SHANTARAM,
TRA NARRAZIONE E CRONACA
Barlumi di storia
di Alessio Guglielmini
Shantaram,
bestseller dell’australiano Gregory
David Roberts (2003), può essere
affrontato da molti punti di vista.
Tra questi, emerge anche quello
storico. Il romanzo, innanzitutto, è
autobiografico e questo basterebbe a
infondergli una certa attendibilità
rispetto alla ricostruzione della
Bombay degli anni Ottanta del
Novecento.
L’urgenza di redenzione del
protagonista Lindsay, un ex
rapinatore scappato dal carcere
australiano di Pentridge, che è
diretta emanazione dell’autore, si
confonde del resto alle sfide che la
capitale del Maharashtra mette
quotidianamente sul campo. La
sopravvivenza nello slum è in tal
senso simmetrica ai giochi di potere
che riguardano la supremazia dei
clan mafiosi in città. È una mafia
di strada, che cura gli interessi
della gente comune, fidelizzandola e
seducendola con liturgie che
potremmo definire politiche. Roberts
si sofferma in maniera puntuale sui
legami, sui favori, sulle piccole e
grandi corruzioni che alimentano il
sistema che è Bombay. Lo slum,
analogamente, vive di sottili
equilibri che ne garantiscono la
resilienza e l’organizzazione, come
se si trattasse di una società a
parte, dotata di proprie leggi, che
permane mentre la città si ammoderna
e ingrandisce.
Uno dei parametri di questa crescita
è il World Trade Centre che si erge
sopra lo slum di Cuffe Parade da cui
il Roberts “storico” trae la linfa
di molti dei racconti che riversa
sul suo alter ego Lindsay,
ribattezzato ben presto “Lin”. Già
lo status dei lavori al cantiere
basterebbe a indicarci, grossomodo,
le coordinate temporali di
Shantaram,
ma in alcuni momenti Roberts
condivide messaggi ben più
espliciti.
Due significative irruzioni della
storia si materializzano, circa a
metà del romanzo, praticamente in
simultanea. La prima ci permette di
stabilire con esattezza il giorno in
cui Lin si trova a Bombay: è il 31
ottobre 1984 e Indira Gandhi è stata
assassinata dalle sue due guardie
del corpo sikh. L’attentato, che
darà vita a ritorsioni di massa, è
la drammatica conseguenza
dell’Operazione Blue Star contro il
Tempio d’Oro ad Amritsar, in Punjab,
che aveva avuto luogo tra il 3 e il
6 giugno dello stesso anno, per
catturare il leader religioso
Bhindranwale che morì in quella
circostanza insieme a molti seguaci.
Lo stesso Tempio d’Oro, luogo di
culto dei sikh, venne crivellato da
diversi colpi.
La seconda irruzione avviene poche
pagine dopo, quando Lindsay si
confronta con Khaled Ansari, membro
come lui dell’organizzazione mafiosa
capeggiata da Khaderbhai. Khaled è
palestinese e racconta la sua storia
familiare, rievocando la Guerra
dello Yom Kippur, l’invasione del
Libano da parte degli israeliani e
il massacro di Sabra e Shatila
vicino a Beirut. Sabra e Shatila
erano campi profughi palestinesi,
assaltati tra il 16 e il 18
settembre 1982 dalle Falangi
cristiane libanesi, con la
complicità dell’esercito israeliano.
L’attacco era una risposta
all’assassinio di Bashir Gemayel,
presidente appena eletto del Libano
e delle Falangi, caduto in un
attentato insieme ad altri ventisei
membri del partito, il precedente 14
settembre.
Un altro dei compagni di Lin
all’interno del clan di Khaderbhai,
ossia Abdullah, offre il gancio per
dire qualcosa sulla Savak, la
polizia segreta iraniana. Abdullah
parla di spie al soldo della Savak
che controllano i rifugiati iraniani
in India: «Quando quelle spie
fanno i loro rapporti, ci vanno di
mezzo le nostre famiglie in Iran.
Mettono i nostri familiari – madri,
padri, fratelli – nelle prigioni
della polizia segreta. Nelle
prigioni li torturano. Alcuni
muoiono». La Savak, a dire il
vero, era stata istituita sotto lo
scià Mohammad Reza Pahlavi nel 1957
e, alla vigilia della rivoluzione
del 1979, vantava una struttura
ramificata che venne smantellata dal
nuovo apparato di Khomeini. Il
riferimento alla Savak di Abdullah,
considerando che i fatti di
Shantaram
si svolgono negli anni Ottanta,
sarebbe dunque un anacronismo,
tuttavia voluto, come chiarito in un
passaggio precedente del romanzo.
Mahmud Melbaaf, nel corso di una
missione in Afghanistan promossa da
Khaderbhai, spiega al protagonista
che «Savak, polizia segreta, è
sempre la stessa. Adesso lavorano
per Khomeini».
Il capitolo afghano di
Shantaram
è il più denso dal punto di vista
storico. Khaderbhai, il boss che ha
più le fattezze di un mistico a capo
di una confraternita religiosa,
vuole raggiungere Kandahar per
sostenere la sua comunità d’origine
contro l’invasore sovietico,
portando munizioni, vettovaglie,
rifornimenti. Lin ricostruisce molti
fraseggi della storia afghana,
risalendo alla presenza britannica
nella zona: perno di questa
presenza, tra Pakistan e
Afghanistan, è la città di Quetta,
nel Belucistan, in cui Lin e i suoi
si trovano sul finire del 1985, in
attesa di inoltrarsi in territorio
afghano: «Gli inglesi occuparono
per la prima volta l’antica
roccaforte nel 1840, ma furono
costretti ad andarsene, logorati
dalle malattie e dalla feroce
resistenza degli afghani. La città
fu riconquistata nel 1876, e divenne
il principale possedimento
britannico sulla Frontiera del
Nord-Ovest».
È lo stesso Khaderbhai a riprendere
idealmente il discorso, qualche
giorno dopo, quando la compagnia ha
ormai raggiunto le montagne e i
valichi afghani: «Nel novembre
del 1878, lo stesso mese in cui è
cominciata la nostra missione, gli
inglesi conquistarono il passo di
Khyber, ed ebbe inizio la seconda
guerra afghana. […] Dal
Khyber arrivò uno dei soldati più
temuti, coraggiosi e crudeli
dell’impero britannico. Si chiamava
Roberts, Lord Frederick Roberts.
Prese Kabul, e instaurò una spietata
legge marziale. […] In giugno un
principe afghano di nome Ayub Khan
proclamò il
jihad per cacciare via gli inglesi.
Partì da Herat con diecimila uomini».
La cronaca continua con l’intervento
di un certo Burrows, l’ufficiale
inglese che all’epoca governava la
città di Kandahar. Le forze di
Burrows, composte da circa
millecinquecento indiani e inglesi,
furono sconfitte a Maiwand dalle
truppe di Ayub, benché queste ultime
contassero duemilacinquecento
vittime. Burrows si ritirò con i
superstiti a Kandahar che fu cinta
d’assedio da Ayub. «Ebbene, Lord
Roberts lasciò Kabul con diecimila
uomini per rompere l’assedio di
Kandahar. Due terzi dei suoi soldati
erano
sepoy indiani, ottimi combattenti.
Roberts marciò da Kabul a Kandahar,
coprendo una distanza di quasi
cinquecento chilometri in ventidue
giorni»,
dopo i quali le sue milizie
sconfissero l’esercito del principe
Ayub Khan, che riuscì comunque a
scappare.
Frederick Roberts, grazie a quella
impresa, rimase famoso come “Roberts
di Kandahar”, ma anche come
Bobs,
il nomignolo con cui era noto presso
i suoi affezionati soldati, da cui
forse deriva la famosa espressione “Bob’s
your uncle”.
Bobs
fu la poesia, e non fu l’unica, che
gli dedicò nel 1893 lo scrittore
Rudyard Kipling che provò
un’autentica venerazione per il
risoluto, talvolta spietato,
comandante inglese. Tuttavia, il
successo di Kandahar non consentì
agli inglesi di esercitare un potere
reale, come ricorda lo stesso
Khaderbhai, accennando al governo
del sagace re Abdul Rahman Khan,
messo sul trono dagli inglesi dopo
la sconfitta di Ayub.
Lo stesso Afghanistan visitato da
Lindsay tra il 1985 e il 1986 è un
territorio difficile da controllare
e politicamente friabile e ambiguo.
Questa confusione generale emerge
del resto nell’attacco finale
sferrato contro il misero
contingente di Lindsay, rimasto
ormai orfano della carismatica guida
di Khaderbhai: ad attaccare Lin e
compagni con i mortai sono gli
uomini di Massoud, ossia Ahmed Shah,
il “Leone di Panjsher”. Li
aggrediscono perché li credono
nemici, in verità essi si trovano
già sotto il tiro dell’esercito
afghano e dei soldati russi.
La guerra sembra inseguire Lin fino
alla fine del romanzo. Non si tratta
soltanto della faida tra i clan
mafiosi di Bombay che si spartiscono
la torta lasciata da Khaderbhai, ma
anche di una nuova campagna alla
quale Lin viene invitato a
partecipare. Ancora una volta si
tratta di intervenire al fianco di
una minoranza che lotta per la
sopravvivenza. L’inossidabile Nazir,
che gli ha salvato la vita in
Afghanistan, e l’amico fraterno
Abdullah chiedono a Lin di seguirli
in Sri Lanka, a favore dei musulmani
Tamil che sono sprovvisti di armi e
di denaro, e che sono presi tra due
fronti: le Tigri Tamil che sono
hindu e i singalesi che sono
buddhisti.
Queste informazioni vanno
contestualizzate all’interno della
lunga campagna del LTTE,
Liberation Tigers of Tamil Eelam,
per creare uno stato indipendente
nel nord e nell’est dello Sri Lanka.
Il conflitto si sarebbe prolungato
fino al 2009, con la sconfitta
definitiva delle Tigri. Se non
sappiamo nulla di quelle vicende
dalle pagine di
Shantaram,
conosciamo la risposta di Lin alle
avances di Abdullah e Nazir: un sì
dettato dalla riconoscenza e dalla
fedeltà, anche dopo la sua morte, al
mistico boss Khaderbhai.
Benché la guerra sia una delle
colonne portanti della lunga epopea
narrata da Roberts, il vero campo di
battaglia di
Shantaram
è l’anima di Lin. Le vicende
storiche gettano delle coordinate
certe là dove scorre un flusso
interiore impetuoso, alimentato
dalle numerose iniziazioni vissute
dal protagonista. Alle indicazioni
temporali vanno aggiunte quelle
territoriali, determinate dai
confini, onnipresenti, della
capitale del Maharashtra. Leggendo
le confessioni di Lin/Roberts sembra
che, in quello spaccato degli anni
Ottanta, l’intera storia
dell’umanità ruoti attorno a Bombay,
vero ombelico del mondo.