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N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

Shakespeare e Venezia

Ricognizioni letterarie sulla figura del Bardo e l’Italia – Parte I
di Vincenzo La Salandra

 

William Shakespeare scomparve nel 1616 e a quattrocento anni di distanza le sue opere, con la stessa forza con cui furono scritte e rappresentate, ci parlano con sconvolgente attualità. Ma si tratta della naturale attualità che i classici di ogni epoca e in tutte le lingue conservano a dispetto del passare dei decenni, delle generazioni e dei secoli. È bello scrivere su Shakespeare e su Venezia in occasione non solo dei quattrocento anni della scomparsa del dolce Cigno di Avon, ma anche dei cinquecento anni della costituzione del Ghetto a Venezia: non una data da festeggiare, come ricordava nelle commemorazioni tenute a Venezia il presidente delle comunità ebraiche italiane, ma da ricordare con consapevole attenzione vista la natura multiculturale e il valore eccellente della produzione artistica e culturale nell’alveo del Ghetto a Venezia.

 

Grandi dibattiti sull’identità di Shakespeare sono nati a partire dall’Ottocento con una critica, specialmente britannica, che ha sviscerato tutto quello che emerge dai documenti, scarni, e dalle opere, ricchissime e diffuse in pubblicazioni costanti negli anni, sull’uomo, sul mito e sui misteri che aleggiano su questa figura di letterato che giganteggia sulla letteratura del suo paese come figura paradigmatica e reinventore della lingua.

 

I dubbi sulla figura storica del figlio del guantaio di Stratford, che ricevette una educazione di base nella locale grammar school, e che, nel volgere di pochi anni, divenne il sommo tra i poeti e drammaturghi e commediografi dell’era Elisabettiana, nascono dalla volontà di attribuire le opere ad un personaggio di ceppo aristocratico, e, tra i vari nomi, il più plausibile sarebbe il de Vere conte di Oxford, la cui storica presenza in Italia attestata dalle fonti, potrebbe giustificare le dozzine di riferimenti all’Italia e le ambientazioni italiane di tante commedie e tragedie scespiriane.

 

Sarà utile, ai fini di questa breve ricognizione letteraria, ripercorrere le principali ambientazioni italiane delle opere di Shakespeare e concentrarsi su due dei suoi più grandi capolavori ambientati a Venezia, con alcune annotazioni sulle fonti, sull’identità di William, sugli ebrei e il Ghetto, sulla figura di Othello, ovvero l’altro e l’Islam, sull’importanza di mercanti e commerci, e, per concludere, con due citazioni dal Mercante di Venezia, e una dall’Otello.

 

Colpisce che tante opere di Shakespeare siano ambientate in Italia. Per quanto se ne sappia lui non lasciò mai l’Inghilterra, tuttavia gli oppositori della teoria classica, che vogliono il poeta come cittadino di Stratford-upon-Avon, ritengono che l’autore dei capolavori potesse essere un italiano o quantomeno un aristocratico che conosceva davvero bene l’Italia.

 

A Verona sono ambientate due opere: Romeo and Juliet e The Two Gentleman of Verona. Molto rumore per nulla è ambientata a Messina mentre la Bisbetica domata si svolge a Padova; ancora, è possibile che il Sogno di una notte di mezza estate, che si vuole ambientato ad Atene, fosse invece da ascriversi alla bella cittadina di Sabbioneta, vicino Mantova, chiamata nel Rinascimento la piccola Atene; nell’isola di Vulcano, ancora nei pressi della Sicilia, lo scrittore americano Roe pensa che il Bardo avesse sviluppato l’azione della Tempesta.

 

Restano da ricordare il Racconto d’Inverno che si svolge in Sicilia e sulle coste della Boemia, il che potrebbe sembrare un clamoroso errore geografico se non si ricordasse che all’epoca la Boemia possedeva uno sbocco sul mare a Trieste.

 

Tito Andronico, Giulio Cesare e Coriolano hanno l’antica Roma come scenario ed è finalmente a Venezia che Shakespeare ambienta due delle sue creazioni maggiori: Il Mercante... e Otello.

 

Le fonti del Mercante di Venezia e dell’Otello sono due note novelle del Rinascimento italiano: di Giovanni Fiorentino Il mercatante di Vinegia e Il moro di Giovanni Battista Giraldi Cinthio.

 

Se il Merchant of Venice è uno dei lavori più popolari e perfetti di Shakespeare, celebre non solo per l’immortale pittura dell’ebreo Shylock, e per la scena angosciosa e comica assieme del dibattito nel tribunale di Venezia, ma anche per la perfetta e unica fusione di tragedia e commedia amorosa ad un tempo; Othello è la tragedia della gelosia: è come un quadro coperto da fosche ombre, è la perfetta lotta e alternanza del bianco e del nero, del puro e dell’impuro, del bene e del male. Giovinezza, bellezza, coraggio, virtù e amore, sono queste le doti della giovane coppia che felice incede nella prima parte della tragedia, una coppia che ha lottato contro tutti i pregiudizi sociali dell’epoca per stringersi nell’imeneo; ma tutto è infettato dapprima e distrutto infine dalle macchinazioni del diabolico Jago. In uno zenit di alta suspense emotiva che anticipa mestamente la catastrofe finale, Desdemona parlando con Emilia coinvolge e sconvolge lo spettatore:

 

Atto IV, scena III

Desdemona: Mia madre aveva una servetta, che si chiamava Barbara. Era innamorata. Il suo damo fece il matto e la lasciò. Sapeva una canzone: “Il salice”. Era una vecchia ballata: ma rispecchiava il suo destino. Morì cantandola. Quella canzone stasera non vuole uscirmi dalla mente. Devo resistere alla tentazione di piegare il capo da un lato e cantarla, così, come Barbara la servetta. Presto, ti prego.

 

Come afferma Derek Allen, autore del saggio Friendly Shakespeare, Otello è diventato una sorta di testo sacro per coloro che lottano in favore delle donne vittime di maltrattamenti e femminicidio. La sua attualità è sempre più sconcertante, e come per le tragedie greche è divenuta per noi una fonte per la conoscenza della psicologia umana esasperata dalla tragedia.



 

 

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