N. 102 - Giugno 2016
(CXXXIII)
uno
sguardo
alla
palermo
del
trecento
il
volto
ebraico
della
città
di
Cristina
Massa
All’inizio
della
seconda
metà
del
XIV
secolo,
quella
degli
ebrei
di
Sicilia
risultava
una
presenza
radicata
nell’isola
da
circa
un
millennio:
i
suoi
albori
sono,
presumibilmente,
da
rintracciare
nella
Roma
dei
secoli
IV e
V.
Da
allora,
la
comunità
ebraica
siciliana
continuò
a
prosperare,
conoscendo,
nell’arco
di
quasi
mille
anni,
differenti
domini
e
assetti
politico-istituzionali
(dalla
Roma
cristiana
a
Bisanzio,
dal
dominio
musulmano
a
quello
normanno,
dal
governo
svevo
a
quello
degli
Angiò,
per
passare,
infine,
sotto
l’egida
aragonese).
Palermo
– il
maggior
centro
urbano
della
Sicilia,
sia
in
termini
di
estensione
territoriale
che
di
densità
abitativa
–
ospitava
la
principale
comunità
di
ebrei
dell’isola.
Nucleo
dell’abitato
ebraico
palermitano
era
il
quartiere
arabo
al-Qasr,
risalente
alla
fine
del
X
secolo,
meglio
noto
come
Cassaro.
Non
si
trattava,
comunque,
dell’unico
quartiere
di
Palermo
abitato
da
ebrei:
stando
a un
censimento
effettuato
nel
1479,
oltre
che
nel
Cassaro,
gli
ebrei
vivevano
in
altri
quattro
quartieri:
Albergheria,
Seralcadio,
Kalsa
e
Conceria.
Per
quanto
concerne
il
termine
iudeca,
pare
che
indicasse
la
zona
di
residenza
ebraica
piuttosto
che
la
comunità
in
sé,
denominata
variamente
jamâ῾a,
Judayca
(Giudecca)
e,
sotto
i
Martini,
aljama.
All’interno
del
Cassaro
le
abitazioni
ebraiche
si
frapponevano
a
quelle
dei
cristiani,
a
cui,
non
di
rado,
inquilini
ebrei
pagavano
l’affitto;
ma
poteva
anche
accadere
il
contrario,
ovvero
che
fossero
gli
ebrei
ad
affittare
le
loro
proprietà
immobili
a
cristiani.
Nel
suddetto
quartiere
le
case
ebraiche
erano
costeggiate,
grosso
modo,
da
un’ampia
strada
diritta
che
dal
convento
di
Santa
Caterina
giungeva
sino
al
complesso
di
Santa
Chiara.
Più
rade,
invece,
si
facevano
le
case
attorno
alla
Miskita
(dall’arabo
miskita:
sinagoga,
il
centro
vitale
della
comunità
ebraica),
all’interno
e
nei
pressi
di
cui,
originariamente,
si
era
raccolta
la
Giudecca.
Qui
avevano
sede
il
macello
e il
fondaco
e vi
si
potevano
trovare
anche
alcune
botteghe
di
artigiani
–
benché
la
maggior
parte
di
queste
ultime
sorgesse
lungo
la
via
centrale
del
Cassaro,
strada
conosciuta
come
Platea
marmorea,
dove
gli
ebrei
più
abbienti
possedevano
le
loro
case.
Ad
ogni
modo,
la
storica
zona
di
residenza
ebraica
di
Palermo
non
registrava
un’intensa
attività
commerciale:
le
mercerie,
le
drogherie
e le
botteghe
–
che
fossero
di
proprietà
di
ebrei
o
affittate
– si
concentravano,
infatti,
prevalentemente
nella
zona
dei
Lattarini
(dall’arabo
῾attârîn:
droghieri),
un’altra
area
di
antico
insediamento
arabo-musulmano.
Ma i
quartieri
principalmente
deputati
alla
gestione
degli
affari
da
parte
degli
ebrei
siciliani
erano
la
Conceria,
dove
avevano
luogo
le
botteghe
degli
artigiani
che
lavoravano
il
cuoio,
e l’Albergheria.
Gli
ebrei
erano
impegnati
in
quasi
tutte
le
attività
economiche
praticate
all’interno
e
all’esterno
della
Sicilia
(pesca,
agricoltura,
commercio,
settori
edile
e
manifatturiero...).
Essi,
in
particolare,
rappresentavano
un
segmento
piuttosto
dinamico
del
commercio
mediterraneo
sin
dalla
seconda
metà
del
X
secolo,
quando
intensi,
attraverso
la
rotta
tunisina,
risultavano
gli
scambi
fra
la
Sicilia
e
l’Egitto.
Si
ricordi
che
l’economia
siciliana
era
fondamentalmente
a
base
agricola
e in
essa
apparivano
impiegati,
in
misura
maggiore
o
minore,
proprio
gli
ebrei,
i
quali,
non
diversamente
dai
siciliani
appartenenti
alla
classe
dei
grandi
proprietari
possedevano
pascoli,
vigne
e
poderi
che
talora
concedevano
in
affitto
a
terzi.
Non
a
caso
risultavano
attivi
anche
nella
lavorazione
e
nel
commercio
di
quasi
tutti
i
prodotti
della
terra
–
fra
cui
cereali,
zucchero,
ortaggi,
frutta
–
nonché
nell’allevamento
di
bestiame
da
cui
si
ricavavano
latte,
formaggio
e
carne
da
smerciare.
Questi
ultimi
due
prodotti
erano
definiti
iudiscu
(o
kashèr):
preparati,
cioè,
secondo
apposite
norme
dettate
dal
rituale
ebraico
e
venduti
esclusivamente
a
consumatori
ebrei
(non
erano
destinati,
quindi,
al
mercato
cristiano).
Per
quanto
concerne
le
carni,
i
dettami
biblici
bandivano
il
consumo
di
quelle
equine
e
suine,
ammettendo,
invece,
quelle
ricavate
da
animali
che
non
avevano
lo
zoccolo
fessurato.
La
bedikah,
ossia
la
macellazione,
veniva
eseguita
dagli
ebrei
mediante
una
tecnica
particolare
(la
shechitah):
essa
consisteva
nel
recidere
l’esofago
e la
trachea
dell’animale
in
modo
da
assicurare
l’emissione
totale
del
sangue.
Seguiva
un
meticoloso
controllo
dei
capi
di
bestiame,
al
fine
di
garantire
che
venissero
consumati
solo
quelli
rinvenuti
sani
e
quelli
di
cui
non
era
stata
riscontrata
alcuna
anomalia
fisica.
Altro
prodotto
kashèr
era
il
vino,
soggetto
anch’esso
a
determinate
norme
di
preparazione
stabilite
dalla
Torah:
solamente
gli
ebrei
dovevano
attendere
alla
pigiatura
dell’uva,
così
come
al
controllo
della
vinificazione
e
delle
successive
fasi
che
avrebbero
condotto
al
prodotto
finito.
Il
commercio
di
vino
fruttava
più
di
ogni
altro
genere
alimentare,
non
solo
agli
ebrei,
ma
anche
ai
produttori
cristiani
dell’isola.
A
Palermo
pochi
erano
i
proprietari
di
vigne
ebrei
impegnati
direttamente
nella
produzione
di
uva;
in
taluni
casi
predisponevano
la
vendemmia,
i
cui
lavori
potevano
essere
diretti
da
un
viticoltore
cristiano;
in
altri
casi
potevano
assumere
degli
zappatori.
Sia
mercanti
sia
artigiani
ebrei
gestivano
l’acquisto
e la
vendita
di
uva,
che
avveniva
all’interno
di
taberne.
Spesso
erano
vere
e
proprie
società
a
coordinarne
il
traffico.
A
volte
tali
imprese
si
occupavano
unicamente
del
commercio,
talora,
invece,
riguardavano
anche
lavori
di
manifattura;
oppure,
come
spesso
accadeva,
esse
erano
il
risultato
di
contratti
sanciti
in
merito
a
investimenti,
prestiti
o
altro.
In
un
tipo
di
associazione
di
tal
fatta,
la
parte
contraente
che
riceveva
una
quota
maggiore
dell’utile,
sobbarcandosi
persino
il
rischio
di
eventuali
perdite,
era
quella
che
aveva
impiegato
il
capitale;
il
restante
profitto
veniva
spartito
fra
gli
altri
soci.
Un’altra
attività
particolarmente
lucrosa
svolta
in
Sicilia
era
la
pesca.
Elemento
di
forza
del
mercato
ittico
isolano
era
il
commercio
di
tonno,
che
vedeva
coinvolti
gli
stessi
ebrei
in
quanto
mercanti
e
torcitori
di
funi
da
destinare
alle
diverse
tonnare
presenti
nell’isola
(quella
della
torcitura
era
una
mansione
che
spesso
veniva
svolta
da
donne
ebree).
Oltre
al
tonno,
naturalmente,
nei
mari
che
lambivano
le
coste
della
Sicilia
venivano
pescati
altri
pesci,
fra
cui
anguille
e
sardine.
Si
trattava
di
merci
che
figuravano
spesso
quali
oggetto
della
grascia,
ossia
del
piccolo
commercio,
praticato
in
genere
da
ebrei
non
versanti
in
condizioni
di
particolare
agiatezza,
i
quali
erano
soliti
acquistare
sarde
e
tonno
salati,
mele,
formaggi,
olio
d’oliva,
castagne.
Riferimenti
bibliografici:
Bresc
H.,
Arabi
per
lingua.
Ebrei
per
religione,
Messina
2001.
Simonshon
S.,
Tra
Scilla
e
Cariddi.
Storia
degli
ebrei
in
Sicilia,
Roma
2011.
Toaf
A.,
Il
vino
e la
carne.
Una
comunità
ebraica
nel
Medioevo,
il
Mulino,
2007.