N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
la repubblica compie settant’anni
una, libera e
repubblicana
di
Gaetano Cellura
Quello
che
un
tale
dice
a
Leo
Longanesi
è la
sintesi
perfetta
di
com’era
l’Italia
nel
1946,
anno
della
grande
scelta.
Monarchia
o
Repubblica?
«Ecco»
gli
dice,
«le
mie
simpatie
sono
per
il
comunismo,
i
miei
interessi
mi
avvicinano
all’Uomo
qualunque,
mia
moglie
va
in
chiesa
e
io,
in
fondo,
ho
paura
di
andare
all’inferno».
Un
paese
diviso
e
con
il
problema
del
pane.
Finita
la
guerra,
ne
era
emerso
il
vero
volto.
Un
Nord
industriale
e un
Sud
agricolo
e
feudale
in
cui
dominano
mafia
e
banditismo.
Città
da
ricostruire
e
macerie
dappertutto.
Un
paese
con
due
fedi
e
due
chiese
politiche:
una
cattolica
e
l’altra
laica
e
comunista.
L’Italia
risorgimentale
e
liberale,
che
ha
unito
la
nazione,
si
scopre
debole
e
minoritaria.
E
minoritaria,
nel
gioco
politico
di
quegli
anni,
si
scopre
anche
la
Resistenza.
Tagliata
fuori
dal
compromesso
tra
i
grandi
partiti
di
massa
sul
quale
si
sviluppa
la
nuova
storia
del
paese.
A
Salerno,
nel
1944,
il
primo
governo,
formato
dai
partiti
repubblicani,
decideva
che
Vittorio
Emanuele
III
avrebbe
lasciato
il
trono
dopo
la
liberazione
di
Roma
e
che
con
un
referendum,
poi
fissato
per
il
2
giugno
del
1946,
sarebbero
stati
gli
italiani
a
scegliere
la
configurazione
istituzionale
del
paese.
Lo
stesso
giorno
si
vota
per
eleggere
l’assemblea
costituente.
«Povera
Italia!»
scriveva
Prezzolini
nel
suo
Diario
americano,
«Costretta
a
scegliere
fra
una
repubblica
che
nasce
dalla
paura
dei
bombardamenti
e
una
monarchia
che
tradì
la
Costituzione
per
il
fascismo,
e il
fascismo
per
gli
alleati,
pensando
unicamente
a se
stessa
e
alla
famiglia
Savoia».
È il
5
giugno
del
1944
quando
Vittorio
Emanuele
III
nomina
il
figlio
Umberto
luogotenente
del
Regno
con
queste
parole:
«Vai
e
divertiti
tu,
adesso».
Poco
o
nulla
sapevano
gli
italiani
di
questo
Savoia
che
sarebbe
stato
l’ultimo
sovrano
d’Italia
e,
per
la
storia,
il
Re
di
Maggio.
A
lui
era
destinata
la
decisiva
battaglia
per
tenere
in
vita
la
monarchia.
Sapevano
gli
italiani
che
Umberto
II
era
un
bell’uomo,
il
principe
sorridente
che
ha
sposato
Maria
José,
figlia
del
re
del
Belgio.
La
principessa
triste
fece
il
proprio
dovere
fino
in
fondo.
Visitava
ospedali
e
asili,
si
faceva
fotografare
con
i
figli,
restava
vicina
al
marito
in
quell’ultima
avventura
della
Casa
Reale.
Ma
dentro
di
sé
era
certa
della
piega
presa
dagli
avvenimenti:
«Sentivo
che
progrediva
alle
nostre
spalle
una
fatale
meccanica
di
causa
e
effetti.
Rispondevamo
agli
applausi
della
folla
che
si
adunava
sotto
il
Quirinale
riportandone
una
fuggevole
impressione
di
esultanza».
Per
Giorgio
Bocca
(Storia
della
Repubblica
italiana),
la
regina
Maria
José
«sembra
avere
un
unico
grande
desiderio:
che
tutto
finisca
presto».
Insultata
durante
una
manifestazione
della
Croce
Rossa,
prova
a
fuggire
e
chiama
al
telefono
l’organizzatore
Zanotti
Bianco:
«Io
non
ce
la
faccio»
gli
dice,
«e
tutto
sommato
non
c’entro».
Zanotti
Bianco
era
suo
amico.
Il
referendum
si
avvicina
e il
clima
si
scalda.
In
modo
inaspettato
per
i
repubblicani,
non
più
così
certi
della
vittoria.
Si
scalda
perché
i
moderati
italiani
vedono
nella
monarchia
il
loro
ultimo
baluardo
e i
meridionali
la
scelgono
contro
il
nord
repubblicano.
Il
clima
si
scalda
e
Umberto
ora
ci
mette
l’impegno
necessario
per
diventare
– e
rimanere
– re
d’Italia.
I
leader
dell’antifascismo
e
gli
insulti
della
stampa
non
lo
spaventano
più
come
all’inizio
dell’avventura.
I
suoi
consiglieri
gli
suggeriscono
quella
che
potrebbe
essere
la
mossa
decisiva.
E
così
il 9
maggio
del
1946
lui
arriva
all’improvviso
a
villa
Rosebery
a
Posillipo,
dove
risiede
il
padre
e
gli
chiede
di
firmare
l’abdicazione.
Il
vecchio
re
esegue,
poi
sale
sul
Duca
degli
Abruzzi
e
parte
per
l’esilio
in
Egitto.
Ma
la
sua
abdicazione,
prima
del
referendum,
non
rientrava
negli
accordi
di
Salerno:
e ne
sono
tutti
contrariati,
da
De
Gasperi
agli
Alleati.
Più
di
tutti,
i
comunisti:
«L’ultimo
tradimento
dei
Savoia»
titola
l’Unità.
Un
conto
era
affrontare
il
referendum
con
un
luogotenente
dotato
di
poteri
ma
senza
dignità
regale,
un
altro
era
affrontarlo
con
un
sovrano
capace
di
tenere
ancora
vivi
i
sentimenti
monarchici
degli
elettori.
E
questo
fa
Umberto:
gira
per
l’Italia,
fa
campagna
elettorale.
«Candidato
di
fronte
al
popolo,
piuttosto
che
monarca
fra
i
sudditi»
scrive
acutamente
il
giornalista
e
storico
Domenico
Bartoli.
Umberto
II
aveva
quarantadue
anni,
una
vita
politica
anonima
prima
di
diventare
luogotenente
generale
per
ventitré
mesi
e
sovrano
a
pieno
titolo
per
solo
trentaquattro
giorni,
dal
9
maggio
al
12
giugno
del
1946.
E
dal
breve
regno
gli
viene
l’appellativo
di
Re
di
Maggio.
Con
il
referendum
istituzionale
del
2
giugno,
l’ideale
di
Mazzini
si
realizza
compiutamente:
l’Italia
è
una,
libera
e
repubblicana.
Ma,
finita
la
conta
ansiosa,
meno
di
due
milioni
di
voti
dividono
la
repubblica
dalla
monarchia.
Non
sono
pochi,
ma
nemmeno
tanti.
Certamente
meno
di
quelli
che
i
repubblicani
si
aspettavano.
Il
paese
sembra
aver
dimenticato
la
guerra,
il
fascismo,
la
Resistenza,
le
responsabilità
storiche
di
Vittorio
Emanuele
III.
I
monarchici
italiani
rialzano
la
testa
e
sono
certi
che
se
Umberto
avesse
usato
il
suo
potere
e
rinviato
il
referendum
di
qualche
mese,
la
repubblica
avrebbe
perso.
In
un
clima
sempre
più
teso,
e di
scontri,
di
guerra
civile
sul
punto
di
poter
scoppiare,
contestano
il
risultato
e si
procede
al
nuovo
conteggio
dei
voti.
Solo
il
18
giugno
la
Cassazione
dà i
numeri
definitivi
che
confermano
la
vittoria
della
repubblica.
Ma
già
sei
giorni
prima,
il
presidente
del
consiglio
De
Gasperi
aveva
rotto
gli
indugi
assumendo
anche
le
funzioni
di
capo
dello
stato
e
mostrando
alla
nazione
e al
Re
di
Maggio,
che
non
si è
ancora
dimesso,
tutta
la
propria
fermezza:
«Ho
finito
il
mio
latino»
dice
al
sovrano,
«Si
vuole
ricorre
alla
forza?
Va
bene,
vorrà
dire
che
io
verrò
a
trovarla
a
Regina Coeli
o
lei
verrà
a
trovare
me».
Umberto
ribatte
che
è
suo
dovere
attendere
la
proclamazione
dei
risultati
definitivi,
ma è
ormai
consapevole
di
una
storia
finita
e
dei
rischi
di
contrapposizione
armata
che
il
paese
corre.
Saluta
i
suoi
fedeli
e a
Ciampino
s’imbarca,
incapace
di
trattenere
le
lacrime,
su
un
aereo
Savoia
Marchetti.