N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
IL SENSO DELLA STORIA
SGUARDO COMPARATO TRA LE RELIGIONI
di Silvia Mangano
La
storia
può
essere
presa
in
considerazione
da
due
punti
di
vista.
Infatti
essa
può
essere
intesa
come
il
complesso
degli
accadimenti
umani
che
si
svolgono
lungo
un
lasso
cronologico
(historia
res
gestae),
oppure
può
rappresentare
l’analisi
e la
successiva
interpretazione
critica
di
quegli
avvenimenti
(historia
rerum
gestarum).
L’escatologia,
invece,
significa
etimologicamente
“studio/discorso/scienza
delle
cose
(realtà)
ultime”.
Escatologia
e
storia
sono
strettamente
connesse,
perché
la
prospettiva
escatologica
muta
a
seconda
della
concezione
che
una
determinata
civiltà
ha
della
storia.
Vige
una
differenza
sostanziale
tra
le
società
che
concepiscono
il
tempo
come
un
percorso
circolare,
da
quelle
che
hanno
elaborato
un
concetto
di
tempo
lineare.
I
popoli
primitivi
(con
questo
termine
siamo
costretti
a
intendere
un
largo
bacino
di
società
che
comprende
le
popolazioni
illetterate
del
presente,
come
i
popoli
dell’Amazzonia,
e i
popoli
paleo-orientali,
come
i
babilonesi)
possono
essere
definiti
con
il
termine
di
culture
sacrali.
Questi
popoli
non
hanno
un
concetto
di
tempo
che
esula
dalla
sfera
sacrale,
ma,
al
contrario,
sentono
la
necessità
di
fuggire
il
tempo
considerato
“profano”,
poiché
considerato
di
scarso
valore.
Il
rifiuto
della
storia
si
esplica
nella
concettualizzazione
del
patrimonio
tradizionale:
le
culture
sacrali
non
redigono
cronache,
non
registrano
eventi,
né
raccontano
la
storia,
ma
estrapolano
l’archetipo
dall’episodio
storico
e lo
trasformano
in
mito.
Il
tempo
è
proficuo
– e
reale
–
solo
se
viene
impiegato
per
riattualizzare
il
tempo
sacro,
il
tempo
delle
origini,
il
tempo
del
mito.
Tutto
ciò
che
un
uomo
fa
da
sé e
per
sé,
scollegandosi
dal
sacro,
è
considerato
irreale,
inutile
e
pericoloso
per
la
comunità.
Ne
deriva
una
nostalgia
delle
origini,
tipica
di
tutte
le
culture
antiche
(cfr.
il
mito
dell’età
dell’oro),
il
rimpianto
del
tempo
iniziale
della
creazione,
quando
il
mondo
era
in
piena
armonia,
mentre
nel
presente
si
vive
una
situazione
di
continua
degradazione.
In
questo
contesto
si
inserisce
il
rito,
che
serve
a
riattualizzare
quel
tempo
e a
collocare
il
presente
nel
mito.
Il
rito
del
capodanno,
per
esempio,
riportava
il
popolo
al
tempo
della
creazione,
in
cui
si
passava
da
una
situazione
di
caos
al
ristabilimento
dell’ordine
primigenio.
Bisogna
aggiungere
che
la
nozione
di
tempo
ciclico
veniva
sviluppata
in
virtù
dell’osservazione
cosmica,
in
cui
l’universo
sembra
muoversi
in
una
ciclicità
infinita
(ritmo
delle
stagioni,
alternanza
giorno/notte,
ecc.),
così
la
vita
umana
era
considerata
analogicamente
simile
a
quella
della
luna:
ogni
ciclo
lunare,
essa
nasce,
cresce,
scompare
e
rinasce.
In
questo
contesto,
il
senso
della
storia
è il
riflesso
di
ciò
che
è
avvenuto
nel
passato.
Anche
nella
concezione
orientale
(si
farà
riferimento
in
particolar
modo
alla
tradizione
induista),
il
tempo
è un
susseguirsi
infinito
di
cicli
di
creazione,
conservazione
e
dissoluzione,
in
cui
il
tempo
lineare
(quello
della
vita,
per
intenderci)
non
ha
alcun
valore
in
sé.
La
storia
non
può
portare
alcun
cambiamento,
né
novità.
Il
reale
è
maya
(illusione):
l’atman
(l’io),
per
via
della
a-vidya
(cecità/ignoranza),
considera
il
reale
come
sussistente,
concreto,
e
non
si
accorge
che
l’unica
realtà
esistente
è il
brahman.
Da
questo
punto
di
vista,
l’escatologia
relativa
prevede
una
fine,
ma
non
è
una
fine
assoluta.
Tuttavia,
il
singolo
può
aspirare
a
una
escatologia
individuale:
tramite
l’ascesi
può
giungere
alla
moksa
(o
mukti,
o
nirvana,
che
significa
“estinzione”),
in
cui
l’atman
si
libera
dalla
ciclicità.
Nonostante
venga
offerta
una
“via
d’uscita”
– se
così
possiamo
chiamarla
–, è
fuor
di
dubbio
che
la
concezione
orientale
riguardo
all’escatologia,
sia
una
concezione
fortemente
negativa,
spia
di
una
cosmovisione
in
cui
la
persona
non
è né
il
centro,
né
un
soggetto
di
condizione
particolare.
L’ottica
vedico-brahmanica
(che
ancora
non
accettava
la
reincarnazione)
credeva
nell’esistenza
di
un
cielo
(svarga),
al
di
là
del
mondo
umano
e di
quello
divino,
dove
riposavano
gli
uomini
virtuosi,
e a
cui
si
accedeva
tramite
la
“via
dei
padri”
(pitryana)
e la
“via
degli
dei”
(devayana).
Al
contrario,
l’inferno
(naraka)
era
una
dimensione
di
atroci
sofferenze
temporali.
Per
quanto
riguarda
il
buddismo,
non
esiste
né
premio
né
castigo,
perché
l’uomo
è un
anatman,
un
non-io:
per
la
filosofia
buddista
la
liberazione
corrisponde
alla
comprensione
della
propria
non-esistenza
(va
escluso
il
buddismo
mahajanico).
Lo
stato
dell’anima
dopo
la
liberazione
è
descritto
in
diversi
modi,
a
seconda
dalla
via
ascetica
seguita:
per
il
samkhya
yoga,
è
l’isolamento
del
purusa;
per
l’advaita
vedanta,
la
liberazione
corrisponde
con
la
perdita
della
propria
identità
nell’identificazione
con
Brahman;
per
le
scuole
teistiche,
la
liberazione
corrisponde
alla
comunione
con
Dio,
la
cosiddetta
“visione
beatifica”.
Con
le
upanisad
sorge
il
problema
della
reincarnazione,
in
cui
l’uomo
è
indissolubilmente
legato
alla
legge
del
karma
e
costretto
nel
samsara
(il
ciclo
delle
esistenze).
Se
nella
vita
l’uomo
riesce
a
malapena
a
scontare
la
quantità
minima
di
karma,
come
può
uscire
dal
ciclo
delle
esistenze?
Come
abbiamo
accennato
poco
fa,
il
buddismo
cerca
una
via
di
fuga
tramite
l’annullamento
della
condizione
umana,
la
soppressione
del
desiderio
di
vivere.
Se
la
filosofia
buddista
esige
il
rifiuto
della
storia,
l’induismo
la
divide
persino
in
quattro
tappe.
Ogni
ciclo
cosmico
corrisponde
a
100
anni
divini
(1
anno
divino
=
3110
miliardi
e
400
milioni
di
anni
umani)
ed è
diviso
in
quattro
yugas
(o
ere):
krtayuga
(“era
perfetta”)
à
tratayuga
(“era
della
tripletta”)
à
dvaparayuga
(“era
del
punteggio
doppio”)
à
kaliyuga
(“era
del
punteggio
singolo/perdente”).
L’epoca
in
cui
viviamo
sarebbe
la
kaliyuga.
Il
pensare
di
trovarsi
nell’epoca
peggiore
è
topico
in
questo
tipo
di
religiosità.
Con
la
“rivoluzione
monoteista”,
si
assiste
a un
cambiamento
epocale.
Il
profetismo
messianico
(tipico
dell’ebraismo)
cambia
il
concetto
di
storia,
vista
come
teofania.
Il
sentimento
dell’uomo
antico
nei
confronti
del
divenire
storico
era
connotato
da
una
forte
rassegnazione;
con
l’avvento
del
monoteismo,
invece,
la
storia
diventa
punto
di
incontro
con
una
Volontà
Personale
che
si
nasconde
dietro
agli
avvenimenti
(Dio).
La
storia
non
è
più
né
ripetizione
di
archetipi,
né
fatalità,
ma
ogni
evento
storico
diventa
irripetibile
e
irreversibile.
La
storia
è
lineare,
a
senso
unico.
Per
Elia
e
Geremia,
gli
avvenimenti
sono
il
giudizio
di
Dio
e
ogni
Suo
intervento
direziona
il
tempo
dell’uomo.
Il
Dio
della
creazione
non
scompare
dopo
il
“sesto
giorno”,
ma
continua
a
essere
il
Dio
della
promessa
e
l’uomo
è
chiamato
ad
avere
uno
sguardo
rivolto
verso
il
futuro.
La
storia
diventa
escatologia
e in
questo
il
caso
di
Abramo
è
emblematico.
Per
una
migliore
comprensione,
preferiamo
citare
un
passo
di
Mircea
Eliade:
“L’esempio
classico
del
sacrificio
di
Abramo
mette
mirabilmente
in
luce
la
differenza
tra
la
concezione
tradizionale
della
ripetizione
del
gesto
archetipico
e la
nuova
dimensione,
la
fede,
acquistata
con
l’esperienza
religiosa.
Sotto
l’aspetto
formale,
il
sacrificio
di
Abramo
è
semplicemente
il
sacrificio
del
primogenito,
di
uso
frequente
in
quel
mondo
paleo-orientale
in
cui
gli
ebrei
hanno
vissuto
fino
all’epoca
dei
profeti.
Il
primo
figlio
era
spesso
considerato
come
quello
del
dio
[…].
Con
il
sacrificio
del
primo
figlio,
si
restituiva
alla
divinità
ciò
che
le
apparteneva
[…].
E,
in
un
certo
senso,
Isacco
era
un
figlio
di
Dio,
poiché
era
stato
dato
ad
Abramo
e a
Sara
quando
ormai
questa
aveva
da
molto
superato
l’età
per
partorire.
Ma
Isacco
fu
loro
dato
per
la
fede
–
era
figlio
della
promessa
e
della
fede.
Il
suo
sacrificio
da
parte
di
Abramo,
anche
se
formalmente
assomiglia
a
tutti
i
sacrifici
di
neonati
del
mondo
paleo-semitico,
se
ne
differenzia
sostanzialmente
per
il
contenuto.
[…]
L’atto
religioso
di
Abramo
inaugura
una
nuova
dimensione
religiosa:
Dio
si
rivela
come
personale,
come
un’esistenza
«totalmente
distinta»
che
ordina,
gratifica,
domanda
[…]
e
per
il
quale
tutto
è
possibile”.
Il
cristianesimo
nasce
con
una
fortissima
impronta
storica,
in
passato
molti
apologeti
basavano
la
difesa
della
loro
fede
sul
suo
radicamento
nella
storia.
Esso
infatti
nasce
con
un
avvenimento:
l’incarnazione.
I
cristiani
ereditano
l’Antico
Testamento
e lo
rileggono
alla
luce
di
Cristo:
per
Agostino,
la
storia
è un
progresso
che
parte
dalla
creazione
e
che
trova
il
suo
culmine
nello
stesso
Gesù.
Il
tempo
umano,
lineare,
terreno,
diventa
il
luogo
di
incontro
con
Dio,
che
si
fa
carne
e si
piega
verso
le
sue
creature.
Per
questo
motivo,
per
il
cristiano,
la
visione
della
storia
è
escatologica:
la
storia
non
è,
né
ha,
un
progresso
infinito,
ma
si è
concluso
con
l’incarnazione.
Così
la
storia
profana
non
è
parallela
alla
storia
sacra,
ma
ne
fa
parte;
non
è
una
condizione
da
cui
fuggire,
ma
una
condizione
temporanea,
in
cui
l’anima
non
si
trova
a
suo
agio.
Come
si
può
definire,
in
ultima
analisi,
il
tempo
che
va
dall’ascensione
di
Cristo
alla
sua
seconda
venuta
(parusia)?
Per
il
cristiano,
questo
è il
tempo
della
missione.
Il
carattere
eterogeneo
della
formazione
dell’Islam,
comporta
una
concezione
del
tempo
mista,
in
cui
si
condivide
con
l’universo
giudaico-cristiano
il
concetto
di
tempo
lineare,
ma
mantiene
al
proprio
interno
elementi
ricollegabili
ai
popoli
arcaici.
La
predicazione
di
Muhammad
è
incentrata
sul
ritorno
al
monoteismo
primitivo,
quello
di
Abramo
per
intenderci
(i
cristiani
credono
nella
Trinità,
un
concetto
teologicamente
troppo
lontano
dal
pragmatismo
musulmano
che,
per
questo,
accusa
i
seguaci
di
Cristo
di
essere
politeisti
e di
credere
in
tre
dei).
In
questo
caso,
il
tempo
è
lineare,
ma
visto
come
una
lenta
degradazione,
che
allontana
la
Umma
dall’epoca
d’oro
in
cui
è
vissuto
il
profeta.
La
storia
non
acquista
importanza,
ma
diventa
l’orizzonte
d’azione
in
cui
l’uomo
pecca
e
lentamente
si
abbandona
all’idolatria.
Da
qui
l’importanza
dell’azione
dei
profeti,
che
riportano
la
comunità
al
tempo
ideale,
quello
appunto
di
Muhammad
e
dei
suoi
compagni.
Per
questo
motivo
l’Islam
ha
una
visione
del
progresso
molto
negativa.
Il
tempo
lineare
si
svolge
nell’annuncio
del
giorno
del
giudizio
(al-yawn
al-akhir)
e
termina
con
la
fine
del
mondo,
in
cui
la
terra
verrà
completamente
annichilita
e i
corpi
risorgeranno:
«quando
il
cielo
si
squarcerà
e
saranno
dispersi
gli
astri
e
confonderanno
le
loro
acque
i
mari
e
saranno
sconvolti
i
sepolcri,
ogni
anima
conoscerà
quel
che
avrà
fatto
e
quel
che
avrà
trascurato».
Tre
saranno
i
segni
della
fine
del
mondo:
l’apparizione
dell’impostore
(al-daggal),
l’apparizione
di
una
bestia
(al-dabba)
e il
sorgere
del
sole
a
ovest.
A
essi
seguirà
il
giudizio
universale,
in
cui
Dio
condannerà
i
malvagi
all’inferno
e i
retti
saranno
condotti
in
paradiso.
Pur
essendo
nato
dopo
il
cristianesimo
e
pur
essendo
stato
influenzato
da
correnti
eterodosse
del
medesimo,
l’Islam
non
concepisce
un’escatologia
intermedia
(che
il
Cattolicesimo
ha
sintetizzato
nella
parola
purgatorio).
In
conclusione,
analizzando
le
diverse
concezioni
di
tempo,
si
può
riscontrare
un’escatologia
assoluta
oppure
un’escatologia
relativa
(propria
della
concezione
ciclica
del
tempo,
in
cui
non
esiste
una
fine
assoluta,
di
conseguenza
sussistono
solo
realtà
ultime
relative).
Un’ulteriore
suddivisione
è
quella
tra
l’escatologia
individuale,
che
prende
in
esame
solo
il
destino
dell’uomo,
e
l’escatologia
cosmica,
che
considera
il
mondo
nella
sua
interezza.