceglie per se stesso, e tale scelta, è assolutamente individuale e non condizionata da alcuna circostanza esterna o interna.

 

Nel discorso kierkegaardiano emerge, quindi, il carattere della soggettività che ha il suo nucleo basico nella scelta, condizione irrinunciabile e che ha la sua massima realizzazione nel rapporto con l’Assoluto. In questo caso, la scelta è tra il credere o il non credere in Dio. Qui risiede l’aspetto radicale e insanabile della vera scelta.

 

Alla luce di questa considerazione, la libertà implica una incredibile contraddizione: l’uomo in quanto singolo sceglie liberamente e consapevolmente, ma con tale scelta deve decidere se avere fede e quindi credere in Dio. Per questo motivo, la scelta rappresenta una condizione fondamentale per il rapportarsi del singolo con l’Altro, ovvero con Dio. Nella scelta l’uomo si rapporta con l’Altro.

 

È prima una comunicazione interiore, poi con l’Altro. Secondo Kierkegaard, infatti, nella scelta si concretizza effettivamente la relazione tra il singolo e l’Assoluto, tra ciò che è finito e ciò che è infinito, in un rapportarsi comunicativo che ha davvero inizio solo nel momento in cui l’individuo decide realmente di aprirsi a questa comunicazione, comprendendo la sua finitezza, ma nel quale subentra il desiderio di avvicinarsi a Dio attraverso la scelta del pentimento e della disperazione.

 

In tal modo, la verità da ricercare è interiore. Nell’incertezza del rapportarsi con l’infinitezza il singolo si scopre, allora, come soggetto che ha peccato e riconosce il suo errore, dimostrando la reale intenzione di recuperare il rapporto con l’Assoluto, mediante il pentimento e la fede, condizione che comporta l’annullamento della ragione, in quanto la vera fede si accetta totalmente e senza alcun dubbio.

 

La prospettiva sin qui delineata pone il singolo su un piano di messa in discussione rispetto a Dio; l’inter-scambio tra il singolo e Dio si trasforma in un riconoscimento sia della distanza che il singolo prova al Suo cospetto (dovuto al suo essere peccatore), sia della vicinanza di fronte a Lui che il singolo riesce a recuperare con la disperazione interiore e il pentimento.

 

La distanza dall’Assoluto, come iniziale spazio di negatività, viene alla fine ridotta, dispiegando nel singolo una comunicatività positiva che ha la sua liberazione nella sfera religiosa. Da questo punto di vista il peccato attribuisce all’uomo il valore dell’identificazione come essere umano che commette errori, ma che, tuttavia, ha la possibilità di redimersi e comprendere l’inadeguatezza del suo operato, proprio nel rapportarsi col divino, anche con tutte le personali fragilità e debolezze che fanno parte della sua esistenza. In questo senso, l’esempio davvero rappresentativo è quello di Abramo.

 

La fede in Abramo è talmente grande che lo porta a credere nell’incredibile. Questa è la fede nel paradosso. Nella prospettiva kierkegaardiana Abramo è proprio l’uomo che diventa singolo e che crede con assoluta devozione nel paradosso, in ciò che è impossibile. Infatti, quando Dio chiede ad Abramo l’uccisione di suo figlio Isacco, egli non dimostra nessun dubbio e invece ubbidisce al comando divino, affermando un atto di incredibile sottomissione.

 

Di fronte a qualcosa che, di certo, costituisce uno scandalo per la ragione umana, Abramo è l’uomo della fede perché annulla la ragione e decide di credere, motivo per cui la fede è scandalo e pazzia, totale accettazione del comando divino che non solo non può essere compreso e non è comunicabile alla folla, alla massa, ma oltretutto deve essere accettato.

 

Nell’accettare completamente il comando di Dio, si realizza il salto dallo stadio etico a quello religioso. Abramo è stato, quindi, capace di attuare questo salto per abbandonarsi a Dio completamente. Tuttavia, la fede non è qualcosa che si acquisisce immediatamente; è prima di tutto una prova che il singolo deve superare, come Abramo che ha superato la prova che Dio gli ha messo davanti: l’uccisione di Isacco. L’avere fede si deve dimostrare. E Abramo è capace di rinunciare persino al figlio tanto desiderato, in quanto crede. Allora, il singolo diventa tale quando ha fede, ovvero quando si abbandona all’Assoluto e crede nell’assurdo.

 

Con la fede il singolo rinuncia a tutto ciò che è riconducibile al materiale, alla mondanità e alla finitezza; traduce l’individualità in personalità che è il vero obiettivo da raggiungere e che trasforma l’uomo-massa in uomo-singolo.

 

La formazione della personalità si ha, dunque, solamente con il passaggio allo stadio religioso. Se, infatti, l’uomo sceglie davvero l’Assoluto, decide consapevolmente e responsabilmente il cambiamento che, per il tramite del pentimento diventa assoluto, una scelta, un aut-aut in favore di un abbandono radicale della finitezza.


 

Riferimenti bibliografici:

 

Modica G., Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani, Vita e Pensiero, Milano 2007.

Modica G., Fede Libertà Peccato, figure ed esiti della «prova» in Kierkegaard, Palumbo & C. Editore, Palermo 1992.

O’Hara S., Stelli G., Kierkegaard alla portata di tutti. Un primo passo per comprendere Kierkegaard, Armando editore, Roma 2007.



 

 

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