LE SETTE CITTÀ DI CÍBOLA
GEOGRAFIA IMMAGINARIA, TRA MITO ED
ESPLORAZIONE
di Donato Rocco Festa
La leggenda dell’isola delle Sette
Città comincia quando, nel 507 d.
C., il dominio dei Visigoti sulla
Spagna inizia a vacillare a causa
della corruzione e dell’immoralità
all’interno del regno; sappiamo che
Witiza, re dei Goti, abolì i
consigli e dispose che tutti i
sacerdoti seguissero il suo esempio
di avere diverse mogli e concubine.
Con la successione al trono di suo
figlio Roderico si acuirono le
ingiustizie e ciò mise in grande
difficoltà le strutture governative
indebolendole gravemente; anche
l’esercito ne risentì infatti i
Mori, provenienti dall’Africa del
nord, riuscirono a entrare
agevolmente nel territorio iberico;
inoltre l’esercito invasore fu
appoggiato dai fratelli del monarca
che concorrevano per il trono
cosicché le forze armate regie
furono sbaragliate nettamente e i
nuovi arrivati poterono impadronirsi
rapidamente della penisola iberica.
Del sovrano non si hanno notizie
certe da questo momento in poi anche
se si ritiene che probabilmente fu
ucciso oppure riuscì a fuggire nel
711. È interessante notare che le
cronache dell’epoca accollarono la
responsabilità del crollo del regno
dei Goti non soltanto alla loro
scarsa capacità governativa ma anche
ai loro peccati e al loro rifiuto
della religione. Con l’instaurazione
del potere musulmano le cose non
migliorarono dal punto di vista
sociale; gli occupanti distrussero,
infatti, numerose città,
massacrarono donne e bambini e
condannarono a morte i potenti
locali.
Di fronte a questa instabilità e
barbarie fu inevitabile che la
popolazione cercò disperatamente la
fuga sia verso l’Europa continentale
sia verso la costa portoghese. Per
coloro che scelsero di avventurarsi
via mare le insidie erano
innumerevoli poiché avrebbero dovuto
navigare non solo verso isole
accessibili e già conosciute ma
soprattutto verso luoghi la cui
esistenza era incerta; inoltre c’era
da vincere il grande timore
dell’ignoto che fino ad allora aveva
caratterizzato i viaggi
nell’Atlantico che era considerato
quasi come una distesa
impercorribile a causa delle
leggende e delle paure che si
riponevano oltre il confine delle
terre conosciute identificato con le
Colonne d’Ercole. Ma agli esuli
spagnoli poco importava di tutto
questo di fronte al pericolo
rappresentato dagli invasori
nord-africani che portarono
brutalità e diffusero il panico tra
i cittadini; la disperazione li rese
ciechi davanti ai misteri di questo
viaggio e li spinse verso lo
sconosciuto oceano. Questo evento in
realtà ha contribuito nel corso
degli anni alla diffusione delle più
disparate narrazioni a proposito
degli itinerari affrontati da questi
profughi e fu così che si sparsero
false informazioni da cui la
fantasia di molti scrittori prese
spunto per dare vita a leggende che
nei secoli successivi ebbero un
grande successo tra le genti locali
ma anche a livello continentale. Tra
queste c’è quella che riferisce che
in seguito alla disfatta gotica un
arcivescovo insieme ad altri sei
vescovi e a numerosi fedeli si
allontanarono dalla Spagna per
scampare alla schiavitù; giunti in
un porto sulla costa del Portogallo
presero il largo e si spinsero fino
a un isola nell’Atlantico dove
fondarono sette città che
corrispondevano al numero dei capi
ecclesiastici.
Secondo Gabotto: «D’ogni parte
fuggivano i vinti, cercando scampo
sulle montagne e sulle navi; sette
vescovi con gran seguito d’uomini e
di donne fuggendo giunsero al mare e
ripararono sopra una flotta che li
trasportò per l’Atlantico. Ed ecco
un’isola ignota apparire dinanzi a
essi; sbarcano; i vescovi, per
impedire a tutti di abbandonare i
compagni, incendiano le navi. Là
vissero lungamente essi e i loro
discendenti».
A proposito del fantomatico viaggio
esistono diverse varianti. Dalle
fonti, infatti, risultano incerti
sia il luogo da dove i sette
salparono sia l’anno in cui avvenne
tale evento (il periodo è quello
compreso tra il 714 e il 734); sono
assenti, inoltre, notizie relative
al tipo di vita che condussero una
volta a destinazione. Fernando
Colombo che descrive l’isola come
ricca d’oro, di perle e di pietre
preziose; i templi e le case regali
erano ricoperti da piastre auree.
Cosicché, per non esser conosciuto
il cammino, tutte queste cose si
ritrovano nascoste e coperte; e a
essa si può andar sicuramente. Molte
altre cose si potrebbero dire ma,
come io vi ho già detto a bocca, e
voi siete prudente e di buon
giudizio, mi rendo certo che non vi
resta cosa alcuna da intendere.
Diversi naviganti portoghesi avevano
fatto scalo su quell’isola, nel
corso del tempo, ma nessuno fece
ritorno e ne diede informazione
poiché furono trattenuti dai
successori dei vescovi per
scongiurare persecuzioni da parte
dei musulmani. Fernando Colombo ci
dice che al tempo del principe
Enrico di Portogallo, che era un
fautore dei viaggi di esplorazione,
in un periodo di grande fermento in
merito alle traversate atlantiche,
molti marinai riferirono al sovrano
di aver trovato e perlustrato
l’isola delle Sette Città. A
proposito di questa terra misteriosa
riferirono che gli abitanti
parlavano la lingua portoghese e che
appena sbarcati li portarono in
chiesa per appurare che fossero di
fede cattolica; gli isolani vollero
sapere se i Mori controllassero
ancora la Spagna e furono felici di
sapere che questi avevano perso gran
parte dei territori nella penisola
iberica. Il racconto prosegue con la
narrazione di un particolare
episodio; mentre una parte
dell’equipaggio era nella cappella
la parte restante si trovava sulla
spiaggia per prendere della sabbia
con lo scopo di utilizzarla in
cucina e fu così che constatarono
con grande incredulità che gran
parte di essa era in oro. Le genti
dell’isola vollero che i marinai
rimanessero ancora altro tempo in
attesa del ritorno del loro
governatore poiché in quei giorni
era distante, su un’altra parte
dell’isola, ma i lusitani temendo di
essere tenuti come prigionieri, di
nascosto, salparono e fecero ritorno
a Lisbona. Giunti sul territorio
europeo i naviganti riferirono
quanto osservato al principe Enrico
ma contro le loro aspettative non
ottennero alcuna ricompensa. Il
sovrano non credette a una sola
parola della loro storia e li esortò
a rifare nuovamente il viaggio per
ricevere informazioni più
dettagliate promettendogli ricchi
doni in caso di riuscita
dell’impresa. Gli esploratori avendo
timore che potesse essere svelata,
in questo modo, la falsità del loro
racconto si diedero alla fuga senza
lasciare nessuna notizia.
Antonio Galvano ci rende un’altra
versione del racconto secondo la
quale nel 1447 una nave portoghese
che attraversò la striscia di
Gibilterra si imbatté in una forte
tempesta e per fuggire da questa fu
costretta a virare verso ovest; i
naviganti giunsero così su un’isola
che aveva sette città in cui gli
abitanti parlavano la loro lingua.
Il capitano della nave portò con se
della sabbia e al suo ritorno la
vendette a Lisbona ricavando
dell’oro; il governatore del regno,
Don Pedro, quando venne a sapere di
ciò fece catalogare tutto quello che
i membri dell’equipaggio avevano
portato. In seguito a questa vicenda
in molti ritennero che le isole
fantomatiche da cui i lusitani
furono cacciati dovevano essere le
Antille o le Azzorre.
Manuel de Faria y Sousa in base alla
traduzione degli scritti del
capitano Stevens fornisce un’altra
interpretazione secondo la quale in
seguito alla disfatta gotica i Mori
commisero su suolo iberico crudeltà
inumane; la maggiore resistenza ci
fu a Merida dove molti combattenti
erano portoghesi ed erano comandati
da un nobile goto, Sacaru. La città
fu assediata per lungo tempo e
nonostante la strenua opposizione e
le azioni eroiche dei suoi difensori
finì per essere conquistata. Il
condottiero lusitano attraversò il
paese fino ad arrivare a un porto
dal quale salpò con un piccola
flotta; il luogo di destinazione non
è conosciuto ma l’autore narra che
probabilmente è da identificare con
Antilia, un’isola dell’Atlantico,
anche se afferma che non è mai stata
trovata e che si tratta solamente di
una supposizione.
Stevens non dice che si imbarcarono
in direzione delle Isole Fortunate
(fatte coincidere con le Canarie)
con l’obiettivo di salvare la
popolazione spagnola ma che furono
condotti su un’isola misteriosa i
cui abitanti provenivano dal
Portogallo e che conteneva sette
città; in questa versione della
storia manca il riferimento al
leggendario viaggio dei vescovi
emigrati dalla Spagna e compare un
ulteriore elemento di novità che
consiste nell’esistenza di una meta
precisa che fu l’obiettivo del
viaggio degli iberici.
Nella narrazione è ben spiegata la
motivazione della fuga presentata
come una conseguenza della disfatta
della città di Merida; questa
versione fornisce delle ragioni più
veritiere al racconto anche se tra i
suoi punti deboli rimane da spiegare
il motivo per cui gli emigranti
scelsero come punto d’arrivo della
fuga una terra così lontana come
Tenerife e le altre isole delle
Canarie. Un punto di forza di questa
esposizione rimane il fatto che il
comandante militare che guidò la
resistenza contro gli invasori Mori
costituirebbe un capo fidato che
condusse gli esuli, scampati
all’efferatezza degli occupanti,
verso una destinazione da cui poter
ricominciare una nuova vita sicura
dagli eventi nefasti che in quel
periodo travolgevano la penisola
iberica. Diversi studiosi hanno
cercato di conciliare queste notizie
per cercare di ricostruire un'unica
trama in maniera tale da poterne
esaminare più a fondo la
verosimiglianza; la componente
leggendaria, recisa nell’ultimo
resoconto preso in considerazione,
costituita dalla vicenda dei sette
vescovi sarebbe, infatti,
assimilabile anche a questa
esposizione dei fatti poiché gli
ecclesiastici, anch’essi in partenza
e in cerca della possibilità di
condurre i fedeli verso una comunità
sicura in cui professare liberamente
la propria religione, si sarebbero
potuti ricongiungere con il capitano
della spedizione e gli altri
fuggitivi a Oporto, la città
portiera da cui salparono, oppure,
secondo un’ipotesi infelice,
sarebbero stati catturati lungo il
tragitto verso le navi.
Possiamo concludere che tutta la
narrazione si basa su vicende che
affondano le proprie radici in
eventi reali ma a causa di mancanza
di prove certe il viaggio intrapreso
dai profughi, protagonisti della
storia, rimane avvolto da diversi
misteri. È un racconto che fu
probabilmente espressione del
bisogno che gli iberici avevano, al
tempo in cui fu fatto risalire, di
evadere attraverso le vie
dell’immaginario da una situazione
drammatica dal punto di vista
sociale dando al popolo, stremato
dall’invasione, la speranza di poter
ottenere un giorno un riscatto e
l’emancipazione dai brutali
aggressori.
Questa narrazione ebbe alcuni
sostenitori che credettero reali le
vicende sull’isola fantastica e gli
incontri con gli isolani. Il mito
sarebbe stato probabilmente
dimenticato se non fosse stato
accostato a un altro che cominciò a
circolare nel Quattrocento. Il luogo
in cui si stanziarono i sette
vescovi fu infatti identificato con
Antilla, un’isola indicata da
Aristotele e Diodoro Siculo come
scoperta dai Cartaginesi e dai
Fenici; essi la individuarono come
un rifugio nell’eventualità che un
evento imprevisto avesse distrutto
oppure seriamente minacciato la
propria patria. Martino Behaim di
Norimberga, allievo di Filippo
Beroaldo il vecchio e di Giovanni
Muller detto Regiomontanus, era uno
dei geografi più affermati nella
seconda metà del XV secolo, e nel
suo planisfero, del 1492, disegnò
Antilla posizionandola nell’oceano
Atlantico. L’autore rifiutò la forma
con cui l’isola veniva riportata
nelle altre mappe; in questo
documento compare un’iscrizione,
tradotta da Ravenstein, che la
identifica con quella leggendaria
delle Sette Città e conferma le
vicende dei sette ecclesiastici
affermando che la regione insulare
era abitata da un arcivescovo di
Porto insieme ad altre sei guide
clericali e a una moltitudine di
seguaci fuggiti dalla Spagna con una
nave portando con se nella
traversata i propri beni e il
bestiame; il testo ci informa anche
dello sbarco, sulla mitica isola, di
una nave spagnola, nel 1414, il cui
equipaggio fu ospitato in modo
pacifico. È importante ricordare
questa testimonianza perché ci
fornisce una prova dell’enorme
diffusione della leggenda che
riguardò il viaggio degli emigrati
spagnoli. Ad Hispaniola circolarono
numerosi racconti riguardanti la
civilizzazione di quella favolosa
regione; l’esploratore Giovanni di
Grivalja viaggiando in prossimità di
quella terra osservò vasti e
maestosi edifici di calce e di
pietra e alte torri sparse tra le
abitazioni. La storia delle Sette
Città si diffuse e in molti le
collocarono in questa parte del
territorio della Nuova Spagna.
Antilla o Antillia era denominata in
modi diversi e costituiva, secondo
la tradizione, riparo per gli esuli;
Paolo Toscanelli che era un celebre
cosmografo di Firenze, nel 1474,
spedì a Cristoforo Colombo il
duplicato di una lettera inviata a
un amico che lavorava presso la
corte portoghese. L’autenticità di
questo testo è stata messa in dubbio
ma nonostante questo gran parte
degli studiosi lo ritiene
attendibile; in esso si legge:
«Dall’isola Antilia, che voi
chiamate delle sette città e di cui
avete una certa conoscenza, fino
alla nobilissima isola di Cipango
(corrisponde all’attuale Giappone)
sono dieci spazi, che fanno duemila
e cinquecento miglia, cioè
seicentoventicinque leghe». In
questo brano l’autore identifica i
due luoghi e ne descrive la
posizione.
Antillia era già presente su carte
precedenti, su cui compariva con
diversi appellativi come Atilae, o
Atulae; in uno scritto di Pizigani,
del 1367, designa una costa su cui
era stata costruita una grande
statua per segnalare quella riva;
questa zona va rintracciata nel
territorio dove figura Corvo delle
Azzorre. Essa figura anche nella
mappa di Beccario, del 1435; il suo
nome è riferito a un insieme di
quattro isole dell’Atlantico
occidentale identificabili con le
Grandi Antille. Antillia è qui
disegnata a forma di quadrilatero
allungato con i lati frastagliati da
sette baie in aggiunta a un’altra
baia più grande situata a sud. Nelle
mappe successive la raffigurazione
dell’isola subisce pochi mutamenti;
la tavola di Benincasa mostra le
denominazioni delle baie e delle
zone adiacenti tranne una, quella
posta di dinanzi al centro
dell’isola di Antillia.
Kretschmer fornisce altri termini
quali Aira, Ansalli, Ansodi, Con,
Anhuib, Ansesseli e Ansolli che sono
ritenuti frutto della fantasia;
rimane una stupefacente coincidenza
numerica anche se nell’isola
seguente, Saluaga, si nota una
somiglianza per quanto riguarda la
distribuzione e la configurazione
delle cinque baie; i nomi di Arahas,
Duchal, Imada, Nom e Consilla,
inoltre, sono accostati in modo
corrispondente. Da una carta anonima
fatta risalire al 1424 sono emerse
tracce di nomi o lettere nella
sezione in cui è collocata Antilia
ma questo prezioso documento
presenta gravi lacune che lo rendono
quasi indecifrabile e ciò ne riduce
in modo decisivo il valore storico;
si è discusso anche a proposito
della sua datazione poiché diversi
studiosi ritengono che questa mappa
risale alla fine del secolo (come
quella di Benincasa).
Altre informazioni sulla sua
possibile collocazione ci giungono
dai resoconti delle esplorazioni
inglesi; nel 1498 Pedro de Ayala che
era l’ambasciatore spagnolo in Gran
Bretagna riferì, nei suoi scritti, a
Ferdinando e Isabella, i regnanti
cattolici di Spagna, dell’operosità
anglosassone nel cercare nuove rotte
marittime a spese, in realtà, dei
marcanti privati. Spiega come i
marinai di Bristol, in particolare,
negli ultimi anni avevano compiuto
numerose navigazioni impiegando per
ciascuna spedizione diverse
imbarcazioni leggere, le caravelle,
con l’obiettivo di raggiungere
l’isola di Brasil e delle Sette
Città segnalate da Paolo Toscanelli.
Nel 1480 fu organizzata una missione
esplorativa con questo proposito
guidata dal più valido comandante
inglese, il cui nome ci è
sconosciuto, ma probabilmente
possiamo supporre si trattasse di
Giovanni Caboto. Il bastimento su
cui si imbarcò l’equipaggio sappiamo
che apparteneva all’armatore Jay le
Jeune e poteva sopportare circa
ottanta tonnellate; con tale nave
salparono il 5 luglio dal porto di
Bristol e ritornarono circa due mesi
dopo, precisamente il 18 settembre,
non riuscendo a rintracciare le
isole tanto agognate; questo viaggio
rimane, però ipotetico poiché non
abbiamo fonti certe che ci attestino
la sua veridicità. Sicuramente
sappiamo che a questa fantomatica
impresa ne sono seguite altre
realmente avvenute a cominciare dal
1491. Furono pianificati una
successione di viaggi con piccole
flotte di tre o quattro caravelle
comandate da Caboto che si
dimostrarono tutte improduttive; nel
quarto viaggio, il 24 giugno 1494, i
marinai giunsero sul continente
americano.
La prima apparizione dell’isola di
Brasil è sulla mappa di Dalorto, del
1325, rappresentata come un disco di
terra, ma la carta catalana del 1375
e altre ancora modificano questa
raffigurazione in un cerchio che
circonda uno specchio d’acqua
disseminato di piccole isole (nove
nell’illustrazione catalana); il
dottor Kretschmer ne disegna sette;
il numero delle isole fa viaggiare
l’immaginazione, infatti, in molti
hanno ritenuto che questi isolotti
fossero in realtà le sette città
mitiche ma gli oppositori di questa
speculazione sostengono che i
piccoli lembi di terra non sono
abitati e nella leggenda, invece, i
diversi centri sono collocati sullo
stesso territorio. Anche se rimane
la validità di queste considerazioni
tale accostamento è certamente molto
coinvolgente.