N. 22 - Marzo 2007
SILENZIO,
SIAMO IN DARFUR
Cosa sappiamo veramente del conflitto in
Darfur?
di Laura
Novak
Genocidio
è oggi, nella fitta rete di comunicazione esistente,
una parola che genera paura. Ma forse
non ancora il sufficiente rispetto. Le fonti di
informazioni moderne hanno sì un loro codice
linguistico, ma, almeno per la zona del mondo che mi
interessa trattare, non è un codice legittimo, morale
e veritiero. Parlano di genocidio, ma non danno l’idea
di cosa sia, lì, un genocidio.
Dal 2003 il Darfur è il
ghetto del mondo. Ed è ghetto nella sua accezione più
letterale, segregazione sociale e umanitaria
localizzata geograficamente, ma lo è anche nel suo
senso più squallido, di abbandono nell’oscurità.
Lo spettatore tuttologo
affetto da una forma di clientelismo nei confronti dei
mass media contemporanei, crede di sapere, ma in
realtà è lasciato nel suo buio.
Raccogliendo materiale
per documentarmi sul situazione in Darfur ho capito.
Le fonti che sono
riuscita ad analizzare per poter avere un quadro
logico e lineare delle motivazioni e degli sviluppi di
questo conflitto, sono state ricercate a lungo, nel
marasma di fonti incomplete, superficiali e vittime,
loro malgrado, di quei giochi sotterranei da sempre
utilizzati dai governi coinvolti per non far
trapelare, per evitare la cosiddetta “fuga di
notizie”.
L’inizio ufficiale del
conflitto viene datato nel febbraio 2003. Ma la
situazione è compromessa da tempo.
Fin dalla sua
indipendenza, ottenuta dalle forze inglesi in unione
con quelle egiziane nel 1956, la struttura sociale del
paese è più che complessa, è traballante. Al suo
interno infatti due popolazioni opposte per origine,
usanze e religione, condividono in maniera tristemente
coatta lo spazio vitale e abitativo. Da una parte i
popoli stanziali, le eterogenee ed antiche etnie
africane da sempre abitanti legittimi del luogo;
dall’altra, tutte quelle tribù seminomadi arabe che
decisero di spezzare la loro peculiarità di mobilità,
per prendere possesso di un luogo topografico e, in un
certo senso, di una stabilità durevole.
Questa dicotomia
arabo-africana è stata per anni considerata la miccia
della bomba. Troppo semplicistico.
In realtà questa stessa
dicotomia ha avuto momenti in cui dicotomia non era,
periodi in cui i gruppi si sono fusi e scissi,
attraverso varie tipologie di legami umani, senza
scosse notevoli. Tra la fine degli anni Sessanta, ma
soprattutto all’inizio degli anni Ottanta, la vicenda
si connota di aspetti imprevisti.
Sull’onda dell’idea
libica, con ideatore l’onnipresente comandante
Gheddafi, della nascita di una grande lega dei paesi
islamici, che avesse come obiettivo la supremazia
della causa araba, i rapporti tra le due popolazioni
iniziarono quel cammino verso l’esasperazione.
Il contesto è stato
ovviamente influenzato anche da fattori esterni, come
carestie improvvise in alcune parti del paese, che,
annientate, gravavano sull’economia delle altre, le
condizioni sanitarie pessime a cui la popolazione era
costretta a sottostare….e ovviamente un governo
disequilibrato, tendenzioso e incapace.
I protagonisti assoluti
dello scenario diventano quei gruppi ribelli che, alla
fine degli anni ’90, vanno ad ufficializzare la loro
nascita; sono gruppi nati a livello locale, come Il
JEM (il Movimento di Giustizia ed Eguaglianza) , lo
SLM (il Movimento per la Liberazione del Sudan, dal
2006 unitosi al gruppo JEM) o il FLD (Fronte di
Liberazione del Darfur), che, trasformatesi in
eserciti militari gerarchici, tentarono, per loro
dichiarazione, di arginare lo strapotere delle etnie
arabe e di ridimensionare l’appoggio, considerato da
loro evidente, del governo sudanese alla causa
islamica.
Il primo attacco del 26
febbraio 2003 fu compiuto proprio dal FLD contro un
quartier generale dell’esercito governativo. E’ lì che
il governo venne a conoscenza dell’esistenza di un
fronte compatto per la Liberazione.
Dopo non molto,
nell’aprile del 2003, prese vita una forza armata
congiunta, chiamata Esercito Ribelle di liberazione
del Popolo del Sudan (SPLA). Gli attacchi diventarono
sempre più cruenti, gli obiettivi sempre più precisi:
guarnigioni militari in missione di ricognizioni,
attentati a distretti di polizia, a cantieri per la
costruzione di oleodotti e impianti petroliferi
sorvegliati da forze armate.
La tattica è da anni
sempre la stessa. Attacco a sorpresa, veloce,
istantaneo, di breve durata, e, subito dopo, la fuga.
A questo, spesso, un esercito anche se organizzato e
ben equipaggiato, non riesce a far fronte, forse per
quello stesso addestramento militare assorbito,
diventato quasi uno schema mentale, impiantato
sull’idea di una guerra lunga, aperta, non mobile né
veloce.
Questa è guerriglia, non
guerra.
Gli innumerevoli
fallimenti di tattiche dell’esercito governativo nel
corso del 2003, portò il governo sudanese ad una
scelta.
E’ il punto di svolta
nella storia del conflitto.
L’azione passò in mano
all’Intelligence militare e alle milizie cosiddette
Janjaweed, milizie semi clandestine, composte in larga
parte da pastori nomadi dell’etnia Baggara, a cui
furono concessi diritti pari all’esercito regolare, un
affiancamento in tutto e per tutto, con tanto di
concessione di strumentazione ed equipaggiamento in
dotazione solo all’esercito.
La situazione a quel
punto iniziò a cambiare rotta. Dal 2004 le milizie
Janjaweed iniziarono ad ottenere vittorie consistenti.
Ma come?
Per denuncia di
osservatori delle Nazioni Unite, inviati a sostenere
una condizione umanitaria già al collasso nel 2004,
migliaia di persone furono allontanate dalle loro
abitazioni in maniera violenta, illegittima; centinaia
di uomini furono uccisi nel tentativo di difendere la
propria proprietà e altre centinaia costrette
all’emigrazione verso il Ciad.
Diversificazione di
strategia, si potrebbe cinicamente e squallidamente
chiamarla.
Quello che è però alle
cronache, seppur quelle più specializzate e
nell’oscurità dell’informazione, quell’oscurità a
volte più intelligente, è in realtà un genocidio
sistematico, tattico, che dal 2004 miete vittime non
calcolabili a centinaia né a migliaia.
I rapporti dell’ONU e
delle maggiori associazioni umanitarie non militari,
che si occupano di diritti umani, ormai sembrano
arrendersi ad accettare delle cifre che fanno
rabbrividire, creano vergogna. Sono cifre non del
tutto precise, ma che faticosamente si è cercato, come
un puzzle, di ricostruire.
Gli ostacoli sono
innumerevoli: non solo, infatti c’è un problema di
conteggio demografico esistente, dove le strutture
amministrative del Sudan sono talmente carenti da non
riuscire a stabilire, con censimenti, nascite e morti,
il numero della popolazione attuale, abitante il suolo
del paese; ma sono anche ostacoli derivanti da quella
muraglia che, da sempre, il governo sudanese ha
costruito contro tutto e tutti, per evitare che la
vera natura del disastro umanitario venisse alla luce.
Un articolo del
settembre 2006 dello UN News Service ha
dichiarato che secondo fonti delle Nazione Unite più
di 400.000 persone siano morte nel conflitto (durato
solo tre anni) e 2 milioni di persone siano state
costrette ad abbandonare il paese. Ad oggi, nel 2006,
queste cifre sono state riconosciute e ufficializzate
dalle Nazioni Unite. Il disastro umanitario del nuovo
millennio.
E non ha a questo punto
grande rilevanza il tentativo della primavera del 2006
di firmare un accordo di pace tra governo del Sudan e
lo SLA (Esercito di Liberazione Sudan), in cui si
prevedeva lo smantellamento delle forse ribelli, in
cambio di un loro assorbimento nell’esercito regolare
e del disarmo delle milizie Janjaweed.
Un accordo è inutile,
anzi in qualche modo controproducente, se non viene
rispettato. La pace durò due mesi, fino ad agosto
2006.
La rabbia è ormai
esplosa, senza possibilità di essere sepolta da ceneri
buoniste di operazione umanitarie o interventi
esterni.
Si può parlare allora di
genocidio o di pulizie etnica o di vittime cadute per
la libertà; si può parlare o si può rimanere in
silenzio.
Come un’informazione,
che cerchi di arrogarsi questa definizione
(informazione, far conoscere quello che non si
conosce) possa stendere delicatamente, senza far
troppo rumore, un velo su 2 milioni di morti, nessuno
se lo chiede. Il sopruso maggiore, secondo la mia
opinione, sta poi in quel dire poco, sporadicamente, e
dirlo a mezza bocca, uno squallido lasciar intendere.
Dove siano le colpe di
questo inganno non è importante; non sono del tutto
nell’informazione un po’ troppo spesso manipolata, non
sono nemmeno completamente nella pigrizia e nella
paura del lettore, anche se ormai di lettore non si
può più parlare, che vuole sentire, in qualche modo
sapere, ma non conoscere.
Di certo si sa solo che
ora, quella dicotomia, è tramutata in odio razziale,
in emarginazione totale, in cui le vittime della fame,
dell’abbandono, della segregazione, del terrore,
continuano a rimanere sempre le stesse, come in Ciad o
in Somalia: donne, bambini, perfino neonati. Sono
senza la certezza di un futuro.
Quello che in Africa non
miete l’Aids in termini di vittime, lo mietono i
proiettili e l’indifferenza. |