[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

196 / APRILE 2024 (CCXXVII)


moderna

LE SETTE CITTÀ DI CÍBOLA
GEOGRAFIA IMMAGINARIA, TRA MITO ED ESPLORAZIONE

di Donato Rocco Festa

 

La leggenda dell’isola delle Sette Città comincia quando, nel 507 d. C., il dominio dei Visigoti sulla Spagna inizia a vacillare a causa della corruzione e dell’immoralità all’interno del regno; sappiamo che Witiza, re dei Goti, abolì i consigli e dispose che tutti i sacerdoti seguissero il suo esempio di avere diverse mogli e concubine. Con la successione al trono di suo figlio Roderico si acuirono le ingiustizie e ciò mise in grande difficoltà le strutture governative indebolendole gravemente; anche l’esercito ne risentì infatti i Mori, provenienti dall’Africa del nord, riuscirono a entrare agevolmente nel territorio iberico; inoltre l’esercito invasore fu appoggiato dai fratelli del monarca che concorrevano per il trono cosicché le forze armate regie furono sbaragliate nettamente e i nuovi arrivati poterono impadronirsi rapidamente della penisola iberica. Del sovrano non si hanno notizie certe da questo momento in poi anche se si ritiene che probabilmente fu ucciso oppure riuscì a fuggire nel 711. È interessante notare che le cronache dell’epoca accollarono la responsabilità del crollo del regno dei Goti non soltanto alla loro scarsa capacità governativa ma anche ai loro peccati e al loro rifiuto della religione. Con l’instaurazione del potere musulmano le cose non migliorarono dal punto di vista sociale; gli occupanti distrussero, infatti, numerose città, massacrarono donne e bambini e condannarono a morte i potenti locali.

 

Di fronte a questa instabilità e barbarie fu inevitabile che la popolazione cercò disperatamente la fuga sia verso l’Europa continentale sia verso la costa portoghese. Per coloro che scelsero di avventurarsi via mare le insidie erano innumerevoli poiché avrebbero dovuto navigare non solo verso isole accessibili e già conosciute ma soprattutto verso luoghi la cui esistenza era incerta; inoltre c’era da vincere il grande timore dell’ignoto che fino ad allora aveva caratterizzato i viaggi nell’Atlantico che era considerato quasi come una distesa impercorribile a causa delle leggende e delle paure che si riponevano oltre il confine delle terre conosciute identificato con le Colonne d’Ercole. Ma agli esuli spagnoli poco importava di tutto questo di fronte al pericolo rappresentato dagli invasori nord-africani che portarono brutalità e diffusero il panico tra i cittadini; la disperazione li rese ciechi davanti ai misteri di questo viaggio e li spinse verso lo sconosciuto oceano. Questo evento in realtà ha contribuito nel corso degli anni alla diffusione delle più disparate narrazioni a proposito degli itinerari affrontati da questi profughi e fu così che si sparsero false informazioni da cui la fantasia di molti scrittori prese spunto per dare vita a leggende che nei secoli successivi ebbero un grande successo tra le genti locali ma anche a livello continentale. Tra queste c’è quella che riferisce che in seguito alla disfatta gotica un arcivescovo insieme ad altri sei vescovi e a numerosi fedeli si allontanarono dalla Spagna per scampare alla schiavitù; giunti in un porto sulla costa del Portogallo presero il largo e si spinsero fino a un isola nell’Atlantico dove fondarono sette città che corrispondevano al numero dei capi ecclesiastici.

 

Secondo Gabotto: «D’ogni parte fuggivano i vinti, cercando scampo sulle montagne e sulle navi; sette vescovi con gran seguito d’uomini e di donne fuggendo giunsero al mare e ripararono sopra una flotta che li trasportò per l’Atlantico. Ed ecco un’isola ignota apparire dinanzi a essi; sbarcano; i vescovi, per impedire a tutti di abbandonare i compagni, incendiano le navi. Là vissero lungamente essi e i loro discendenti».

 

A proposito del fantomatico viaggio esistono diverse varianti. Dalle fonti, infatti, risultano incerti sia il luogo da dove i sette salparono sia l’anno in cui avvenne tale evento (il periodo è quello compreso tra il 714 e il 734); sono assenti, inoltre, notizie relative al tipo di vita che condussero una volta a destinazione. Fernando Colombo che descrive l’isola come ricca d’oro, di perle e di pietre preziose; i templi e le case regali erano ricoperti da piastre auree. Cosicché, per non esser conosciuto il cammino, tutte queste cose si ritrovano nascoste e coperte; e a essa si può andar sicuramente. Molte altre cose si potrebbero dire ma, come io vi ho già detto a bocca, e voi siete prudente e di buon giudizio, mi rendo certo che non vi resta cosa alcuna da intendere.

 

Diversi naviganti portoghesi avevano fatto scalo su quell’isola, nel corso del tempo, ma nessuno fece ritorno e ne diede informazione poiché furono trattenuti dai successori dei vescovi per scongiurare persecuzioni da parte dei musulmani. Fernando Colombo ci dice che al tempo del principe Enrico di Portogallo, che era un fautore dei viaggi di esplorazione, in un periodo di grande fermento in merito alle traversate atlantiche, molti marinai riferirono al sovrano di aver trovato e perlustrato l’isola delle Sette Città. A proposito di questa terra misteriosa riferirono che gli abitanti parlavano la lingua portoghese e che appena sbarcati li portarono in chiesa per appurare che fossero di fede cattolica; gli isolani vollero sapere se i Mori controllassero ancora la Spagna e furono felici di sapere che questi avevano perso gran parte dei territori nella penisola iberica. Il racconto prosegue con la narrazione di un particolare episodio; mentre una parte dell’equipaggio era nella cappella la parte restante si trovava sulla spiaggia per prendere della sabbia con lo scopo di utilizzarla in cucina e fu così che constatarono con grande incredulità che gran parte di essa era in oro. Le genti dell’isola vollero che i marinai rimanessero ancora altro tempo in attesa del ritorno del loro governatore poiché in quei giorni era distante, su un’altra parte dell’isola, ma i lusitani temendo di essere tenuti come prigionieri, di nascosto, salparono e fecero ritorno a Lisbona. Giunti sul territorio europeo i naviganti riferirono quanto osservato al principe Enrico ma contro le loro aspettative non ottennero alcuna ricompensa. Il sovrano non credette a una sola parola della loro storia e li esortò a rifare nuovamente il viaggio per ricevere informazioni più dettagliate promettendogli ricchi doni in caso di riuscita dell’impresa. Gli esploratori avendo timore che potesse essere svelata, in questo modo, la falsità del loro racconto si diedero alla fuga senza lasciare nessuna notizia.

 

Antonio Galvano ci rende un’altra versione del racconto secondo la quale nel 1447 una nave portoghese che attraversò la striscia di Gibilterra si imbatté in una forte tempesta e per fuggire da questa fu costretta a virare verso ovest; i naviganti giunsero così su un’isola che aveva sette città in cui gli abitanti parlavano la loro lingua. Il capitano della nave portò con se della sabbia e al suo ritorno la vendette a Lisbona ricavando dell’oro; il governatore del regno, Don Pedro, quando venne a sapere di ciò fece catalogare tutto quello che i membri dell’equipaggio avevano portato. In seguito a questa vicenda in molti ritennero che le isole fantomatiche da cui i lusitani furono cacciati dovevano essere le Antille o le Azzorre.

 

Manuel de Faria y Sousa in base alla traduzione degli scritti del capitano Stevens fornisce un’altra interpretazione secondo la quale in seguito alla disfatta gotica i Mori commisero su suolo iberico crudeltà inumane; la maggiore resistenza ci fu a Merida dove molti combattenti erano portoghesi ed erano comandati da un nobile goto, Sacaru. La città fu assediata per lungo tempo e nonostante la strenua opposizione e le azioni eroiche dei suoi difensori finì per essere conquistata. Il condottiero lusitano attraversò il paese fino ad arrivare a un porto dal quale salpò con un piccola flotta; il luogo di destinazione non è conosciuto ma l’autore narra che probabilmente è da identificare con Antilia, un’isola dell’Atlantico, anche se afferma che non è mai stata trovata e che si tratta solamente di una supposizione.

 

Stevens non dice che si imbarcarono in direzione delle Isole Fortunate (fatte coincidere con le Canarie) con l’obiettivo di salvare la popolazione spagnola ma che furono condotti su un’isola misteriosa i cui abitanti provenivano dal Portogallo e che conteneva sette città; in questa versione della storia manca il riferimento al leggendario viaggio dei vescovi emigrati dalla Spagna e compare un ulteriore elemento di novità che consiste nell’esistenza di una meta precisa che fu l’obiettivo del viaggio degli iberici.

 

Nella narrazione è ben spiegata la motivazione della fuga presentata come una conseguenza della disfatta della città di Merida; questa versione fornisce delle ragioni più veritiere al racconto anche se tra i suoi punti deboli rimane da spiegare il motivo per cui gli emigranti scelsero come punto d’arrivo della fuga una terra così lontana come Tenerife e le altre isole delle Canarie. Un punto di forza di questa esposizione rimane il fatto che il comandante militare che guidò la resistenza contro gli invasori Mori costituirebbe un capo fidato che condusse gli esuli, scampati all’efferatezza degli occupanti, verso una destinazione da cui poter ricominciare una nuova vita sicura dagli eventi nefasti che in quel periodo travolgevano la penisola iberica. Diversi studiosi hanno cercato di conciliare queste notizie per cercare di ricostruire un'unica trama in maniera tale da poterne esaminare più a fondo la verosimiglianza; la componente leggendaria, recisa nell’ultimo resoconto preso in considerazione, costituita dalla vicenda dei sette vescovi sarebbe, infatti, assimilabile anche a questa esposizione dei fatti poiché gli ecclesiastici, anch’essi in partenza e in cerca della possibilità di condurre i fedeli verso una comunità sicura in cui professare liberamente la propria religione, si sarebbero potuti ricongiungere con il capitano della spedizione e gli altri fuggitivi a Oporto, la città portiera da cui salparono, oppure, secondo un’ipotesi infelice, sarebbero stati catturati lungo il tragitto verso le navi.

 

Possiamo concludere che tutta la narrazione si basa su vicende che affondano le proprie radici in eventi reali ma a causa di mancanza di prove certe il viaggio intrapreso dai profughi, protagonisti della storia, rimane avvolto da diversi misteri. È un racconto che fu probabilmente espressione del bisogno che gli iberici avevano, al tempo in cui fu fatto risalire, di evadere attraverso le vie dell’immaginario da una situazione drammatica dal punto di vista sociale dando al popolo, stremato dall’invasione, la speranza di poter ottenere un giorno un riscatto e l’emancipazione dai brutali aggressori.

 

Questa narrazione ebbe alcuni sostenitori che credettero reali le vicende sull’isola fantastica e gli incontri con gli isolani. Il mito sarebbe stato probabilmente dimenticato se non fosse stato accostato a un altro che cominciò a circolare nel Quattrocento. Il luogo in cui si stanziarono i sette vescovi fu infatti identificato con Antilla, un’isola indicata da Aristotele e Diodoro Siculo come scoperta dai Cartaginesi e dai Fenici; essi la individuarono come un rifugio nell’eventualità che un evento imprevisto avesse distrutto oppure seriamente minacciato la propria patria. Martino Behaim di Norimberga, allievo di Filippo Beroaldo il vecchio e di Giovanni Muller detto Regiomontanus, era uno dei geografi più affermati nella seconda metà del XV secolo, e nel suo planisfero, del 1492, disegnò Antilla posizionandola nell’oceano Atlantico. L’autore rifiutò la forma con cui l’isola veniva riportata nelle altre mappe; in questo documento compare un’iscrizione, tradotta da Ravenstein, che la identifica con quella leggendaria delle Sette Città e conferma le vicende dei sette ecclesiastici affermando che la regione insulare era abitata da un arcivescovo di Porto insieme ad altre sei guide clericali e a una moltitudine di seguaci fuggiti dalla Spagna con una nave portando con se nella traversata i propri beni e il bestiame; il testo ci informa anche dello sbarco, sulla mitica isola, di una nave spagnola, nel 1414, il cui equipaggio fu ospitato in modo pacifico. È importante ricordare questa testimonianza perché ci fornisce una prova dell’enorme diffusione della leggenda che riguardò il viaggio degli emigrati spagnoli. Ad Hispaniola circolarono numerosi racconti riguardanti la civilizzazione di quella favolosa regione; l’esploratore Giovanni di Grivalja viaggiando in prossimità di quella terra osservò vasti e maestosi edifici di calce e di pietra e alte torri sparse tra le abitazioni. La storia delle Sette Città si diffuse e in molti le collocarono in questa parte del territorio della Nuova Spagna.

 

Antilla o Antillia era denominata in modi diversi e costituiva, secondo la tradizione, riparo per gli esuli; Paolo Toscanelli che era un celebre cosmografo di Firenze, nel 1474, spedì a Cristoforo Colombo il duplicato di una lettera inviata a un amico che lavorava presso la corte portoghese. L’autenticità di questo testo è stata messa in dubbio ma nonostante questo gran parte degli studiosi lo ritiene attendibile; in esso si legge: «Dall’isola Antilia, che voi chiamate delle sette città e di cui avete una certa conoscenza, fino alla nobilissima isola di Cipango (corrisponde all’attuale Giappone) sono dieci spazi, che fanno duemila e cinquecento miglia, cioè seicentoventicinque leghe». In questo brano l’autore identifica i due luoghi e ne descrive la posizione.

 

Antillia era già presente su carte precedenti, su cui compariva con diversi appellativi come Atilae, o Atulae; in uno scritto di Pizigani, del 1367, designa una costa su cui era stata costruita una grande statua per segnalare quella riva; questa zona va rintracciata nel territorio dove figura Corvo delle Azzorre. Essa figura anche nella mappa di Beccario, del 1435; il suo nome è riferito a un insieme di quattro isole dell’Atlantico occidentale identificabili con le Grandi Antille. Antillia è qui disegnata a forma di quadrilatero allungato con i lati frastagliati da sette baie in aggiunta a un’altra baia più grande situata a sud. Nelle mappe successive la raffigurazione dell’isola subisce pochi mutamenti; la tavola di Benincasa mostra le denominazioni delle baie e delle zone adiacenti tranne una, quella posta di dinanzi al centro dell’isola di Antillia.

 

Kretschmer fornisce altri termini quali Aira, Ansalli, Ansodi, Con, Anhuib, Ansesseli e Ansolli che sono ritenuti frutto della fantasia; rimane una stupefacente coincidenza numerica anche se nell’isola seguente, Saluaga, si nota una somiglianza per quanto riguarda la distribuzione e la configurazione delle cinque baie; i nomi di Arahas, Duchal, Imada, Nom e Consilla, inoltre, sono accostati in modo corrispondente. Da una carta anonima fatta risalire al 1424 sono emerse tracce di nomi o lettere nella sezione in cui è collocata Antilia ma questo prezioso documento presenta gravi lacune che lo rendono quasi indecifrabile e ciò ne riduce in modo decisivo il valore storico; si è discusso anche a proposito della sua datazione poiché diversi studiosi ritengono che questa mappa risale alla fine del secolo (come quella di Benincasa).

 

Altre informazioni sulla sua possibile collocazione ci giungono dai resoconti delle esplorazioni inglesi; nel 1498 Pedro de Ayala che era l’ambasciatore spagnolo in Gran Bretagna riferì, nei suoi scritti, a Ferdinando e Isabella, i regnanti cattolici di Spagna, dell’operosità anglosassone nel cercare nuove rotte marittime a spese, in realtà, dei marcanti privati. Spiega come i marinai di Bristol, in particolare, negli ultimi anni avevano compiuto numerose navigazioni impiegando per ciascuna spedizione diverse imbarcazioni leggere, le caravelle, con l’obiettivo di raggiungere l’isola di Brasil e delle Sette Città segnalate da Paolo Toscanelli.

Nel 1480 fu organizzata una missione esplorativa con questo proposito guidata dal più valido comandante inglese, il cui nome ci è sconosciuto, ma probabilmente possiamo supporre si trattasse di Giovanni Caboto. Il bastimento su cui si imbarcò l’equipaggio sappiamo che apparteneva all’armatore Jay le Jeune e poteva sopportare circa ottanta tonnellate; con tale nave salparono il 5 luglio dal porto di Bristol e ritornarono circa due mesi dopo, precisamente il 18 settembre, non riuscendo a rintracciare le isole tanto agognate; questo viaggio rimane, però ipotetico poiché non abbiamo fonti certe che ci attestino la sua veridicità. Sicuramente sappiamo che a questa fantomatica impresa ne sono seguite altre realmente avvenute a cominciare dal 1491. Furono pianificati una successione di viaggi con piccole flotte di tre o quattro caravelle comandate da Caboto che si dimostrarono tutte improduttive; nel quarto viaggio, il 24 giugno 1494, i marinai giunsero sul continente americano.

 

La prima apparizione dell’isola di Brasil è sulla mappa di Dalorto, del 1325, rappresentata come un disco di terra, ma la carta catalana del 1375 e altre ancora modificano questa raffigurazione in un cerchio che circonda uno specchio d’acqua disseminato di piccole isole (nove nell’illustrazione catalana); il dottor Kretschmer ne disegna sette; il numero delle isole fa viaggiare l’immaginazione, infatti, in molti hanno ritenuto che questi isolotti fossero in realtà le sette città mitiche ma gli oppositori di questa speculazione sostengono che i piccoli lembi di terra non sono abitati e nella leggenda, invece, i diversi centri sono collocati sullo stesso territorio. Anche se rimane la validità di queste considerazioni tale accostamento è certamente molto coinvolgente.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]