N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
Il fenomeno migratorio cinese
nella
Singapore
del
XIX
secolo
storia
di
una
diaspora
secolare
-
parte
i
di
Emilio
Paolo
Delogu
Singapore
è,
per
lunga
tradizione,
uno
fra
i
punti
di
snodo
fondamentali
dei
commerci
da e
verso
il
sud-est
asiatico:
incorporata
originariamente
nell’impero
marittimo
di
Srivijaya
(XIV
secolo
circa)
e
dopo
una
breve
parentesi
caratterizzata
dalla
conquista
compiuta
dal
Sultanato
di
Malacca,
l’isola
fu
oggetto
di
contesa
fra
portoghesi,
olandesi
e
britannici.
Data
la
favorevole
posizione
geografica,
posta
all’estremità
della
penisola
malese
Singapore
divenne,
sin
dalla
sua
fondazione,
terra
di
immigrazione.
Singapore
è
figlia
della
diaspora,
la
sua
storia
racchiude
innumerevoli
conflitti
di
carattere
etnico
e
geografico
che
lo
stesso
concetto
evoca.
Singapore
testimonia
la
difficoltà
di
creare
uno
stato-nazione
moderno,
fondato
sul
modello
ereditato
dall’Europa,
in
una
regione
in
cui
la
storia
si
fa
beffe
delle
pretese
di
esclusività
linguistica
e
culturale
dello
stato
nazionale
(T.N.
Harper).
Singapore
viene
etichettata
come
figlia
della
diaspora
commerciale
cinese,
una
delle
tante
mete
di
immigrazione
fra
le
più
importanti
in
termini
percentuali,
se
si
pensa
al
fatto
che
già
dal
1881
la
comunità
di
etnia
e
lingua
sinica
rappresentava
la
stragrande
maggioranza
(63%)
dell’intera
popolazione
(B.S.A.
Yeoh,
L.
Weiqiang).
In
realtà,
quantunque
il
fenomeno
migratorio
in
sé
richiami
radici
storicamente
molto
profonde
e
possa
considerarsi
quasi
connaturato
alla
storia
economica
e
culturale
cinese,
la
figura
del
migrante
ad
vitam
rappresentò,
dalla
prima
metà
del
XIX
secolo
circa,
una
vera
e
propria
novità.
In
origine,
l’idea
del
migrante
era
accostata
a
quella
del
mercante
in
movimento
e
cioè
di
colui
che
disponeva
di
proprietà
immobiliari
e
terriere
nei
luoghi
in
cui
commerciava
e in
alcuni
casi,
dove
costituiva
legami
familiari
con
individui
appartenenti
allo
stesso
gruppo
etnico
o
linguistico;
anche
in
questa
seconda
evenienza
tuttavia,
l’immigrato
rimaneva
un
mercante
e
come
tale,
una
volta
sbrigati
gli
affari
e
fatta
fortuna,
tornava
in
patria
a
godere
dei
frutti
del
proprio
lavoro
all’estero.
In
questo
senso
l’isola
di
Singapore
presenta
importanti
ritrovamenti
archeologici
quali
ceramiche,
monete,
gioielli
e
altri
manufatti
provenienti
da
Cina,
India
e
Indonesia,
nonché
resoconti
di
esploratori
e
viaggiatori
che
dimostrano
l’esistenza
nella
zona
di
un
insediamento
abitato
fin
dall’XI
secolo
e
munito
di
una
cinta
muraria
e di
un
fossato.
Alcuni
documenti
cinesi,
a
partire
dal
III
secolo,
fanno
riferimento
a
Singapore
descrivendola
come
Pu
Luo
Chung
(isola
alla
fine
della
penisola).
Il
punto
di
svolta
storico
in
cui
l’immigrazione
inizia
a
diventare
un
fenomeno
massificato
e
stabile
si
situa
intorno
alla
prima
metà
del
XIX
secolo,
quando
la
Compagnia
Inglese
delle
Indie
Orientali
(East
India
Company)
raccoglie
sotto
un’unica
giurisdizione
le
tre
colonie
britanniche
di
Malacca,
Penang
e
Singapore
costituendo
gli
Stabilimenti
degli
Stretti
e
dando
avvio
allo
sviluppo
economico
e
demografico
dell’isola.
La
fusione
mise
fine
ai
giorni
pionieristici
di
Singapore:
la
città
passò
sotto
il
controllo
esecutivo
e
giudiziario
di
Penang
e
dei
funzionari
statali
della
Compagnia
delle
Indie
Orientali
di
Penang
e
Bencoolen
che
adeguarono
la
sua
amministrazione
alle
pratiche
mercantilistiche
della
compagnia
(C.M.
Turnbull).
A
partire
dagli
anni
‘30
dell’800,
grazie
a un
sistema
di
sgravi
fiscali
e
controlli
doganali
meno
severi,
il
porto
libero
di
Singapore
divenne
meta
privilegiata
dei
traffici
marittimi
nel
sud-est
asiatico
e
per
tale
ragione,
il
principale
oggetto
d’interesse
dei
mercanti
della
penisola
malese
dell’arcipelago
delle
Riau-Lingga,
delle
coste
di
Sumatra
e,
in
modo
particolare,
dei
cinesi
provenienti
dalle
provincie
del
Guandong
e
del
Fujian.
Per
dare
maggior
contezza
dell’incremento
di
abitanti
nell’isola,
basti
pensare
al
fatto
che
a
soli
cinque
anni
di
distanza
dalla
fondazione
della
colonia
da
parte
dell’inglese
Sir
Stamford
Raffles
nel
1819,
Singapore
contava
già
10.000
residenti,
aumentati
a
100.000
unità
nel
1871
e
200.000
nel
1901
(S.
Swee-Hock).
Considerando
la
netta
prevalenza
di
individui
di
sesso
maschile
rispetto
alle
donne
(stimata
in
un
rapporto
di 3
a
1),
il
naturale
incremento
demografico
risultava
essere
manifestamente
poco
rilevante
rispetto
al
contributo
alla
crescita
della
popolazione
dato
dai
flussi
migratori.
Come
evidenziano
K.S.
Sandhu
e P.
Wheatley
(W.
Gungwu),
tre
tipi
differenti
di
migranti
di
etnia
cinese
iniziarono
a
stabilirsi
a
Singapore:
il
primo
era
rappresentato
da
quei
mercanti
e
imprenditori
di
lungo
corso
che
avevano
imparato
a
trattare
con
le
amministrazioni
coloniali
britanniche
e
olandesi
ed
erano
in
possesso
di
una
buona
conoscenza
delle
pratiche
burocratiche
e
delle
leggi
europee
che
sovrintendevano
al
commercio
in
quell’area
dell’Asia;
al
secondo
gruppo
appartenevano
tutti
quegli
immigrati
che
disponevano
di
specifiche
conoscenze
e
competenze
utili
al
buon
esito
degli
affari
dei
mercanti
europei
o
degli
stessi
governi
coloniali,
costituendo
un
ideale
raccordo
fra
ciò
che
resisteva
delle
antiche
istituzioni
locali
e le
nuove
forme
di
controllo
e
gestione
del
territorio
introdotte
da
olandesi
e
britannici;
terzo
e
più
importante
gruppo
era
composto
da
tutti
quei
giovani
cittadini
cinesi
che,
disponendo
o
meno
di
legami
familiari
in
loco,
fino
alla
metà
del XIX
secolo
non
avevano
avuto
la
possibilità
di
spostarsi
per
commerciare
o
per
offrire
la
propria
manodopera
all’estero.
La
gran
parte
degli
immigrati
appartenenti
a
quest’ultimo
gruppo
erano
perlopiù
giovani
illetterati,
pescatori,
costruttori
edili
e
mercanti
dediti
al
piccolo
e
medio
cabotaggio;
questi
erano
abituati
a
lavorare
con
ritmi
giornalieri
sfiancanti,
a
vivere
in
modo
frugale
e ad
imbarcarsi
in
rischiose
imprese
marittime.
Quando
non
potevano
contare
sull’appoggio
familiare,
tali
immigrati
cercavano
a
Singapore
coloni
d’origine
cinese
con
lo
stesso
cognome
e vi
stabilivano
legami
economici
e
sociali
dando
vita
a
veri
e
propri
sodalizi
in
grado
di
gestire
le
molteplici
problematiche
della
vita
quotidiana
fra
cui
l’occupazione
e il
lavoro.
Non
ricevendo
alcuna
indicazione
dal
governo
britannico
e
non
avendo
alcun
contatto
con
il
proprio,
questi
immigrati
si
unirono
ai
coloni
che
portavano
lo
stesso
cognome
di
famiglia
che
provenivano
dallo
stesso
quartiere
in
Cina
e
che
parlavano
lo
stesso
dialetto
adottando
simili
occupazioni
lavorative;
formavano
consorzi
o
gilde
che,
andando
al
di
là
delle
normali
corporazioni
commerciali
occidentali,
coprivano
attività
sociali
ed
economiche
oltre
che
attività
puramente
professionali
(T.
Suyama).