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N. 95 - Novembre 2015 (CXXVI)

L’interventismo rivoluzionario
Corridoni, sindacalista caduto per l’Italia

di Gaetano Cellura

 

Sindacalista agitato e agitatore lo definisce Leonardo Sciascia nel romanzo breve 1912+1. Ed erano quelli infatti anni di grandi scioperi generali e di scelte di campo che non ammettevano compromessi. O stavi con i padroni oppure con gli operai. O eri favorevole al colonialismo o vi ti opponevi decisamente.

 

La via del riformismo socialista non veniva presa mai in considerazione, e anzi fortemente avversata, da uno che si era formato nel sindacalismo soreliano e che continuava a leggere Marx e persino Carlo Pisacane.

 

Il fascismo al potere ne fece un’icona e un suo eroe. “Dove è nato Garibaldi, dove è morto Corridoni, disertori né ribaldi non saranno mai padroni”. Mussolini cambiò con la medaglia d’oro quella d’argento conferitagli al valore militare. Edificò in suo onore monumenti futuristi come a Fogliano Redipuglia, gli intitolò piazze e scuole e ribattezzò Corridonia la sua città di nascita, che si chiamava Pausula (in provincia di Macerata).

 

Filippo Corridoni, morto nella Grande Guerra cent’anni fa, era sindacalista rivoluzionario, scrittore e giornalista. Acceso antimilitarista al tempo della guerra di Libia, ma interventista quando l’Italia si divise in favorevoli e contrari sull’entrata nel Primo conflitto mondiale, per molti la nostra Quarta guerra d’indipendenza.

 

Il proprio interventismo convinto Corridoni lo mise in pratica arruolandosi volontario, benché le sue condizioni di salute non lo rendevano idoneo al servizio militare e ancora di più alla guerra.

 

Malato di tisi, venne assegnato ai servizi di retrovia. Ma la sua volontà di combattere era così forte da indurlo a correre verso la prima linea. Inseguito, fu arrestato e accusato di diserzione. Il giudice della Corte marziale credette però alla sua buonafede e al suo ardimento e ne premiò le aspirazioni mandandolo in trincea. E nella guerra di trincea impastata di sangue e fango si sarebbe compiuto il suo destino il 23 ottobre del 1915. Corridoni era giovanissimo: aveva appena ventott’anni.

 

Cinque mesi prima l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria. Sul Popolo d’Italia Mussolini gli dedicherà nel 1917 un appassionato articolo: “Corridoni era un nomade della vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni e camminava così, nella sua tempestosa giovinezza, combattendo e prodigandosi, senza chiedere nulla”.

 

Durante il fascismo l’immagine che ne venne diffusa nelle aule scolastiche – ricorda Leonardo Sciascia – fu quella di un uomo d’ordine: “serena espressione, ben pettinato, colletto inamidato, cravatta”.

 

Del movimento sindacale e socialista Filippo Corridoni rappresentava l’ala proletaria. Era figlio d’operaio e nel 1905, trasferitosi a Milano, aveva trovato lavoro come disegnatore tecnico presso l’industria metallurgica Miani e Silvestri.

 

L’agitazione sociale che viveva allora la grande città, l’amicizia e l’influenza di sindacalisti e intellettuali di scuola soreliana come i fratelli De Ambris (uno dei due, Amilcare, era suo cognato), e come Angelo Oliviero Olivetti e Sergio Panunzio, agirono in maniera determinante su di lui tracciando la strada per passare dalla teoria alla pratica, dagli scritti sui giornali (Rompete le Righe, L’Internazionale, Bandiera Rossa, Avanguardia) alla lotta sociale vera e propria e al radicamento dell’ideologia classista nelle masse popolari.

 

Corridoni abbinò l’attività sindacale a quella di dirigente del Partito socialista. Partecipò agli scioperi, continuamente muovendosi tra Milano, Parma e Genova, conobbe il carcere e l’esilio, e sebbene le sue idee sindacali e politiche fossero di minoranza fu riconosciuto come capo del sindacalismo rivoluzionario milanese. In carcere, nel febbraio del 1915, scrisse Sindacalismo e Repubblica, manuale di democrazia diretta e apartitica.

 

I fattori che mutarono il suo (fin a quel momento) fermo atteggiamento politico e fecero di lui un interventista rivoluzionario furono lo scoppio della Prima guerra mondiale, innanzitutto (uno di quegli avvenimenti che “scuotono – scrisse – la fede più cieca e incrollabile”), il dovere per i proletari di essere prima italiani e poi socialisti, e la vicinanza alle posizioni di Benito Mussolini, altro socialista convertitosi all’interventismo. E a lui Corridoni scrisse un messaggio mentre partiva per la “linea del fuoco”: “Carissimo, in te bacio tutti i fratelli delle battaglie di ieri sperando nell’avvenire. Viva l’Italia!”.

 

Ma molti dei “fratelli di ieri” – dei socialisti neutralisti cioè – già lo consideravano un traditore e un venduto. Assegnato al 32° reggimento della Brigata Siena, durante l’attacco all’imprendibile Trincea delle Frasche, vicino a San Martino del Carso, Filippo Corridoni si espose troppo al fuoco nemico e un colpo di fucile lo colpì alla fronte. Il suo corpo non venne più ritrovato.

 

Fascisti e socialisti se ne contesero l’eredità politica e sindacale. Giuseppe Di Vittorio, suo vecchio compagno e leader della Cgil, scrisse che, se fosse sopravvissuto, Corridoni non avrebbe mai aderito al fascismo. Perché era troppo onesto, coraggioso e leale per mettersi al servizio degli agrari. E Alceste De Ambris parlò di usurpazione di cadaveri da parte di Mussolini.

 

Esattamente due mesi dopo la morte in guerra di Corridoni, sulla Cima Quattro, ed era l’antivigilia di Natale, Giuseppe Ungaretti avrebbe scritto la poesia Veglia. Faceva il soldato in trincea e si trovò accanto per l’intera nottata il cadavere massacrato di un compagno con la “bocca digrignata volta al plenilunio”. Il poeta confessa negli ultimi tre versi di Veglia di non essere mai stato tanto attaccato alla vita, come in quel momento.



 

 

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