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antica


N. 116 - Agosto 2017 (CXLVII)

il divino silenzio

Miti, divinità, feste e luoghi di culto nell’antica Roma

di Alessandra Romeo

 

Le divinità legate al silenzio nel mondo romano sono molteplici, ma con puntuali caratteristiche in comune.

 

Il culto del silenzio affonda le proprie radici nell’antico Egitto, dove si venerava la divinità solare Horus. Il credo si trasferì nel mondo greco e successivamente a Roma con la venerazione di Arpokrates, da identificare come Horus fanciullo. Il dio era raffigurato come un bambino in braccio a Iside, madre di Horus, o su un fiore di loto, con un dito sulla bocca e con al collo un bulla, un amuleto fatto indossare ai figli maschi a partire dal nono giorno dalla nascita e per tutta l’adolescenza. A volte portava una cornucopia, in quanto identificato anche come dio dell’abbondanza.

 

Si attesta, inoltre, la venerazione della divinità allegorica Silenzio, anch’essa rappresentata come una figura maschile con un dito sulle labbra chiuse.

 

Legate al culto in esame vi erano anche divinità femminili. Muta, o Mutea, era la dea del silenzio per antonomasia. Il mito narra che fu ridotta al silenzio da Giove, tramite taglio della lingua, per punirla dei continui pettegolezzi che diffondeva.

 

La si identifica alle volte come sposa di Mercurio, dio dei crocicchi e della prosperità, e madre dei Lari. I Lares erano le anime dei morti degli uomini venerati dopo la morte e che presiedevano al focolare domestico. Erano raffigurati in statuette (sigilla) di adolescenti con in mano una cornucopia o un rithon, danzanti sulle punte dei piedi e vestiti di abiti corti. Esse erano conservate e venerate in un apposito luogo, il Larario, un’edicola in genere posta nell’atrio della casa.

 

I Lari si distinguono in Lares domestici, gli spiriti degli antenati, a capo dei quali era il Lar familiaris, ossia il capostipite della famiglia, e i Lares publici, tra cui spiccano i Lares Praestites, protettori della città e raffigurati con un cane al seguito, i Lares Compitales, protettori delle varie divisioni urbane e dei crocicchi, i Lares Permarini, protettori della navigazione, e i Lares Augusti, i Lari della famiglia imperiale il cui culto era pubblico.

 

La dea, quindi, aveva legami cultuali con l’aldilà e, in effetti, rappresentava l’eterno silenzio e, tal proposito, un suo appellativo era “Tacita”.

 

Muta era venerata durante le feste Feralie, nel giorno conclusivo delle Parentalia. I Parentalia o dies parentales si celebravano a Roma fra il 17 e il 21 febbraio per commemorare i parenti defunti. Questi giorni erano considerati funesti e quindi i templi restavano chiusi e le attività principali erano sospese.

 

Ai defunti si offrivano corone di fiori e farina di farro, ma il rito vero e proprio era officiato da una donna anziana: si ponevano tre grani di incenso sotto la soglia di casa, nel punto in cui un topo ha scavato la sua tana, poi si pronunciavano parole magiche mentre tre fili di piombo venivano fatti girare attorno ad un fuso e si mettevano sette fave nere nella bocca di un pesce, una menola (maena), la cui testa era poi ricoperta di pece. Questo era poi infilzato con un ago di bronzo, arrostito e cosparso con del vino. Il rito si conclude con la frase Hostiles linguas inimicaque vinximus ora, “abbiamo incatenato le lingue ostili e le bocche nemiche” (cfr. Ov. fast. 581-582).

 

I Feralia si celebravano l’ultimo giorno delle Parentalia in onore delle anime dei defunti, i Mani (“i Benevolenti”, da interpretare come i Lares domestici), che secondo la tradizione ritornavano sulla terra per vagare tra i vivi pur rimanendo invisibili. Erano offerti sulle loro tombe vino, latte, miele e fiori.

 

I Mani erano indicati anche come figli della dea Mània, “Madre dei Mani”, a cui era dedicato un culto durante i Compitalia, feste in onore dei Lares Compitales, venerati in piccoli sacelli eretti nei crocicchi dei possedimenti terrieri.  Il rito prevedeva, alla fine della stagione della semina, l’offerta di un giogo, di gomitoli, che rappresentavano i componenti delle famiglie officianti, e pupazzi di lana, metafora degli schiavi delle famiglie.

 

Le feste avevano inizialmente, quindi, carattere rurale e furono trasferite a Roma, dove ormai i crocicchi erano quelli tra le divisioni urbane, da Servio Tullio: la data era sempre in relazione alla fine della semina e quindi tra la fine dei Saturnalia (dal 17 al 23 dicembre) e il mese di gennaio. Successivamente la data divenne fissa, tra il 3 e il 5 gennaio. Durante le feste si svolgevano anche i Ludi Compitali, con gare di lotta, corsa e recitazione.

 

Non è da escludere, quindi, l’identificazione di Muta con Mània. Un’altra divinità correlata a Muta era Lara, Larunda o Lala, “la chiacchierona”.

 

Il mito la ricorda come la ninfa, figlia di Almone, che informò Giunone delle intenzioni fedifraghe di Giove e il piano che egli aveva escogitato per far sua la ninfa Giuturna, che a sua volta poté così salvarsi. Giove, dopo averle strappato la lingua, consegnò Lara a Mercurio affinché la portasse negli Inferi, condannandola ad essere la ninfa delle acque dei morti. Il dio si invaghì della sventurata e la stuprò. Dall’unione nacquero una coppia di gemelli, i Lari (cfr. Ov. fast. 2, 607-616). Puntuali sono, quindi, le analogie con Muta.

 

Secondo gli studiosi, il luogo di culto dedicato a Lara si trovava nelle pendici nord-occidentali del Palatino. Importante divinità, infine, era Angerona. Essa era venerata come guaritrice della malattia angina (letteralmente “angoscia”) e come divinità dell’anno nuovo, infatti il nome deriverebbe da angerere, “sollevare”, in riferimento al levarsi del sole all’orizzonte dopo il solstizio d’inverno. Essa è da considerarsi, quindi, una divinità dell’anno nuovo venerata proprio il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno.

 

Angerona era anche dea del silenzio. Questa interpretazione è supportata dall’iconografia: la dea è rappresentata come una donna con la bocca cucita o imbavagliata o con un dito sulle labbra, in atto di silenzio. Secondo quanto riportato dalla studiosa Ferrari, in riferimento a questa terza essenza della dea, essa era anche la divinità della segretezza, «in relazione al nome segreto della città di Roma e al nome della divinità protettrice della città: su entrambi i nomi infatti era convinzione che si dovesse mantenere il più assoluto riserbo, per evitare che i nemici potessero evocarli a sproposito danneggiando la città» (Ferrari 2015, p. 53).

 

A differenza di Muta, questa dea non era stata ridotta al silenzio, ma lo interpretava, se riferito ai silenziosi dolori psicologici della depressione (angina) e al dissimularli agli altri, o lo intimava, se riferito alla difesa del nome di Roma dai nemici o in generale al valore del silenzio e della riservatezza tanto caro ai Romani.

 

Le sue feste, Divalia o Angeronalia, cadevano il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno.  I sacerdoti immolavano una vittima e gli officianti offrivano doni. Era un rito iniziatico, come suggerisce il giorno sacro, in cui si celebra la fine delle sofferenze e dell’oscurità, in favore della rinascita spirituale.

 

Il culto era praticato nel Sacellum Volupiae. La dea Volupia era la dea del piacere e probabilmente le due divinità erano collegate per via del del sollievo che i malati provavano una volta guariti grazie ad Angerona.

 

Famiano Nardini afferma che questo «rotondo Tempietto» si trovava sul lato occidentale del colle Palatino, verso il Velabro (la valle tra il Campidoglio e il Palatino stesso) e presso la porta Romanula, una delle quattro porte delle mura di Romolo che circondavano il colle e ormai perdute. Nello specifico lo colloca tra le odierne chiese di S. Anastasia e di S. Teodoro.

 

Esso sembra sorgere, quindi, nel luogo in cui si colloca il Sacellum Larundae citato in precedenza e sembra suggerire un’ulteriore identificazione delle dee in un’unica divinità dai molteplici volti.

 

Le fonti, infine, presentano un ulteriore personaggio legato al silenzio: esso, secondo quanto riportato dalla studiosa Ferrari, «era collegato nella mitologia anche al mito di Narciso, venerato come “eroe del silenzio”» e, infatti, lo stesso Strabone (Str. 9, 404) «ricorda che presso il santuario di Anfiarao era posto un cenotafio nel quale si venerava Narciso come “eroe del silenzio”: del silenzio Narciso era appunto la personificazione, e per questa sua caratteristica era messo in rapporto con il mondo dei morti» (Ferrari 2015, p. 485).

 

Allegoria, divinità o eroe, quindi, innegabile è lo stretto legame tra il silenzio e la sfera funeraria e con i cicli morte-rinascita e dolore-guarigione.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Coarelli, f., Roma, Guide Archeologiche, Laterza, Roma 2001, pp. 154-155.

Ferrari, A., Dizionario di Mitologia greca e latina, UTET, Torino 2015, pp. 53; 485; 644.

Filippi, D., Ricerche e scavi in corso sulle pendici settentrionali del Palatino, in The Journal of Fasti Online, 2004.

Grimal, P., Enciclopedia della Mitologia, trad. it. P. A. Borgheggiani, a cura di C. Cordié, Garzanti, Milano 2005 (ed. orig. Dictionnaire de la mythologie grecque et romaine, Presses Universitaires de France, Paris, 1979), pp. 364-366.

Nardini, F., Roma antica, 1819, p. 426.



 

 

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