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N. 114 - Giugno 2017 (CXLV)

ANTIOCO VII SIDETE

L’ULTIMO DEI SELEUCIDI
di Roberto Conte

 

Quasi tutti gli imperi della storia, al momento della loro parabola discendente, hanno avuto un qualche personaggio eccezionale che, tentando di andare a ritroso nel tempo, si è sforzato invano di restituire al proprio popolo la primitiva magnificenza o, almeno, di arrestarne il declino ineluttabile. Fu questo il caso di Cleomene III per Sparta, del magister militum Ezio o dell’imperatore Maggioriano per Roma, del califfo al-Nasir per la dinastia abbaside, o dei gran visir Köprülü per l’Impero Ottomano.

 

Anche l’Impero Seleucide, la più grande entità statale creatasi al momento della disgregazione degli enormi domini di Alessandro Magno, e proprio per la sua vastità e eterogeneità di popolazioni la più vulnerabile tra tutte, ebbe questo suo tardivo alfiere: il suo nome era Antioco, VII secondo il computo dei monarchi seleucidi, detto Sidete dalla città della Panfilia, Side, in cui trascorse la sua giovinezza.

 

Stando alle parole di Eusebio di Cesarea (Chronicon, I, pg. 256), che pone la sua morte al trentacinquesimo anno di vita, Antioco nacque intorno al 164 a.C., secondogenito di Demetrio, a sua volta fratello del re di Siria Antioco IV Epifane. Se la data della sua nascita è esatta, essa sarebbe avvenuta a Roma, o comunque nel territorio della Repubblica, poiché all’epoca suo padre si trovava lì come ostaggio.

 

Già due anni dopo, tuttavia, Demetrio riuscì a fuggire dalla sua dorata prigionia e a impadronirsi del trono, spodestando il giovane nipote Antioco V, che mise a morte insieme al suo tutore Lisia.

 

Dunque la fanciullezza di Antioco Sidete si svolse in Siria, ma ben presto nuove nubi si addensarono sulla sua esistenza. Per quanto governasse con un certo successo, Demetrio si alienò rapidamente molte simpatie a causa della sua arroganza, e dovette affrontare la minaccia di un nuovo pretendente al trono, Alessandro Bala, che affermava falsamente di essere figlio illegittimo dell’Epifane, e poteva contare sull’appoggio tanto dei Tolomei d’Egitto quanto degli Attalidi di Pergamo. Di fronte a questo pericolo, il re decise di mettere al sicuro i propri figli, inviando l’omonimo primogenito a Cnido e Antioco a Side, località nominalmente sotto controllo pergameno, ma che in realtà godeva di un’instabile autonomia.

 

Negli anni successivi il nostro personaggio sembra scomparire del tutto dalle turbolente vicende storiche dell’epoca: né la morte del padre nel corso della battaglia finale contro il suo rivale, nel 150, né quella di Alessandro Bala durante quella dell’Enoparo, nel 145, con la conseguente presa del potere da parte di suo fratello maggiore Demetrio (II), né la guerra che quest’ultimo dovette portare avanti con vicende alterne contro uno dei generali di Bala, Diodoto Trifone, alterarono in modo significativo la sua esistenza in un luogo appartato e tranquillo, in stridente contrasto con il periodo di profonda crisi e di incipiente dissoluzione che attraversava l’Impero Seleucide.

 

Il regno di Antioco III (223-186 a.C.) aveva segnato al tempo stesso il suo apogeo e l’inizio del suo declino. Il grande sovrano era riuscito a riaffermare la propria autorità sulle satrapie orientali con la sua spettacolare Anabasi, che lo aveva condotto sino alle soglie dell’India, e a sottrarre Celesiria e Palestina agli eterni rivali, i Tolomei d’Egitto, con la battaglia di Panion (199 a.C.), ma poi si era voluto misurare con la potenza di Roma per il controllo della Grecia, e ne era seguita una guerra rovinosa (192-188 a.C.), che alla fine l’aveva privato di quasi tutta l’Asia Minore, territorio fondamentale tanto per il mantenimento dei contatti con la madrepatria ellenica quanto come serbatoio di reclute per il proprio esercito (l’Anatolia continuerà a fornire ottimi combattenti anche all’Impero Bizantino, prima, e a quello Ottomano, poi).

 

Antioco IV si era sforzato di riaffermare la potenza seleucide con un certo successo, e nel 168 era stato sul punto di impadronirsi dell’Egitto, ma l’intervento di Roma, che non gradiva vicini troppo potenti, lo aveva costretto a ritirarsi. Alla sua morte nulla era sembrato più in grado di frenare l’opera di disgregazione dell’immenso, ma fragilissimo impero.

 

A oriente i Parti, che Antioco III aveva confinato alla condizione di tributari nei loro territori ancestrali, avevano ripreso a avanzare nell’altopiano iranico; da sud-ovest i Tolomei avevano cercato di approfittare del periodo di caos dell’antico rivale per estendere nuovamente la loro influenza sulla Palestina; da ovest i Romani, sempre sospettosi nei confronti di vecchi avversari, avevano continuato a frenare i tentativi dei Seleucidi di rafforzare il proprio apparato militare; all’interno stesso dell’impero l’opera di ellenizzazione, portata avanti dai regnanti macedoni con il supporto delle colonie greche da loro impiantate (molto numerose in Siria, abbastanza diffuse in Babilonia e piuttosto rade più a est), incontrava la permanente ostilità dell’antichissimo spirito locale, iranico a oriente e aramaico a occidente, mettendo seriamente a rischio un’entità statale già di per sé fragilissima. I continui contrasti dinastici non facevano altro che offrire nuove occasioni a tutti questi nemici, palesi o meno, dell’impero per rafforzare la propria posizione e per corrodere ulteriormente gli esigui resti dello stato.

 

A mettere finalmente sulla ribalta della storia il giovane Antioco fu la disgraziata spedizione che l’indolente Demetrio II decise finalmente di compiere nel 139 contro i Parti, che ormai dilagavano indisturbati non solo per tutto l’altopiano iranico, ma anche a Babilonia, il cuore dell’impero. Sconfitto e preso prigioniero, il re lasciò campo libero al ribelle Diodoto, che sembrò a un passo dall’ottenere definitivamente la corona.

 

Antioco fu costretto a vagare senza meta, poiché nessuna città accettava di ospitarlo per timore delle vendette di Trifone, ma proprio in quel frangente tanto drammatico la moglie di suo fratello, Cleopatra Thea, che ancora manteneva il possesso di Seleucia in Pieria, lo invitò a raggiungerla, offrendogli il trono e se stessa come sposa (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XIII, 222).

 

Il giovane fu pronto a cogliere l’occasione, e in breve riuscì a ottenere un largo seguito, grazie alla sua naturale affabilità e alla tradizionale lealtà che gli abitanti delle antiche colonie macedoni mantenevano nei confronti della dinastia seleucide. Diodoto, sconfitto in battaglia, si ritirò in Fenicia, nella fortezza di Dora, dove il Sidete lo assediò da terra e da mare, alla testa, si dice (di certo esageratamente), di 120.000 fanti e di 8.000 cavalieri (I Maccabei, XV, 13). Per quanto quella fortezza fosse ritenuta quasi inespugnabile, alla fine l’usurpatore, ridotto allo stremo, fuggì da essa e cercò rifugio nella nativa Apamea, ma anche qui fu circondato dalle forze di Antioco e infine venne catturato e costretto a darsi la morte (138 a.C.).

 

Ora che più nessuno gli disputava il trono, il giovane sovrano si dedicò a riportare all’ordine tutte le città e le popolazioni che, approfittando del periodo di torbidi, si erano del tutto slegate dall’obbedienza al potere centrale. Tra di esse, gli Ebrei costituivano di certo il problema principale e più spinoso: nei lunghi anni di anarchia essi non solo si erano resi del tutto autonomi, ma avevano anche esteso il loro controllo su vaste zone della Palestina abitate da genti elleniche od ellenizzate: in particolare, si erano impadroniti delle città di Ioppe (Giaffa) e Gazara (Ghezer) e della fortezza di Akra a Gerusalemme, luogo di rifugio per i loro consanguinei che si erano adeguati agli usi greci.

 

Nel corso della sua lotta con Trifone, Antioco si era mostrato benevolo nei loro confronti, concedendo al Sommo Sacerdote Simone il diritto di battere moneta e l’esenzione dai tributi, ed in cambio aveva ricevuto sostegno in denaro e provvigioni per il suo esercito (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XIII, 226). Ora, però, pensò che fosse giunto il momento di riportare nei ranghi questi sudditi riottosi e troppo intraprendenti. Le richieste di Antioco non erano eccessive, contemplando solo il pagamento di un tributo per l’occupazione di Ioppe, Gazara e Akra, ma Simone respinse decisamente queste proposte, e il re inviò in Giudea un distaccamento militare agli ordini del suo amico Cendebeo, che però venne sonoramente sconfitto (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XIII, 225-227).

 

Evidentemente impegnato contro altre popolazioni recalcitranti a tornare sotto la sovranità seleucide, il Sidete non compì altri passi nei confronti degli Ebrei per tre anni, ma nel 134 a.C. mosse contro Gerusalemme, deciso a mettere fine alla questione.

 

La città venne presto stretta d’assedio da forze considerevoli: Flavio Giuseppe, una delle nostre fonti più importanti (Antichità Giudaiche, XIII, 236-248), parla di ben sette accampamenti e di cento torri d’assedio a tre piani innalzate sulla parte settentrionale delle mura, dove il suolo era spianato. A corto di acqua e di viveri, il nuovo Sommo Sacerdote, Giovanni, figlio di Simone, prese la decisione di espellere dalla città tutti coloro che non erano atti al combattimento: questi disgraziati furono rimandati indietro anche dagli assedianti, e rimasero tra le linee, destinati a una morte atroce per sete e fame. Tuttavia proprio in quei giorni si celebrò la festa dei Tabernacoli, e gli Ebrei rimasti dentro la città, impietositi, permisero ai loro correligionari di rientrare.

 

In quell’occasione Antioco diede una notevole dimostrazione di umanità: non solo concesse, su richiesta di Giovanni, una tregua di sette giorni a motivo delle festività, ma inviò anche uno splendido sacrificio di buoi dalle corna dorate e coppe di oro e di argento piene di ogni genere di spezie. Questo atteggiamento, che guadagnò al sovrano il soprannome di Eusebes (Pio), impressionò favorevolmente il Sommo Sacerdote, che aprì trattative di pace.

 

Ancora una volta il Sidete dette prova di grande magnanimità, ma anche di lungimiranza politica. Quando si era impadronito di Gerusalemme nel 168 a.C., l’Epifane aveva cercato di costringere gli Ebrei ad abbracciare i costumi ellenici con la forza, compiendo anche atti di indicibile empietà all’interno del Tempio, ma in questo modo era riuscito solo a esacerbare gli animi già naturalmente ostinati degli Israeliti.

 

Ora, per quanto molti dei suoi amici lo spingessero a estirpare completamente quel popolo ribelle e ormai ridotto allo stremo (Diodoro Siculo, XXXIV, 1), egli si limitò a rinnovare la richiesta di un tributo per le città occupate arbitrariamente e che a Gerusalemme venisse alloggiata una sua guarnigione. Quando Giovanni nicchiò su quest’ultima clausola, proponendo in cambio il pagamento di un’indennità di guerra di 500 talenti d’argento e la consegna di ostaggi, tra i quali il suo stesso fratello, Antioco acconsentì anche a questa richiesta, ed in questo modo si guadagnò il sostegno degli Ebrei. Questi ultimi dovettero comunque consegnare le armi e permettere la distruzione delle mura della loro capitale.

 

Con questa vittoria il Sidete potè dire conclusa la sua opera di riaggregazione di tutte le parti dell’impero non occupate da potenze straniere, e per quattro anni se ne restò quieto, impegnato probabilmente a rimettere pienamente in sesto l’apparato statale.

 

Egli fu uno dei sovrani seleucidi più amati dal popolo e senza dubbio uno dei più capaci. Non era di certo uno di quei personaggi tetragoni tanto cari alla storiografia classica: amava un po’ troppo il vino (ma questa fu una caratteristica peculiare di quasi tutti i re macedoni, a iniziare da Alessandro Magno) e dava praticamente ogni giorno banchetti sontuosissimi con una esagerata profusione di cibi e ricchezze (Ateneo, V, 210c-d).

 

Tuttavia il suo edonismo non intaccò per nulla la serietà e l’impegno con il quale si curò della restaurazione dell’impero, e la sua magnanimità e la sua affabilità erano universalmente riconosciute. In un episodio narrato da Plutarco (Moralia, 207-08) egli si perse nel corso di una battuta di caccia e trovò ospitalità per la sera presso una famiglia di contadini, senza essere riconosciuto (il τοπος del monarca che si aggira in incognito presso i suoi sudditi sarà sempre presente nella novellistica mediorientale, a iniziare dall’Harun al-Rashid delle Mille e Una Notte); nel corso della sera chiese ai propri ospiti cosa ne pensassero del re, ed essi gli risposero che sostanzialmente era un buon sovrano, ma che lasciava spesso molti incarichi a amici debosciati e che amava un po’ troppo la caccia, il che lo portava a trascurare gli affari di stato. La mattina seguente egli venne raggiunto dalla sua scorta e indossò corona e vesti di porpora, venendo così riconosciuto. Il suo unico commento fu: “Dal giorno in cui ricevetti questi oggetti non seppi mai la verità su di me: fino a ieri”.

 

Anche il suo matrimonio con Cleopatra Thea sembra esser stato felice: da lei ebbe cinque figli, i primi tre dei quali, due bambine di nome Laodice e un maschio chiamato Antioco, morirono nel corso dell’infanzia. Gli altri due, Seleuco e un altro Antioco, sarebbero saliti al trono per breve tempo, in modo poco glorioso (Eusebio, Chronicon, I, pg. 256).

 

Nel 130 a.C., quando ormai la situazione interna dell’impero si era completamente stabilizzata, giunse per il Sidete il compito più importante e difficile, il recupero delle satrapie orientali, ormai in mano dei Parti.

 

Il momento sembrava particolarmente favorevole per tentare questa impresa: il re parto Fraate II, figlio e successore di Mitridate I, il vincitore di Demetrio II, non era certo fatto della stessa pasta del padre. Inoltre, un decennio di dominazione arrogante e rapace era bastato per indisporre nei confronti dei nuovi padroni non solo le città di fondazione ellenica, che naturalmente auspicavano il ritorno dei loro consanguinei seleucidi, ma anche quelle indigene, che pure non avevano accolto con sfavore il cambio di regime.

 

Per l’occasione venne organizzato un esercito imponente, valutato a 80.000 (Giustino, XXXVIII, 10) o 100.000 (Orosio, V, 10) soldati, ma al loro seguito c’era anche una massa ancor più imponente di civili (300.000 secondo Giustino, 200.000 per Orosio), formata per lo più da cuochi, fornai e attori. Giustino si dilunga nel rappresentare l’incredibile lusso che circondava tanto i militari quanto i civili, parlando addirittura di calze d’oro e di posate di argento, e giungendo a affermare che sembrava che i membri della spedizione dovessero partecipare a un banchetto e non a una guerra.

 

Tuttavia questo non deve far credere che l’esercito seleucide fosse composto da debosciati destinati alla rovina: i soldati di Antioco avevano dimostrato il proprio valore negli anni precedenti, combattendo sempre con successo contro vari avversari. L’unico vero problema, che poi si rivelerà fatale, era che essi si erano abituati a un tenore di vita troppo elevato per poter essere sostenuto nel corso di una campagna dalla lunga durata.

 

Tra i tanti contingenti che seguirono il Sidete c’erano anche 10.000 Ebrei, guidati dallo stesso Giovanni, che proprio in seguito a questa impresa si guadagnerà il soprannome di Ircano. Purtroppo tutte le fonti che possediamo su questa spedizione sono piuttosto tarde, e dell’opera di Diodoro Siculo, lo storico più vicino nel tempo agli eventi, su questo argomento ci restano solo alcuni frammenti riguardanti la sua fase finale.

 

Da quel che è possibile desumere dalle testimonianze rimasteci, all’inizio l’offensiva del Sidete ebbe un grande successo: i Parti vennero sconfitti in tre battaglie (Giustino, XXXVIII, 10), una delle quali si svolse sul fiume Lico (forse il Grande Zab) contro il satrapo Indate (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XIII, 251), e i Seleucidi riconquistarono non solo l’intera Babilonia (sicuramente prima del giugno del 130 a.C., anno a cui risale un documento in cuneiforme con il nome di Antioco), ma anche Ecbatana e tutta la Media. Molte città si ribellarono al dominio partico, in primis Seleucia sul Tigri, che sarà ancora per molti secoli un presidio dell’ellenismo in una terra ormai completamente iranizzata (ancora nel 165 d.C. accoglierà come liberatrici le legioni di Avidio Cassio), e parecchi regoli locali, come Ispaosine di Characene, si affrettarono a passare dalla parte dei temporanei vincitori.

 

Disperato, Fraate aprì trattative di pace, proponendo di cedere la Babilonia e la Media. Sarebbe stato un ottimo risultato per Antioco VII: egli avrebbe recuperato il cuore pulsante dell’Impero Seleucide, e avrebbe ottenuto un’ottima base per ulteriori avanzate, una volta che avesse riordinato le recenti conquiste. Ma, se il difetto principale di suo padre era stato l’arroganza, e quello di suo fratello l’indolenza, il suo si rivelò l’insaziabilità: forse il sovrano sognava di ripetere le gesta di Antioco III, o addirittura quelle di Alessandro Magno, e di giungere sino ai confini dell’India.

 

Le sue controproposte furono quindi particolarmente gravose: i Parti avrebbero dovuto consegnargli il fratello Demetrio, abbandonare tutti i territori occupati nei decenni precedenti e ritirarsi nella loro provincia, per la quale avrebbero dovuto anche pagare un tributo. Si trattava di condizioni irricevibili, e infatti Fraate le rigettò e riprese la lotta. Liberò effettivamente Demetrio, ma invece di consegnarlo al fratello lo rimandò con una scorta in Siria, il che significava appoggiare la sua pretesa di riprendere il trono come legittimo sovrano e indebolire notevolmente la posizione del Sidete.

 

Costui, tuttavia, non si lasciò distrarre da quella diversione e proseguì caparbiamente nella sua avanzata nel cuore dell’Iran. Ormai però si era giunti alla stagione invernale, e con lo svernamento vennero a galla tutti i problemi che poteva causare un esercito tanto numeroso e così ben trattato come quello seleucide. Poiché non era possibile che potesse essere sostenuto da un’unica comunità, esso venne suddiviso in diversi contingenti, che vennero acquartierati ciascuno in una delle città da poco conquistate.

 

I soldati che, come si è detto, erano abituati a un tenore di vita molto alto, iniziarono a depredare i propri ospiti, per nulla disposti a vivere in ristrettezze, sia pure momentanee. Questo atteggiamento provocò un nuovo mutamento nella disposizione degli indigeni: costoro giunsero a rimpiangere il tirannico governo dei Parti, e per questi ultimi fu facile soffiare sul fuoco e trarre profitto dalla dispersione dell’enorme armata nemica. Sembra, stando alle parole di Giustino, che venisse posta in atto una vera e propria cospirazione, poiché le città che ospitavano le truppe seleucidi scesero in rivolta tutte nella stessa giornata, all’inizio della primavera del 129 a.C., sopraffacendo con relativa facilità le piccole guarnigioni.

 

Antioco, avvertito della minaccia, prese il comando del reparto con il quale svernava in Media e cercò di accorrere in aiuto del presidio di una città vicina, ma lungo la strada si imbattè nel grosso dell’esercito di Fraate, forte, secondo Eusebio (Chronicon, I, pg. 255), di 120.000 uomini. I suoi amici più stretti cercarono saggiamente di convincerlo a ripiegare sulle montagne vicine, dove la cavalleria nemica, da sempre vera arma vincente dei Parti, sarebbe stata inefficace, ma in questa occasione il sovrano dimostrò di aver ereditato almeno una parte dell’arroganza del padre e rifiutò di ritirarsi davanti a avversari che aveva già sconfitto, accettando quindi una battaglia campale in grande inferiorità numerica (Diodoro Siculo, XXXIV, 16). Nello scontro che ne seguì Antioco combatté con grande valore, ma parte delle sue truppe si diede alla fuga e egli stesso, ferito, venne ucciso (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XIII, 253; Eusebio, Chronicon, I, pg. 256; Giustino, XXXVIII, 10) o si suicidò gettandosi in un burrone (Appiano, De Rebus Syriacis, 68; Eliano, De Natura Animalium, X, 34).

 

I vincitori trattarono con rispetto il suo cadavere, al quale dettero degna sepoltura, e le stesse parole di Fraate, per quanto venate di sarcasmo, non mancarono di una certa stima: “Il tuo coraggio e la tua ubriachezza ti hanno rovinato, Antioco; poiché speravi che, nelle tue grandi coppe, saresti stato in grado di bere il regno di Arsace” (Ateneo, X, 439d-e).

 

I superstiti della grande armata seleucide, in disordinata ritirata verso la Siria, vennero quasi tutti fatti a pezzi dai Parti lanciatisi al loro inseguimento, e il pianto di tutta la città di Antiochia alla notizia di questo disastro (Diodoro Siculo, XXXIV, 17) può essere considerato il lamento funebre sull’Impero Seleucide, ormai avviato a una lenta, ma inesorabile agonia.

 

Dopo la morte del Sidete i tanti pretendenti al trono, compresi i suoi due figli, non saranno altro che poco più di semplici capi-banda, spesso meri fantocci nelle mani di sovrani stranieri o di potenti locali, e l’annessione finale della Siria alla Repubblica Romana, nel 63 a.C., sarà solo un pietoso colpo di grazia a quello che un tempo era stato un impero potentissimo e fiorente.



 

 

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