N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
INSIEME DI PIÚ
I PASSI DA GIGANTE DEI PICCOLI GRANDI EROI DELLA SINDROME DI PITT HOPKINS
di Giulia Elena Vigoni
Il
20
settembre
2014
s è
tenuto
al
Policlinico
Gemelli
di
Roma
il
convegno
sulla
Sindrome
di
Pitt
Hopkins
in
cui
sono
intervenuti
la
Prof.ssa
Marcella
Zollino,
genetista
e
associato
in
Genetica
Medica
all’Università
Cattolica
del
Sacro
Cuore
di
Roma,
il
Dottor
Gattinara
dell’Ospedale
Pediatrico
Bambin
Gesù,
responsabile
della
Formazione
internazionale
in
pediatria,
C.
Buttarelli,
Presidente
del
Movimento
italiano
malati
rari
ONLUS
e G.
Vizza,
Presidente
dell’Associazione
italiana
Pitt
Hopkins-
Insieme
di
più-
ONLUS
(AISPH).
Ma
cos’è
la
Sindrome
di
Pitt
Hopkins
(PTHS)?
Per
la
maggior
parte
delle
persone
è
una
sindrome
sconosciuta
di
cui
non
si è
mai
sentito
parlare;
pochi
sono
i
medici
che
possono
affermare
di
averla
studiata
e di
riuscire
a
descriverla
e
questo
è
indicativo
del
fatto
che
la
PTHS
non
solo
fa
parte
di
quelle
patologie
“rare”
che
colpiscono
una
persona
ogni
duemila
abitanti
ma
addirittura
rientra
nelle
cosiddette
patologie
“molto
rare”
in
quanto
se
ne
contano
solo
300
casi
in
tutto
il
mondo
di
cui
solo
30
in
Italia.
“La
sindrome
di
Pitt
Hopkins
è
una
condizione
geneticamente
determinata
che
rientra
nel
gruppo
delle
malattie
rare
nell’ambito
delle
sindromi
con
disabilità
intellettive
e
anomalie
fisiche
(…).
Essa
clinicamente
è
caratterizzata
da
ritardo
cognitivo
grave
con
compromissione
del
linguaggio,
ritardo
delle
tappe
motorie,
deficit
neurologici
aggiuntivi
come
crisi
di
iperventilazione,
crisi
di
apnea,
epilessia,
difficoltà
a
coordinare
i
movimenti,
difetti
oculari,
convulsioni,
stipsi
e un
carattere
spesso
amabile
e
dolce”
spiega
la
genetista
M.
Zollino
in
un’intervista
rilasciata
a E.
Vinai.
Tuttavia
la
diagnosi
di
questa
malattia
spesso
erroneamente
confusa
con
la
malattia
rara
di
Angelman
non
è
semplice:
nel
2007
alcune
ricerche
condotte
in
merito
alla
PTHS
dimostrarono
che
questa
patologia
è
geneticamente
causata
dalla
mancata
funzione
del
gene
TCF4
che
in
una
piccola
percentuale
dei
pazienti
risulta
totalmente
rimosso
su
uno
dei
due
cromosomi
18 e
nella
maggior
parte
dei
casi
è
mutato
a
causa
dell’alterazione
di
una
o
poche
basi
del
suo
codice.
“Grazie
all’esame
di
Array-Cgh”
–
continua
la
Prof.ssa
Zollino
– “è
possibile
raggiungere
la
diagnosi
senza
aver
posto
prima
il
sospetto
clinico
solo
nella
minoranza
dei
casi”.
Quando
però
il
gene
TCF4
risulta
mutato
in
una
o
poche
basi
e
non
assente
su
uno
dei
due
cromosomi
18,
è
necessario
porre
il
sospetto
clinico
e
poi
sequenziare
il
gene
ovvero
individuare
tra
i
ventimila
geni
del
genoma
umano
quello
alterato.
Questo
fa
della
sindrome
di
Pitt
Hopkins
una
malattia
più
sotto
diagnosticata
che
“molto
rara”.
Questo
scoglio
deve
però
essere
superato.
Come?
Con
la
ricerca
scientifica.
La
difficoltà
nel
diagnosticare
questa
malattia
certo
non
incentiva
a
finanziare
studi
che
permettano
di
avere
maggiori
conoscenze
e
magari
determinare
una
cura
per
queste
patologie
rare,
figuriamoci
se i
pazienti
affetti
sono
poche
centinaia
in
tutto
il
mondo!
Ma
si
pensi
ad
un
genitore
che
si
sente
dire
da
un
medico
insensibile
“A
cosa
le
serve
sapere
di
cosa
soffre
suo
figlio?
Tanto
non
c’è
una
cura,
non
guarirà
mai”.
Sono
parole
agghiaccianti
che
non
dovrebbero
ma
essere
pronunciate,
a
maggior
ragione
da
una
persona
che
ha
scelto
di
dedicare
la
propria
vita
a
salvare
quella
altrui,
ad
aiutare
e
supportare
i
malati
e le
loro
famiglie
spronandoli
a
reagire
anche
nelle
situazioni
più
difficili.
Per
la
PTHS
non
esiste
una
terapia
perché
è
una
sindrome
genetica,
però
si
può
agire
sui
sintomi
curando
per
esempio
la
stipsi
o
prevenendo
le
crisi
epilettiche
e
non
solo.
La
società
dovrebbe
favorire
una
terapia
abilitativa
per
i
bambini
affetti
da
questa
sindrome
e
aiutare
l’accoglimento
di
questa
patologia
in
famiglia.
G.
Vizza,
Presidente
dell’AISPH,
spiega
che
l’obiettivo
è
quello
di
“arrivare
a
tutte
le
famiglie
in
cerca
di
una
diagnosi,
a
tutte
le
figure
professionali
che
ruotano
attorno
ai
bambini
affinchè
conoscano
i
sintomi
e le
caratteristiche
della
sindrome
e si
possa
arrivare
ad
una
diagnosi
precoce”.
Come
afferma
la
Zollino,
diagnosticare
con
certezza
una
patologia,
anche
se
priva
di
cura
serve
a
tranquillizzare
le
famiglie
sul
futuro
della
loro
prole
anche
se
sana,
a
non
vivere
nel
terrore
che
eventuali
altri
figli
possano
essere
affetti
da
questa
malattia
genetica
o
comunque
a
effettuare
una
diagnosi
prenatale
per
escludere
la
presenza
della
Pitt
Hopkins.
L’AISPH
nasce
proprio
per
dare
aiuto
e
sostegno
ai
bimbi
affetti
dalla
PTHS
e ai
loro
genitori
che
hanno
bisogno
di
confrontarsi
con
chi
sta
vivendo
la
stessa
situazione;
ma
si
rivolge
anche
alla
ricerca
scientifica
per
provare
a
migliorare
la
qualità
di
vita
dei
piccoli
grandi
eroi
affetti
da
questa
patologia
e
alle
loro
famiglie.
Lo
scopo
della
giornata
di
sensibilizzazione
annuale
sulla
PTHS
del
18
settembre
scorso
ha
avuto
proprio
lo
scopo
di
diffondere
la
conoscenza
di
questa
patologia
e di
contribuire
ad
aumentare
la
consapevolezza
e i
finanziamenti
per
la
ricerca
di
una
cura.
Parlare
di
malattie
rare
serve
per
ricordare
i
problemi
assistenziali,
sociali
e
medici
che
esse
comportano;
serve
a
ricordare
l’esistenza
di
“farmaci
orfani”
come
sottolinea
il
Professor
Filippo
Tradati,
cioè
quei
farmaci
che
curano
le
malattie
rare
ma
che
a
causa
della
loro
molteplicità
(circa
7-8
mila)
e
diversità,
faticano
a
riscontrare
l’interesse
delle
compagnie
farmaceutiche
che
ovviamente
prediligono
investire
su
farmaci
adibiti
alla
cura
di
malattie
più
comuni.
Nell’era
del
progresso
tuttavia,
è un
controsenso
restare
aggrappati
a
ciò
che
già
si
conosce
senza
osare
sbilanciarsi
nella
ricerca
per
la
conoscenza
e la
cura
di
malattie
rare.
Non
mi
sembra
che
nonostante
le
attuali
difficoltà
economiche
si
rinunci
a
progettare
dispositivi
elettronici,
computer
e
macchinari
di
ultima
generazione
spesso
anche
inutili.
Perché
invece
esiste
un
blocco
nella
ricerca
scientifica
sulle
patologie
rare?
Ci
si
concentra
così
tanto
a
migliorare
e
progredire
con
la
tecnologia,
con
la
progettazione
e lo
studio
di
strumenti
e
dispositivi
sempre
più
sofisticati
ma
ci
si
dimentica
che
quella
più
complessa,
misteriosa
e
ingegnosa
è
proprio
il
corpo
umano.
La
ricerca
scientifica
otterrebbe
le
più
grandi
soddisfazioni
proprio
spingendosi
oltre
lo
studio
delle
patologie
più
comuni
che
arrecano
più
facili
e
sicuri
guadagni
alle
aziende
farmaceutiche
e
risultati
più
certi
nell’ambito
medico.
La
speranza
che
la
ricerca
può
dare
ai
bimbi
affetti
dalla
sindrome
di
Pitt
Hopkins
e
alle
loro
famiglie
è
immensa;
se
una
cura
non
c’è,
non
vuol
dire
che
la
loro
vita
debba
per
forza
essere
un
inferno;
la
qualità
di
vita
può
essere
migliorata
proprio
grazie
alla
ricerca.
La
diffusione
di
informazioni
e la
conoscenza
sulla
PTHS
può
permettere
alla
società
di
aiutare
chi
vive
questa
situazione
senza
sentirsi
diverso
e
tenendo
presente
l’aspetto
umano
e
non
solo
scientifico
della
patologia.
Questa
è
empatia,
dovrebbe
essere
un
atteggiamento
ovvio
per
l’uomo.
Le
persone
che
ogni
giorno
combattono
per
far
accadere
miracoli
non
sono
semplicemente
“diverse”:
sono
speciali.
Leonardo
è
speciale,
Melissa
è
speciale,
Diego,
Riccardo
e
gli
altri
piccoli
grandi
eroi
che
quotidianamente
regalano
alle
loro
famiglie
immensi
sorrisi
e
progressi
che
pian
piano
riescono
a
realizzare,
loro
sono
speciali.
“Insieme
di
più”
è il
nome
dell’Associazione
ONLUS
fondata
da
G.
Vizza
per
riunire
e
infondere
forza
alle
famiglie
italiane
che
convivono
con
la
PTHS;
“Insieme
di
più”
è un
messaggio
di
speranza
e di
incoraggiamento
per
gridare
al
mondo
che
nessuno
è
solo,
mai.
E
che
soprattutto
nei
momenti
difficili,
diffondendo
conoscenza
su
questa
sindrome,
il
mondo
c’è
ed è
pronto
a
fornire
tutto
l’aiuto
necessario
in
ogni
modo
possibile.