N. 114 - Giugno 2017
(CXLV)
ANTIOCO
VII
SIDETE
L’ULTIMO
DEI
SELEUCIDI
di
Roberto
Conte
Quasi
tutti
gli
imperi
della
storia,
al
momento
della
loro
parabola
discendente,
hanno
avuto
un
qualche
personaggio
eccezionale
che,
tentando
di
andare
a
ritroso
nel
tempo,
si è
sforzato
invano
di
restituire
al
proprio
popolo
la
primitiva
magnificenza
o,
almeno,
di
arrestarne
il
declino
ineluttabile.
Fu
questo
il
caso
di Cleomene
III
per
Sparta,
del
magister
militum
Ezio
o
dell’imperatore
Maggioriano
per
Roma,
del
califfo
al-Nasir
per
la
dinastia
abbaside,
o
dei
gran
visir
Köprülü
per
l’Impero
Ottomano.
Anche
l’Impero Seleucide,
la
più
grande
entità
statale
creatasi
al
momento
della
disgregazione
degli
enormi
domini
di
Alessandro
Magno,
e
proprio
per
la
sua
vastità
e
eterogeneità
di
popolazioni
la
più
vulnerabile
tra
tutte,
ebbe
questo
suo
tardivo
alfiere:
il
suo
nome
era
Antioco, VII
secondo
il
computo
dei
monarchi
seleucidi,
detto
Sidete
dalla
città
della
Panfilia,
Side,
in
cui
trascorse
la
sua
giovinezza.
Stando
alle
parole
di
Eusebio
di
Cesarea
(Chronicon,
I,
pg.
256),
che
pone
la
sua
morte
al
trentacinquesimo
anno
di
vita,
Antioco
nacque
intorno
al
164
a.C.,
secondogenito
di
Demetrio,
a
sua
volta
fratello
del
re
di
Siria
Antioco IV
Epifane.
Se
la
data
della
sua
nascita
è
esatta,
essa
sarebbe
avvenuta
a
Roma,
o
comunque
nel
territorio
della
Repubblica,
poiché
all’epoca
suo
padre
si
trovava
lì
come
ostaggio.
Già
due
anni
dopo,
tuttavia,
Demetrio
riuscì
a
fuggire
dalla
sua
dorata
prigionia
e a
impadronirsi
del
trono,
spodestando
il
giovane
nipote
Antioco
V,
che
mise
a
morte
insieme
al
suo
tutore
Lisia.
Dunque
la
fanciullezza
di
Antioco
Sidete
si
svolse
in
Siria,
ma
ben
presto
nuove
nubi
si
addensarono
sulla
sua
esistenza.
Per
quanto
governasse
con
un
certo
successo,
Demetrio
si
alienò
rapidamente
molte
simpatie
a
causa
della
sua
arroganza,
e
dovette
affrontare
la
minaccia
di
un
nuovo
pretendente
al
trono,
Alessandro Bala,
che
affermava
falsamente
di
essere
figlio
illegittimo
dell’Epifane,
e
poteva
contare
sull’appoggio
tanto
dei
Tolomei
d’Egitto
quanto
degli
Attalidi
di
Pergamo.
Di
fronte
a
questo
pericolo,
il
re
decise
di
mettere
al
sicuro
i
propri
figli,
inviando
l’omonimo
primogenito
a
Cnido
e
Antioco
a
Side,
località
nominalmente
sotto
controllo
pergameno,
ma
che
in
realtà
godeva
di
un’instabile
autonomia.
Negli
anni
successivi
il
nostro
personaggio
sembra
scomparire
del
tutto
dalle
turbolente
vicende
storiche
dell’epoca:
né
la
morte
del
padre
nel
corso
della
battaglia
finale
contro
il
suo
rivale,
nel
150,
né
quella
di
Alessandro
Bala
durante
quella
dell’Enoparo,
nel
145,
con
la
conseguente
presa
del
potere
da
parte
di
suo
fratello
maggiore
Demetrio
(II),
né
la
guerra
che
quest’ultimo
dovette
portare
avanti
con
vicende
alterne
contro
uno
dei
generali
di
Bala,
Diodoto
Trifone,
alterarono
in
modo
significativo
la
sua
esistenza
in
un
luogo
appartato
e
tranquillo,
in
stridente
contrasto
con
il
periodo
di
profonda
crisi
e di
incipiente
dissoluzione
che
attraversava
l’Impero
Seleucide.
Il
regno
di
Antioco III
(223-186
a.C.)
aveva
segnato
al
tempo
stesso
il
suo
apogeo
e
l’inizio
del
suo
declino.
Il
grande
sovrano
era
riuscito
a
riaffermare
la
propria
autorità
sulle
satrapie
orientali
con
la
sua
spettacolare
Anabasi,
che
lo
aveva
condotto
sino
alle
soglie
dell’India,
e a
sottrarre
Celesiria
e
Palestina
agli
eterni
rivali,
i
Tolomei
d’Egitto,
con
la
battaglia
di
Panion
(199
a.C.),
ma
poi
si
era
voluto
misurare
con
la
potenza
di
Roma
per
il
controllo
della
Grecia,
e ne
era
seguita
una
guerra
rovinosa
(192-188
a.C.),
che
alla
fine
l’aveva
privato
di
quasi
tutta
l’Asia
Minore,
territorio
fondamentale
tanto
per
il
mantenimento
dei
contatti
con
la
madrepatria
ellenica
quanto
come
serbatoio
di
reclute
per
il
proprio
esercito
(l’Anatolia
continuerà
a
fornire
ottimi
combattenti
anche
all’Impero
Bizantino,
prima,
e a
quello
Ottomano,
poi).
Antioco
IV
si
era
sforzato
di
riaffermare
la
potenza
seleucide
con
un
certo
successo,
e
nel
168
era
stato
sul
punto
di
impadronirsi
dell’Egitto,
ma
l’intervento
di
Roma,
che
non
gradiva
vicini
troppo
potenti,
lo
aveva
costretto
a
ritirarsi.
Alla
sua
morte
nulla
era
sembrato
più
in
grado
di
frenare
l’opera
di
disgregazione
dell’immenso,
ma
fragilissimo
impero.
A
oriente
i
Parti,
che
Antioco III
aveva
confinato
alla
condizione
di
tributari
nei
loro
territori
ancestrali,
avevano
ripreso
a
avanzare
nell’altopiano
iranico;
da
sud-ovest
i
Tolomei
avevano
cercato
di
approfittare
del
periodo
di
caos
dell’antico
rivale
per
estendere
nuovamente
la
loro
influenza
sulla
Palestina;
da
ovest
i
Romani,
sempre
sospettosi
nei
confronti
di
vecchi
avversari,
avevano
continuato
a
frenare
i
tentativi
dei
Seleucidi
di
rafforzare
il
proprio
apparato
militare;
all’interno
stesso
dell’impero
l’opera
di
ellenizzazione,
portata
avanti
dai
regnanti
macedoni
con
il
supporto
delle
colonie
greche
da
loro
impiantate
(molto
numerose
in
Siria,
abbastanza
diffuse
in
Babilonia
e
piuttosto
rade
più
a
est),
incontrava
la
permanente
ostilità
dell’antichissimo
spirito
locale,
iranico
a
oriente
e
aramaico
a
occidente,
mettendo
seriamente
a
rischio
un’entità
statale
già
di
per
sé
fragilissima.
I
continui
contrasti
dinastici
non
facevano
altro
che
offrire
nuove
occasioni
a
tutti
questi
nemici,
palesi
o
meno,
dell’impero
per
rafforzare
la
propria
posizione
e
per
corrodere
ulteriormente
gli
esigui
resti
dello
stato.
A
mettere
finalmente
sulla
ribalta
della
storia
il
giovane
Antioco
fu
la
disgraziata
spedizione
che
l’indolente
Demetrio
II
decise
finalmente
di
compiere
nel
139
contro
i
Parti,
che
ormai
dilagavano
indisturbati
non
solo
per
tutto
l’altopiano
iranico,
ma
anche
a Babilonia,
il
cuore
dell’impero.
Sconfitto
e
preso
prigioniero,
il
re
lasciò
campo
libero
al
ribelle
Diodoto,
che
sembrò
a un
passo
dall’ottenere
definitivamente
la
corona.
Antioco
fu
costretto
a
vagare
senza
meta,
poiché
nessuna
città
accettava
di
ospitarlo
per
timore
delle
vendette
di
Trifone,
ma
proprio
in
quel
frangente
tanto
drammatico
la
moglie
di
suo
fratello,
Cleopatra Thea,
che
ancora
manteneva
il
possesso
di
Seleucia
in
Pieria,
lo
invitò
a
raggiungerla,
offrendogli
il
trono
e se
stessa
come
sposa
(Flavio
Giuseppe,
Antichità
Giudaiche,
XIII,
222).
Il
giovane
fu
pronto
a
cogliere
l’occasione,
e in
breve
riuscì
a
ottenere
un
largo
seguito,
grazie
alla
sua
naturale
affabilità
e
alla
tradizionale
lealtà
che
gli
abitanti
delle
antiche
colonie
macedoni
mantenevano
nei
confronti
della
dinastia
seleucide.
Diodoto,
sconfitto
in
battaglia,
si
ritirò
in
Fenicia,
nella
fortezza
di
Dora,
dove
il
Sidete
lo
assediò
da
terra
e da
mare,
alla
testa,
si
dice
(di
certo
esageratamente),
di
120.000
fanti
e di
8.000
cavalieri
(I
Maccabei,
XV,
13).
Per
quanto
quella
fortezza
fosse
ritenuta
quasi
inespugnabile,
alla
fine
l’usurpatore,
ridotto
allo
stremo,
fuggì
da
essa
e
cercò
rifugio
nella
nativa
Apamea,
ma
anche
qui
fu
circondato
dalle
forze
di
Antioco
e
infine
venne
catturato
e
costretto
a
darsi
la
morte
(138
a.C.).
Ora
che
più
nessuno
gli
disputava
il
trono,
il
giovane
sovrano
si
dedicò
a
riportare
all’ordine
tutte
le
città
e le
popolazioni
che,
approfittando
del
periodo
di
torbidi,
si
erano
del
tutto
slegate
dall’obbedienza
al
potere
centrale.
Tra
di
esse,
gli
Ebrei
costituivano
di
certo
il
problema
principale
e
più
spinoso:
nei
lunghi
anni
di
anarchia
essi
non
solo
si
erano
resi
del
tutto
autonomi,
ma
avevano
anche
esteso
il
loro
controllo
su
vaste
zone
della
Palestina
abitate
da
genti
elleniche
od
ellenizzate:
in
particolare,
si
erano
impadroniti
delle
città
di
Ioppe
(Giaffa)
e
Gazara
(Ghezer)
e
della
fortezza
di
Akra
a
Gerusalemme,
luogo
di
rifugio
per
i
loro
consanguinei
che
si
erano
adeguati
agli
usi
greci.
Nel
corso
della
sua
lotta
con
Trifone,
Antioco
si
era
mostrato
benevolo
nei
loro
confronti,
concedendo
al
Sommo
Sacerdote
Simone
il
diritto
di
battere
moneta
e
l’esenzione
dai
tributi,
ed
in
cambio
aveva
ricevuto
sostegno
in
denaro
e
provvigioni
per
il
suo
esercito
(Flavio
Giuseppe,
Antichità
Giudaiche,
XIII,
226).
Ora,
però,
pensò
che
fosse
giunto
il
momento
di
riportare
nei
ranghi
questi
sudditi
riottosi
e
troppo
intraprendenti.
Le
richieste
di
Antioco
non
erano
eccessive,
contemplando
solo
il
pagamento
di
un
tributo
per
l’occupazione
di
Ioppe,
Gazara
e
Akra,
ma
Simone
respinse
decisamente
queste
proposte,
e il
re
inviò
in
Giudea
un
distaccamento
militare
agli
ordini
del
suo
amico
Cendebeo,
che
però
venne
sonoramente
sconfitto
(Flavio
Giuseppe,
Antichità
Giudaiche,
XIII,
225-227).
Evidentemente
impegnato
contro
altre
popolazioni
recalcitranti
a
tornare
sotto
la
sovranità
seleucide,
il
Sidete
non
compì
altri
passi
nei
confronti
degli
Ebrei
per
tre
anni,
ma
nel
134
a.C.
mosse
contro
Gerusalemme,
deciso
a
mettere
fine
alla
questione.
La
città
venne
presto
stretta
d’assedio
da
forze
considerevoli:
Flavio
Giuseppe,
una
delle
nostre
fonti
più
importanti
(Antichità
Giudaiche,
XIII,
236-248),
parla
di
ben
sette
accampamenti
e di
cento
torri
d’assedio
a
tre
piani
innalzate
sulla
parte
settentrionale
delle
mura,
dove
il
suolo
era
spianato.
A
corto
di
acqua
e di
viveri,
il
nuovo
Sommo
Sacerdote,
Giovanni,
figlio
di
Simone,
prese
la
decisione
di
espellere
dalla
città
tutti
coloro
che
non
erano
atti
al
combattimento:
questi
disgraziati
furono
rimandati
indietro
anche
dagli
assedianti,
e
rimasero
tra
le
linee,
destinati
a
una
morte
atroce
per
sete
e
fame.
Tuttavia
proprio
in
quei
giorni
si
celebrò
la
festa
dei
Tabernacoli,
e
gli
Ebrei
rimasti
dentro
la
città,
impietositi,
permisero
ai
loro
correligionari
di
rientrare.
In
quell’occasione
Antioco
diede
una
notevole
dimostrazione
di
umanità:
non
solo
concesse,
su
richiesta
di
Giovanni,
una
tregua
di
sette
giorni
a
motivo
delle
festività,
ma
inviò
anche
uno
splendido
sacrificio
di
buoi
dalle
corna
dorate
e
coppe
di
oro
e di
argento
piene
di
ogni
genere
di
spezie.
Questo
atteggiamento,
che
guadagnò
al
sovrano
il
soprannome
di
Eusebes
(Pio),
impressionò
favorevolmente
il
Sommo
Sacerdote,
che
aprì
trattative
di
pace.
Ancora
una
volta
il
Sidete
dette
prova
di
grande
magnanimità,
ma
anche
di
lungimiranza
politica.
Quando
si
era
impadronito
di
Gerusalemme
nel
168
a.C.,
l’Epifane
aveva
cercato
di
costringere
gli
Ebrei
ad
abbracciare
i
costumi
ellenici
con
la
forza,
compiendo
anche
atti
di
indicibile
empietà
all’interno
del
Tempio,
ma
in
questo
modo
era
riuscito
solo
a
esacerbare
gli
animi
già
naturalmente
ostinati
degli
Israeliti.
Ora,
per
quanto
molti
dei
suoi
amici
lo
spingessero
a
estirpare
completamente
quel
popolo
ribelle
e
ormai
ridotto
allo
stremo
(Diodoro
Siculo,
XXXIV,
1),
egli
si
limitò
a
rinnovare
la
richiesta
di
un
tributo
per
le
città
occupate
arbitrariamente
e
che
a
Gerusalemme
venisse
alloggiata
una
sua
guarnigione.
Quando
Giovanni
nicchiò
su
quest’ultima
clausola,
proponendo
in
cambio
il
pagamento
di
un’indennità
di
guerra
di
500
talenti
d’argento
e la
consegna
di
ostaggi,
tra
i
quali
il
suo
stesso
fratello,
Antioco
acconsentì
anche
a
questa
richiesta,
ed
in
questo
modo
si
guadagnò
il
sostegno
degli
Ebrei.
Questi
ultimi
dovettero
comunque
consegnare
le
armi
e
permettere
la
distruzione
delle
mura
della
loro
capitale.
Con
questa
vittoria
il
Sidete
potè
dire
conclusa
la
sua
opera
di
riaggregazione
di
tutte
le
parti
dell’impero
non
occupate
da
potenze
straniere,
e
per
quattro
anni
se
ne
restò
quieto,
impegnato
probabilmente
a
rimettere
pienamente
in
sesto
l’apparato
statale.
Egli
fu
uno
dei
sovrani
seleucidi
più
amati
dal
popolo
e
senza
dubbio
uno
dei
più
capaci.
Non
era
di
certo
uno
di
quei
personaggi
tetragoni
tanto
cari
alla
storiografia
classica:
amava
un
po’
troppo
il
vino
(ma
questa
fu
una
caratteristica
peculiare
di
quasi
tutti
i re
macedoni,
a
iniziare
da
Alessandro
Magno)
e
dava
praticamente
ogni
giorno
banchetti
sontuosissimi
con
una
esagerata
profusione
di
cibi
e
ricchezze
(Ateneo,
V,
210c-d).
Tuttavia
il
suo
edonismo
non
intaccò
per
nulla
la
serietà
e
l’impegno
con
il
quale
si
curò
della
restaurazione
dell’impero,
e la
sua
magnanimità
e la
sua
affabilità
erano
universalmente
riconosciute.
In
un
episodio
narrato
da
Plutarco
(Moralia,
207-08)
egli
si
perse
nel
corso
di
una
battuta
di
caccia
e
trovò
ospitalità
per
la
sera
presso
una
famiglia
di
contadini,
senza
essere
riconosciuto
(il
τοπος
del
monarca
che
si
aggira
in
incognito
presso
i
suoi
sudditi
sarà
sempre
presente
nella
novellistica
mediorientale,
a
iniziare
dall’Harun
al-Rashid
delle
Mille
e
Una
Notte);
nel
corso
della
sera
chiese
ai
propri
ospiti
cosa
ne
pensassero
del
re,
ed
essi
gli
risposero
che
sostanzialmente
era
un
buon
sovrano,
ma
che
lasciava
spesso
molti
incarichi
a
amici
debosciati
e
che
amava
un
po’
troppo
la
caccia,
il
che
lo
portava
a
trascurare
gli
affari
di
stato.
La
mattina
seguente
egli
venne
raggiunto
dalla
sua
scorta
e
indossò
corona
e
vesti
di
porpora,
venendo
così
riconosciuto.
Il
suo
unico
commento
fu:
“Dal
giorno
in
cui
ricevetti
questi
oggetti
non
seppi
mai
la
verità
su
di
me:
fino
a
ieri”.
Anche
il
suo
matrimonio
con
Cleopatra
Thea
sembra
esser
stato
felice:
da
lei
ebbe
cinque
figli,
i
primi
tre
dei
quali,
due
bambine
di
nome
Laodice
e un
maschio
chiamato
Antioco,
morirono
nel
corso
dell’infanzia.
Gli
altri
due,
Seleuco
e un
altro
Antioco,
sarebbero
saliti
al
trono
per
breve
tempo,
in
modo
poco
glorioso
(Eusebio,
Chronicon,
I,
pg.
256).
Nel
130
a.C.,
quando
ormai
la
situazione
interna
dell’impero
si
era
completamente
stabilizzata,
giunse
per
il
Sidete
il
compito
più
importante
e
difficile,
il
recupero
delle
satrapie
orientali,
ormai
in
mano
dei
Parti.
Il
momento
sembrava
particolarmente
favorevole
per
tentare
questa
impresa:
il
re
parto
Fraate
II,
figlio
e
successore
di
Mitridate
I,
il
vincitore
di
Demetrio
II,
non
era
certo
fatto
della
stessa
pasta
del
padre.
Inoltre,
un
decennio
di
dominazione
arrogante
e
rapace
era
bastato
per
indisporre
nei
confronti
dei
nuovi
padroni
non
solo
le
città
di
fondazione
ellenica,
che
naturalmente
auspicavano
il
ritorno
dei
loro
consanguinei
seleucidi,
ma
anche
quelle
indigene,
che
pure
non
avevano
accolto
con
sfavore
il
cambio
di
regime.
Per
l’occasione
venne
organizzato
un
esercito
imponente,
valutato
a
80.000
(Giustino,
XXXVIII,
10)
o
100.000
(Orosio,
V,
10)
soldati,
ma
al
loro
seguito
c’era
anche
una
massa
ancor
più
imponente
di
civili
(300.000
secondo
Giustino,
200.000
per
Orosio),
formata
per
lo
più
da
cuochi,
fornai
e
attori.
Giustino
si
dilunga
nel
rappresentare
l’incredibile
lusso
che
circondava
tanto
i
militari
quanto
i
civili,
parlando
addirittura
di
calze
d’oro
e di
posate
di
argento,
e
giungendo
a
affermare
che
sembrava
che
i
membri
della
spedizione
dovessero
partecipare
a un
banchetto
e
non
a
una
guerra.
Tuttavia
questo
non
deve
far
credere
che
l’esercito
seleucide
fosse
composto
da
debosciati
destinati
alla
rovina:
i
soldati
di
Antioco
avevano
dimostrato
il
proprio
valore
negli
anni
precedenti,
combattendo
sempre
con
successo
contro
vari
avversari.
L’unico
vero
problema,
che
poi
si
rivelerà
fatale,
era
che
essi
si
erano
abituati
a un
tenore
di
vita
troppo
elevato
per
poter
essere
sostenuto
nel
corso
di
una
campagna
dalla
lunga
durata.
Tra
i
tanti
contingenti
che
seguirono
il
Sidete
c’erano
anche
10.000
Ebrei,
guidati
dallo
stesso
Giovanni,
che
proprio
in
seguito
a
questa
impresa
si
guadagnerà
il
soprannome
di
Ircano.
Purtroppo
tutte
le
fonti
che
possediamo
su
questa
spedizione
sono
piuttosto
tarde,
e
dell’opera
di
Diodoro
Siculo,
lo
storico
più
vicino
nel
tempo
agli
eventi,
su
questo
argomento
ci
restano
solo
alcuni
frammenti
riguardanti
la
sua
fase
finale.
Da
quel
che
è
possibile
desumere
dalle
testimonianze
rimasteci,
all’inizio
l’offensiva
del
Sidete
ebbe
un
grande
successo:
i
Parti
vennero
sconfitti
in
tre
battaglie
(Giustino,
XXXVIII,
10),
una
delle
quali
si
svolse
sul
fiume
Lico
(forse
il
Grande
Zab)
contro
il
satrapo
Indate
(Flavio
Giuseppe,
Antichità
Giudaiche,
XIII,
251),
e i
Seleucidi
riconquistarono
non
solo
l’intera
Babilonia
(sicuramente
prima
del
giugno
del
130
a.C.,
anno
a
cui
risale
un
documento
in
cuneiforme
con
il
nome
di
Antioco),
ma
anche
Ecbatana
e
tutta
la
Media.
Molte
città
si
ribellarono
al
dominio
partico,
in
primis
Seleucia
sul
Tigri,
che
sarà
ancora
per
molti
secoli
un
presidio
dell’ellenismo
in
una
terra
ormai
completamente
iranizzata
(ancora
nel
165
d.C.
accoglierà
come
liberatrici
le
legioni
di
Avidio
Cassio),
e
parecchi
regoli
locali,
come
Ispaosine
di
Characene,
si
affrettarono
a
passare
dalla
parte
dei
temporanei
vincitori.
Disperato,
Fraate
aprì
trattative
di
pace,
proponendo
di
cedere
la
Babilonia
e la
Media.
Sarebbe
stato
un
ottimo
risultato
per
Antioco
VII:
egli
avrebbe
recuperato
il
cuore
pulsante
dell’Impero
Seleucide,
e
avrebbe
ottenuto
un’ottima
base
per
ulteriori
avanzate,
una
volta
che
avesse
riordinato
le
recenti
conquiste.
Ma,
se
il
difetto
principale
di
suo
padre
era
stato
l’arroganza,
e
quello
di
suo
fratello
l’indolenza,
il
suo
si
rivelò
l’insaziabilità:
forse
il
sovrano
sognava
di
ripetere
le
gesta
di
Antioco
III,
o
addirittura
quelle
di
Alessandro
Magno,
e di
giungere
sino
ai
confini
dell’India.
Le
sue
controproposte
furono
quindi
particolarmente
gravose:
i
Parti
avrebbero
dovuto
consegnargli
il
fratello
Demetrio,
abbandonare
tutti
i
territori
occupati
nei
decenni
precedenti
e
ritirarsi
nella
loro
provincia,
per
la
quale
avrebbero
dovuto
anche
pagare
un
tributo.
Si
trattava
di
condizioni
irricevibili,
e
infatti
Fraate
le
rigettò
e
riprese
la
lotta.
Liberò
effettivamente
Demetrio,
ma
invece
di
consegnarlo
al
fratello
lo
rimandò
con
una
scorta
in
Siria,
il
che
significava
appoggiare
la
sua
pretesa
di
riprendere
il
trono
come
legittimo
sovrano
e
indebolire
notevolmente
la
posizione
del
Sidete.
Costui,
tuttavia,
non
si
lasciò
distrarre
da
quella
diversione
e
proseguì
caparbiamente
nella
sua
avanzata
nel
cuore
dell’Iran.
Ormai
però
si
era
giunti
alla
stagione
invernale,
e
con
lo
svernamento
vennero
a
galla
tutti
i
problemi
che
poteva
causare
un
esercito
tanto
numeroso
e
così
ben
trattato
come
quello
seleucide.
Poiché
non
era
possibile
che
potesse
essere
sostenuto
da
un’unica
comunità,
esso
venne
suddiviso
in
diversi
contingenti,
che
vennero
acquartierati
ciascuno
in
una
delle
città
da
poco
conquistate.
I
soldati
che,
come
si è
detto,
erano
abituati
a un
tenore
di
vita
molto
alto,
iniziarono
a
depredare
i
propri
ospiti,
per
nulla
disposti
a
vivere
in
ristrettezze,
sia
pure
momentanee.
Questo
atteggiamento
provocò
un
nuovo
mutamento
nella
disposizione
degli
indigeni:
costoro
giunsero
a
rimpiangere
il
tirannico
governo
dei
Parti,
e
per
questi
ultimi
fu
facile
soffiare
sul
fuoco
e
trarre
profitto
dalla
dispersione
dell’enorme
armata
nemica.
Sembra,
stando
alle
parole
di
Giustino,
che
venisse
posta
in
atto
una
vera
e
propria
cospirazione,
poiché
le
città
che
ospitavano
le
truppe
seleucidi
scesero
in
rivolta
tutte
nella
stessa
giornata,
all’inizio
della
primavera
del
129
a.C.,
sopraffacendo
con
relativa
facilità
le
piccole
guarnigioni.
Antioco,
avvertito
della
minaccia,
prese
il
comando
del
reparto
con
il
quale
svernava
in
Media
e
cercò
di
accorrere
in
aiuto
del
presidio
di
una
città
vicina,
ma
lungo
la
strada
si
imbattè
nel
grosso
dell’esercito
di
Fraate,
forte,
secondo
Eusebio
(Chronicon,
I,
pg.
255),
di
120.000
uomini.
I
suoi
amici
più
stretti
cercarono
saggiamente
di
convincerlo
a
ripiegare
sulle
montagne
vicine,
dove
la
cavalleria
nemica,
da
sempre
vera
arma
vincente
dei
Parti,
sarebbe
stata
inefficace,
ma
in
questa
occasione
il
sovrano
dimostrò
di
aver
ereditato
almeno
una
parte
dell’arroganza
del
padre
e
rifiutò
di
ritirarsi
davanti
a
avversari
che
aveva
già
sconfitto,
accettando
quindi
una
battaglia
campale
in
grande
inferiorità
numerica
(Diodoro
Siculo,
XXXIV,
16).
Nello
scontro
che
ne
seguì
Antioco
combatté
con
grande
valore,
ma
parte
delle
sue
truppe
si
diede
alla
fuga
e
egli
stesso,
ferito,
venne
ucciso
(Flavio
Giuseppe,
Antichità
Giudaiche,
XIII,
253;
Eusebio,
Chronicon,
I,
pg.
256;
Giustino,
XXXVIII,
10)
o si
suicidò
gettandosi
in
un
burrone
(Appiano,
De
Rebus
Syriacis,
68;
Eliano,
De
Natura
Animalium,
X,
34).
I
vincitori
trattarono
con
rispetto
il
suo
cadavere,
al
quale
dettero
degna
sepoltura,
e le
stesse
parole
di
Fraate,
per
quanto
venate
di
sarcasmo,
non
mancarono
di
una
certa
stima:
“Il
tuo
coraggio
e la
tua
ubriachezza
ti
hanno
rovinato,
Antioco;
poiché
speravi
che,
nelle
tue
grandi
coppe,
saresti
stato
in
grado
di
bere
il
regno
di
Arsace”
(Ateneo,
X,
439d-e).
I
superstiti
della
grande
armata
seleucide,
in
disordinata
ritirata
verso
la
Siria,
vennero
quasi
tutti
fatti
a
pezzi
dai
Parti
lanciatisi
al
loro
inseguimento,
e il
pianto
di
tutta
la
città
di
Antiochia
alla
notizia
di
questo
disastro
(Diodoro
Siculo,
XXXIV,
17)
può
essere
considerato
il
lamento
funebre
sull’Impero
Seleucide,
ormai
avviato
a
una
lenta,
ma
inesorabile
agonia.
Dopo
la
morte
del
Sidete
i
tanti
pretendenti
al
trono,
compresi
i
suoi
due
figli,
non
saranno
altro
che
poco
più
di
semplici
capi-banda,
spesso
meri
fantocci
nelle
mani
di
sovrani
stranieri
o di
potenti
locali,
e
l’annessione
finale
della
Siria
alla
Repubblica
Romana,
nel
63
a.C.,
sarà
solo
un
pietoso
colpo
di
grazia
a
quello
che
un
tempo
era
stato
un
impero
potentissimo
e
fiorente.