[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

186 / GIUGNO 2023 (CCXVII)


contemporanea

SHANTARAM, TRA NARRAZIONE E CRONACA
Barlumi di storia

di Alessio Guglielmini

 

Shantaram, bestseller dell’australiano Gregory David Roberts (2003), può essere affrontato da molti punti di vista. Tra questi, emerge anche quello storico. Il romanzo, innanzitutto, è autobiografico e questo basterebbe a infondergli una certa attendibilità rispetto alla ricostruzione della Bombay degli anni Ottanta del Novecento.

 

L’urgenza di redenzione del protagonista Lindsay, un ex rapinatore scappato dal carcere australiano di Pentridge, che è diretta emanazione dell’autore, si confonde del resto alle sfide che la capitale del Maharashtra mette quotidianamente sul campo. La sopravvivenza nello slum è in tal senso simmetrica ai giochi di potere che riguardano la supremazia dei clan mafiosi in città. È una mafia di strada, che cura gli interessi della gente comune, fidelizzandola e seducendola con liturgie che potremmo definire politiche. Roberts si sofferma in maniera puntuale sui legami, sui favori, sulle piccole e grandi corruzioni che alimentano il sistema che è Bombay. Lo slum, analogamente, vive di sottili equilibri che ne garantiscono la resilienza e l’organizzazione, come se si trattasse di una società a parte, dotata di proprie leggi, che permane mentre la città si ammoderna e ingrandisce.

 

Uno dei parametri di questa crescita è il World Trade Centre che si erge sopra lo slum di Cuffe Parade da cui il Roberts “storico” trae la linfa di molti dei racconti che riversa sul suo alter ego Lindsay, ribattezzato ben presto “Lin”. Già lo status dei lavori al cantiere basterebbe a indicarci, grossomodo, le coordinate temporali di Shantaram, ma in alcuni momenti Roberts condivide messaggi ben più espliciti.

 

Due significative irruzioni della storia si materializzano, circa a metà del romanzo, praticamente in simultanea. La prima ci permette di stabilire con esattezza il giorno in cui Lin si trova a Bombay: è il 31 ottobre 1984 e Indira Gandhi è stata assassinata dalle sue due guardie del corpo sikh. L’attentato, che darà vita a ritorsioni di massa, è la drammatica conseguenza dell’Operazione Blue Star contro il Tempio d’Oro ad Amritsar, in Punjab, che aveva avuto luogo tra il 3 e il 6 giugno dello stesso anno, per catturare il leader religioso Bhindranwale che morì in quella circostanza insieme a molti seguaci. Lo stesso Tempio d’Oro, luogo di culto dei sikh, venne crivellato da diversi colpi.

 

La seconda irruzione avviene poche pagine dopo, quando Lindsay si confronta con Khaled Ansari, membro come lui dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Khaderbhai. Khaled è palestinese e racconta la sua storia familiare, rievocando la Guerra dello Yom Kippur, l’invasione del Libano da parte degli israeliani e il massacro di Sabra e Shatila vicino a Beirut. Sabra e Shatila erano campi profughi palestinesi, assaltati tra il 16 e il 18 settembre 1982 dalle Falangi cristiane libanesi, con la complicità dell’esercito israeliano. L’attacco era una risposta all’assassinio di Bashir Gemayel, presidente appena eletto del Libano e delle Falangi, caduto in un attentato insieme ad altri ventisei membri del partito, il precedente 14 settembre.

 

Un altro dei compagni di Lin all’interno del clan di Khaderbhai, ossia Abdullah, offre il gancio per dire qualcosa sulla Savak, la polizia segreta iraniana. Abdullah parla di spie al soldo della Savak che controllano i rifugiati iraniani in India: «Quando quelle spie fanno i loro rapporti, ci vanno di mezzo le nostre famiglie in Iran. Mettono i nostri familiari – madri, padri, fratelli – nelle prigioni della polizia segreta. Nelle prigioni li torturano. Alcuni muoiono». La Savak, a dire il vero, era stata istituita sotto lo scià Mohammad Reza Pahlavi nel 1957 e, alla vigilia della rivoluzione del 1979, vantava una struttura ramificata che venne smantellata dal nuovo apparato di Khomeini. Il riferimento alla Savak di Abdullah, considerando che i fatti di Shantaram si svolgono negli anni Ottanta, sarebbe dunque un anacronismo, tuttavia voluto, come chiarito in un passaggio precedente del romanzo. Mahmud Melbaaf, nel corso di una missione in Afghanistan promossa da Khaderbhai, spiega al protagonista che «Savak, polizia segreta, è sempre la stessa. Adesso lavorano per Khomeini».

 

Il capitolo afghano di Shantaram è il più denso dal punto di vista storico. Khaderbhai, il boss che ha più le fattezze di un mistico a capo di una confraternita religiosa, vuole raggiungere Kandahar per sostenere la sua comunità d’origine contro l’invasore sovietico, portando munizioni, vettovaglie, rifornimenti. Lin ricostruisce molti fraseggi della storia afghana, risalendo alla presenza britannica nella zona: perno di questa presenza, tra Pakistan e Afghanistan, è la città di Quetta, nel Belucistan, in cui Lin e i suoi si trovano sul finire del 1985, in attesa di inoltrarsi in territorio afghano: «Gli inglesi occuparono per la prima volta l’antica roccaforte nel 1840, ma furono costretti ad andarsene, logorati dalle malattie e dalla feroce resistenza degli afghani. La città fu riconquistata nel 1876, e divenne il principale possedimento britannico sulla Frontiera del Nord-Ovest».

 

È lo stesso Khaderbhai a riprendere idealmente il discorso, qualche giorno dopo, quando la compagnia ha ormai raggiunto le montagne e i valichi afghani: «Nel novembre del 1878, lo stesso mese in cui è cominciata la nostra missione, gli inglesi conquistarono il passo di Khyber, ed ebbe inizio la seconda guerra afghana. […] Dal Khyber arrivò uno dei soldati più temuti, coraggiosi e crudeli dell’impero britannico. Si chiamava Roberts, Lord Frederick Roberts. Prese Kabul, e instaurò una spietata legge marziale. […] In giugno un principe afghano di nome Ayub Khan proclamò il jihad per cacciare via gli inglesi. Partì da Herat con diecimila uomini».

 

La cronaca continua con l’intervento di un certo Burrows, l’ufficiale inglese che all’epoca governava la città di Kandahar. Le forze di Burrows, composte da circa millecinquecento indiani e inglesi, furono sconfitte a Maiwand dalle truppe di Ayub, benché queste ultime contassero duemilacinquecento vittime. Burrows si ritirò con i superstiti a Kandahar che fu cinta d’assedio da Ayub. «Ebbene, Lord Roberts lasciò Kabul con diecimila uomini per rompere l’assedio di Kandahar. Due terzi dei suoi soldati erano sepoy indiani, ottimi combattenti. Roberts marciò da Kabul a Kandahar, coprendo una distanza di quasi cinquecento chilometri in ventidue giorni», dopo i quali le sue milizie sconfissero l’esercito del principe Ayub Khan, che riuscì comunque a scappare.

 

Frederick Roberts, grazie a quella impresa, rimase famoso come “Roberts di Kandahar”, ma anche come Bobs, il nomignolo con cui era noto presso i suoi affezionati soldati, da cui forse deriva la famosa espressione “Bob’s your uncle”. Bobs fu la poesia, e non fu l’unica, che gli dedicò nel 1893 lo scrittore Rudyard Kipling che provò un’autentica venerazione per il risoluto, talvolta spietato, comandante inglese. Tuttavia, il successo di Kandahar non consentì agli inglesi di esercitare un potere reale, come ricorda lo stesso Khaderbhai, accennando al governo del sagace re Abdul Rahman Khan, messo sul trono dagli inglesi dopo la sconfitta di Ayub.

 

Lo stesso Afghanistan visitato da Lindsay tra il 1985 e il 1986 è un territorio difficile da controllare e politicamente friabile e ambiguo. Questa confusione generale emerge del resto nell’attacco finale sferrato contro il misero contingente di Lindsay, rimasto ormai orfano della carismatica guida di Khaderbhai: ad attaccare Lin e compagni con i mortai sono gli uomini di Massoud, ossia Ahmed Shah, il “Leone di Panjsher”. Li aggrediscono perché li credono nemici, in verità essi si trovano già sotto il tiro dell’esercito afghano e dei soldati russi.

 

La guerra sembra inseguire Lin fino alla fine del romanzo. Non si tratta soltanto della faida tra i clan mafiosi di Bombay che si spartiscono la torta lasciata da Khaderbhai, ma anche di una nuova campagna alla quale Lin viene invitato a partecipare. Ancora una volta si tratta di intervenire al fianco di una minoranza che lotta per la sopravvivenza. L’inossidabile Nazir, che gli ha salvato la vita in Afghanistan, e l’amico fraterno Abdullah chiedono a Lin di seguirli in Sri Lanka, a favore dei musulmani Tamil che sono sprovvisti di armi e di denaro, e che sono presi tra due fronti: le Tigri Tamil che sono hindu e i singalesi che sono buddhisti.

 

Queste informazioni vanno contestualizzate all’interno della lunga campagna del LTTE, Liberation Tigers of Tamil Eelam, per creare uno stato indipendente nel nord e nell’est dello Sri Lanka. Il conflitto si sarebbe prolungato fino al 2009, con la sconfitta definitiva delle Tigri. Se non sappiamo nulla di quelle vicende dalle pagine di Shantaram, conosciamo la risposta di Lin alle avances di Abdullah e Nazir: un sì dettato dalla riconoscenza e dalla fedeltà, anche dopo la sua morte, al mistico boss Khaderbhai.

 

Benché la guerra sia una delle colonne portanti della lunga epopea narrata da Roberts, il vero campo di battaglia di Shantaram è l’anima di Lin. Le vicende storiche gettano delle coordinate certe là dove scorre un flusso interiore impetuoso, alimentato dalle numerose iniziazioni vissute dal protagonista. Alle indicazioni temporali vanno aggiunte quelle territoriali, determinate dai confini, onnipresenti, della capitale del Maharashtra. Leggendo le confessioni di Lin/Roberts sembra che, in quello spaccato degli anni Ottanta, l’intera storia dell’umanità ruoti attorno a Bombay, vero ombelico del mondo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]