N. 76 - Aprile 2014
(CVII)
IL DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA
ALLE BASI DEL POTERE TIRANNICO
di Silvia Mangano
Per
definire
il
Discorso
sulla
servitù
volontaria,
di
Étienne
de
La
Boétie,
possiamo
dire
che
fu
un
trattato
pubblicato
da
tutti,
ma
studiato
da
pochissimi.
Il
suo
carattere
feroce,
il
linguaggio
schietto
e
appuntito
e la
violenza
con
cui
attacca
l’istituto
monarchico,
hanno
fatto
di
esso
una
bandiera
contro
l’oppressione
della
tirannia.
Tuttavia,
se
lo
si
legge
accuratamente,
ci
si
accorge
che
ben
poco
ha
del
trattato
politico
e
che
il
messaggio
di
protesta,
sebbene
presente,
mai
si
trasforma
in
incitamento
alla
rivolta
armata.
Rimandiamo
la
comprensione
di
queste
prime
parole
al
momento
in
cui
ci
immergeremo
nel
testo.
Per
adesso,
basti
tenere
in
considerazione
la
portata
innovativa,
intuibile
dal
titolo,
che
un
testo
del
genere
poteva
avere
nella
prima
metà
del
Cinquecento.
Étienne
de
La
Boétie
nasce
a
Sarlat,
città
della
Guienna,
nel
novembre
del
1530.
Rimasto
orfano,
viene
cresciuto
dallo
zio,
curato
di
Bouilhonas.
In
quegli
anni,
è
vescovo
di
Sarlat,
Niccolò
Gaddi,
personalità
affascinata
dagli
ideali
umanistici
e
che
influenzerà
molto
la
formazione
del
giovane
scrittore.
Dopo
i
primi
studi,
La
Boétie
si
iscrive
alla
facoltà
di
Diritto
all’Università
di
Orleans.
Qui
conosce
Anne
du
Bourg,
un
altro
umanista
convertito
al
calvinismo
che
verrà
giustiziato
per
eresia
sotto
Enrico
II.
Un
mese
dopo
l’ottenimento
della
laurea
in
giurisprudenza,
ottiene
la
licenza
per
esercitare
la
carica
di
Cancelliere
al
Parlamento
di
Bordeaux.
È
grazie
alla
professione
comune
che
La
Boétie
ha
la
possibilità
di
incontrare
il
parlamentare
Michel
De Montaigne,
colui
che
diventerà
il
suo
più
caro
amico.
Negli
anni
di
servizio
al
Parlamento,
i
due
assistono
con
rammarico
alle
lotte
religiose
e
politiche
scoppiate
nella
Guienna:
sebbene
cattolico,
Étienne
rimane
molto
colpito
dalle
condanne
a
morte,
ordinate
dalla
monarchia
contro
gli
ugonotti
(prima
fra
tutte
quella
del
suo
maestro
Anne
du
Bourg).
La
sua
carriera
spicca
il
volo
nel
1560,
quando
gli
viene
affidata
una
missione
segreta
presso
Caterina
de
Medici,
l’allora
reggente
al
trono
di
Francia
per
il
giovanissimo
Carlo
IX.
Alla
corte,
conosce
e
apprezza
Michel
de
l’Hospital,
sotto
il
cui
cancellierato
si
forma
il
famoso
gruppo
dei
politiques.
Soltanto
tre
anni
dopo
si
ammala,
forse
di
peste,
e
muore
in
pochissimo
tempo.
Dopo
questo
breve
accenno
biografico,
possiamo
passare
a
trattare
del
testo
di
nostro
interesse.
Le
regole
stilistiche
vorrebbero
che
per
l’esposizione
corretta
di
una
vicenda
storica
o di
un
problema
storiografico
a
essa
collegato
si
cominci
dal
principio
e si
prosegua
analiticamente
sino
alla
fine
per
poi
trarne
le
dovute
conclusioni.
Nel
caso
del
Discorso
sulla
servitù
volontaria
di
Étienne
de
La
Boétie
sembra
necessario,
piuttosto,
partire
dalla
fine
della
storia
e
arrampicarsi
nell’erto
cammino
della
sua
gestazione
letteraria
e
ideologica.
La
nostra
storia
inizia,
o
dovremmo
dire
finisce
il
18
agosto
1563.
Étienne
de
La
Boétie
giace
morente
nel
suo
letto
a
Germignan,
nei
pressi
di
Bordeaux;
al
suo
capezzale
accorre
il
migliore
amico,
il
filosofo
Michel
De
Montaigne,
il
quale
resta
talmente
sconvolto
dalla
morte
di
La
Boétie
da
dedicare
a
lui
l’intero
trattato
sull’amicizia
all’interno
dei
suoi
Saggi.
In
una
lettera
rimasta
famosa,
Montaigne
racconta
al
padre
di
aver
preso
in
custodia
tutti
gli
scritti
del
giovane
politico,
con
la
promessa
di
pubblicarli
e
garantire
così
a
Étienne
un
posto
nel
Pantheon
della
Memoria.
Dopo
otto
anni,
nel
1571,
l’editore
pubblica
finalmente
la
prima
raccolta
degli
scritti
di
La
Boétie;
ma
con
gran
sorpresa
di
chi
conosce
bene
le
opere
del
parlamentare,
nel
volume
non
v’è
alcun
accenno
al
Discorso.
Montaigne
giustifica
l’omissione
editoriale
sostenendo
che
il
trattato
politico
di
La
Boétie
dovrà
costituire
la
parte
centrale
dei
suoi
Essais,
(che
in
quegli
anni
sta
ancora
scrivendo).
Tuttavia,
nove
anni
più
tardi,
cioè
nel
1580
(a
17
anni
dalla
morte
di
La
Boétie),
al
momento
della
loro
pubblicazione,
al
posto
del
Discorso
vengono
inseriti
ventinove
sonetti
scritti
da
Étienne.
Gli
storici
che
hanno
cercato
di
ricostruire
la
storia
editoriale
del
libello,
sono
rimasti
perplessi
di
fronte
a
questa
presunta
mancanza
di
rispetto
di
Montaigne
nei
confronti
del
suo
migliore
amico.
Alcuni
hanno
sostenuto
che
il
motivo
fondamentale
per
cui
il
testo
non
venne
mai
pubblicato
sia
da
rintracciare
nell’invidia
letteraria
che
il
filosofo
provava
per
La
Boétie;
tuttavia,
questa
teoria
viene
facilmente
contraddetta
dall’evidenza
storica.
Allo
stesso
modo,
si è
rivelata
infondata
quell’ipotesi
sostenuta
all’inizio
del
XX
secolo
da
Armaingaud
che
il
Discorso
sia
stato
scritto
da
Montaigne
in
persona.
Dunque,
perché
non
fu
mai
pubblicato?
Accanto
a
ragioni
puramente
storiche
(ricordiamoci
che
dal
1563,
anno
di
morte
di
Étienne
de
La
Boétie,
fino
al
1593,
anno
dell’entrata
a
Parigi
di
Enrico
IV,
la
Francia
viene
devastata
dalle
lotte
religiose
e
uno
scritto
del
genere
mal
sarebbe
stato
accolto
dalla
corona,
soprattutto
se
pubblicato
da
una
personalità
di
spicco
come
Michel
De
Montaigne),
vanno
affiancate
ragioni
che
oggi
potremmo
definire
di
copyright
intellettuale.
Infatti,
già
nel
1574
alcune
parti
del
Discorso
sulla
servitù
volontaria
erano
confluite
in
un
testo
ugonotto
antimonarchico,
fatto
circolare
anonimo
con
il
titolo
di
Le
Reveille-matin
des
François
et
des
leurs
voisins.
Il
testo
era
probabilmente
giunto
tra
le
mani
di
alcuni
ugonotti,
i
quali
arguendo
l’intensità
e
l’acutezza
del
pensiero
espresso
da
Étienne,
non
si
erano
fatti
scrupolo
di
appropriarsi
dei
passi
che
ritenevano
migliori.
Nel
1576,
poi,
il
Discorso
venne
pubblicato
integralmente
in
Mesmoires
des
Estats
de
France
sous
Charles
le
Neuviesme
con
il
titolo
di
Contr’uno.
Il
volume,
curato
da
un
calvinista
ginevrino
di
nome
Goulard,
era
una
raccolta
di
saggi
antimonarchici,
fatti
circolare
durante
la V
guerra
ugonotta
(1574-76).
Il
destino
letterario
del
Discorso
fu
così
fissato
prima
che
Montaigne
avesse
la
possibilità
di
dare
al
testo
una
giustificazione
d’esistere:
gli
venne
attribuita
l’etichetta
di
pamphlet
politico,
in
cui
veniva
idealmente
giustificata
la
resistenza
alla
monarchia.
È
possibile
supporre
che
fu
per
questo
motivo
che
Michel
De
Montaigne
cercò
di
minimizzare
l’importanza
del
Discorso,
attribuendone
la
redazione
a un
esercizio
di
gioventù
e
non
a
una
volontaria
invettiva
contro
il
re
di
Francia.
Nella
prima
edizione
degli
Essais,
Montaigne
sostiene
che
il
testo
sia
stato
scritto
nel
1548,
cioè
quando
La
Boétie
aveva
diciotto
anni,
ma
nella
seconda
edizione,
Montaigne
abbassa
ulteriormente
l’età
della
redazione
a
soli
sedici
anni.
L’analisi
attenta
del
testo
ha
portato,
però,
gli
studiosi
a
sostenere
che
esso
non
possa
essere
stato
scritto
prima
del
1552,
quando
La
Boétie
aveva
ventidue
anni,
ma è
impossibile
stabilire
la
data
esatta
del
completamento
dell’opera.
A
ogni
modo,
le
affermazioni
di
Montaigne
non
convinsero
né i
lettori
del
XVI
secolo
né
quelli
dei
secoli
a
venire.
A
tal
proposito,
ad
esempio,
è
interessante
leggere
ciò
che
scrisse
l’editore
nella
prefazione
al
Discorso
della
prima
edizione
italiana
risalente
al
1864:
“Egli
(Montaigne)
diè
fuori
il
Trattatello
della
servitù
volontaria
o il
libro
del
Contr’uno,
avvertendo
che
fu
per
avventura
un
giuoco
dell’ingegno
precoce
dell’autore
a
sedici
o
come
altri
vuole
a
diciotto
anni.
Qui
il
Vermorel
(il
curatore
dell’edizione
italiana)
ha
ragione
a
dire
che
quello
scritto
non
è
una
declamazione
(cioè
un
esercizio
scolastico);
[perchè]
ha
tale
sostanza
di
ragioni,
tal
serietà
di
convinzione,
che
è
assurdo
prenderlo
per
un
trastullo
di
eloquenza
sofistica.
Egli
avrebbe
anche
ragione
di
dire
che
si
cercò
di
sfatarlo
o
farlo
dimenticare,
perché
era
luce
e
fiamma
troppo
ardente
agli
spiriti,
e ai
tempi
torbidi
fu
veramente
diffuso
per
eccitare
a
libertà.
La
servitù
volontaria
porta
nel
suo
titolo
la
condanna
più
dei
servi
che
dei
tiranni.
Se
l’uomo
perde
la
metà
dell’anima
il
dì
che
diventa
servo,
egli
diventa
servo
per
averne
prima
perduta
l’altra
metà:
onde
lo
schiavo
è un
bruto,
ma
volontario
[…].
La
Boétie
mette
la
scure
alle
radici
della
tirannide,
provando
che
ella
nasce
e
vive
della
comune
viltà.
Tutte
le
declamazioni
contro
gli
abusi
della
tirannide
sono
meno
efficaci
che
il
dire
ai
servi:
contatevi.
Questo
libro
è
eterno
come
l’imbecillità
umana,
a
cui
cerca
di
venire
in
aiuto”.
Dopo
quest’introduzione,
sembra
doveroso
tuffarsi
nel
vivo
del
testo.
Il
Discorso
sulla
servitù
volontaria
si
può
dividere
in
tre
macro-sezioni:
un’introduzione
(1),
seguita
da
una
prima
parte
di
invettiva
generale
(2),
a
cui
si
succede
la
seconda
parte
(3),
nella
quale
si
descrivono
i
motivi
della
servitù
volontaria.
Per
meglio
addentrarci
nel
testo,
abbiamo
deciso
di
affrontarlo
in
maniera
sincronica
e
ripercorrere
lo
sviluppo
del
pensiero
dell’autore
su
alcune
tematiche
(la
servitù,
la
tirannia,
etc.)
lungo
l’arco
dell’intero
discorso.
L’opera
si
apre
con
una
citazione
dell’Odissea
ed
entra
subito
in
medias
res
con
una
prima
stoccata
contro
il
“potere
d’uno
solo”.
La
Boétie
specifica
che
non
intende
“discutere
la
questione
tanto
dibattuta
se
altre
forme
di
regime
politico
siano
preferibili
alla
monarchia”,
ma
vuole
innanzitutto
sapere
se
la
monarchia
può
detenere
un
posto
tra
i
“diversi
modi
di
occupare
la
cosa
pubblica”;
poiché
“è
ben
difficile
credere
che
vi
sia
qualcosa
di
pubblico
in
quel
governo
in
cui
tutto
è
nelle
mani
di
uno
solo”.
A
questa
affermazione
metodologica,
ne
segue
un’altra:
il
giovane
precisa
che
il
Discorso
non
è un
trattato
politico
istituzionale,
bensì
una
riflessione
personale
sulla
condizione
umana.
Scrive
infatti:
“Vorrei
solo
comprendere
com’è
possibile
che
tanti
uomini
[…]
sopportino
talvolta
un
tiranno
solo,
che
non
ha
forza
se
non
quella
che
essi
gli
danno,
che
ha
il
potere
di
danneggiarli
unicamente
in
quanto
essi
vogliono
sopportarlo,
che
non
potrebbe
far
loro
alcun
male
se
essi
non
preferissero
subirlo
invece
di
contrastarlo”
e
continua
mostrando
stupita
amarezza
nel
vedere
“migliaia
di
uomini
asserviti
miseramente,
con
il
collo
sotto
il
giogo,
non
già
costretti
da
una
forza
più
grande,
ma
in
qualche
modo,
come
sembra,
incantati
e
affascinati
dal
solo
nome
di
uno,
di
cui
non
dovrebbero
né
temere
la
potenza,
poiché
egli
è
solo,
né
amare
le
qualità,
poiché
nei
riguardi
di
tutti
loro
è
disumano
e
feroce”(pp.4-5,
ed.
Chiarelettere).
Ecco
che
si
delineano
i
protagonisti
del
saggio:
da
una
parte
il
tiranno,
dall’altro
il
popolo
che,
per
sua
volontà,
si
fa
servo.
Il
tiranno
descritto
da
La
Boetiè
è un
personaggio
ambivalente:
titanico
nel
male,
è
essenzialmente
inoffensivo
se
privato
dell’appoggio
del
popolo.
È
questa
la
particolarità
del
Discorso:
alla
monarchia
non
è
attribuita
una
sorta
di
mistica
del
potere
di
cui
va
dimostrata
l’insensatezza;
il
re
non
è
l’unto
del
Signore,
ma
soltanto
un
individuo
tra
tanti
che
si è
erto
sugli
altri
grazie
al
loro,
consensuale
o
forzato,
appoggio.
Dunque,
qualora
questo
sostegno
dovesse
venir
meno,
il
tiranno
si
ritroverebbe
completamente
solo.
Da
qui
prendono
inizio
tutti
gli
appelli
di
La
Boétie
al
popolo,
che
vale
la
pena
leggere:
“colui
che
vi
domina
così
tanto
ha
solo
due
occhi,
due
mani,
un
corpo,
non
ha
niente
di
diverso
da
quanto
ha
il
più
piccolo
uomo
del
grande
e
infinito
numero
delle
vostre
città,
eccetto
il
vantaggio
che
gli
fornite
per
distruggervi.
Da
dove
prenderebbe
i
tanti
occhi
con
cui
vi
spia,
se
voi
non
glieli
forniste?
Come
farebbe
ad
avere
tante
mani
per
colpirvi,
se
non
le
prendesse
da
voi?
I
piedi
con
cui
calpesta
le
vostre
città,
donde
gli
verrebbero
se
non
fossero
i
vostri?
Ha
forse
un
potere
su
di
voi
che
non
sia
il
vostro?”.
La
Boétie
individua
tre
tipologie
di
tirannide.
Usando
una
terminologia
contemporanea
diremmo
che
vi
sono
tre
modi
per
conquistare
il
potere:
il
tiranno
può
ottenerlo
democraticamente
(ossia
per
“investitura
popolare”),
oppure
con
un
colpo
di
stato
(attraverso
la
“forza
delle
armi”),
o
per
eredità
(o,
come
dice
La
Boètie,
“per
diritto
di
successione”).
Nessuno
si
salva:
anche
i
mezzi,
che
nella
nostra
percezione
risultano
democratici,
per
il
francese
nascondono
il
fardello
dell’oppressione.
Infatti
“essi
arrivano
al
trono
per
vie
diverse,
ma
il
loro
modo
di
regnare
è
pressoché
identico.
Quelli
eletti
dal
popolo
lo
trattano
come
un
toro
da
domare,
i
conquistatori
come
una
preda,
i
successori
pensano
di
farne
i
propri
schiavi
naturali”
(p.
20).
Al
contrario
dei
sudditi,
i
tiranni
sono
ben
coscienti
della
precarietà
del
loro
potere,
poiché
“facendo
del
male
a
tutti,
sono
costretti
ad
aver
paura
di
ognuno”.
La
prova
a
conferma
di
questa
tesi
viene
rintracciata
nelle
truppe
mercenarie:
quale
re
armerebbe
il
popolo
che
ha
tanto
maltrattato?
Risulta
così
più
sicuro
per
il
tiranno
assoldare
soldati
di
ventura.
Un’altra
particolarità
in
cui
ci
si
imbatte
lungo
il
testo,
e
che
merita
di
essere
presa
in
considerazione,
riguarda
la
presunta
abilità
miracolosa
del
sovrano.
Parlando
delle
invenzioni
del
popolo
incolto,
La
Boétie
cita
anche
la
sacralità
del
tiranno
e la
sua
capacità
di
fare
miracoli.
Sebbene
gli
esempi
riguardino
soltanto
i re
del
passato,
quando
si
tratta
di
menzionare
i re
taumaturghi
di
Francia
scrive:
“Per
quanto
mi
riguarda,
come
che
sia,
non
voglio
evitare
di
crederci,
poiché
né
noi
né i
nostri
antenati
abbiamo
avuto
finora
motivo
di
dubitarne,
avendo
sempre
avuto
dei
re
così
buoni
in
pace
e
così
valorosi
in
guerra,
che,
benché
sino
nati
re,
non
somigliano
affatto
ai
re
per
natura,
ma
sembrano
invece
scelti
rima
di
nascere
da
Dio
onnipotente
in
vista
del
governo
e
della
conservazione
di
questo
regno”.
Siamo
di
fronte
all’unico
passo
in
cui
la
monarchia
è
vista
sotto
una
luce
positiva
e in
cui,
dopo
aver
gettato
parole
di
discredito
sull’intera
istituzione,
La
Boétie
pare
voler
fare
un’eccezione
per
la
Francia.
È
probabile
che
questa
frase
vada
letta
in
chiave
antifrastica
e
che
altro
non
sia
se
non
un
estremo
tentativo
di
non
attirarsi
le
ire
della
corona,
per
la
quale
–
peraltro
–
lavora.
Se,
infatti,
leggiamo
come
conclude
il
discorso,
risulta
chiaro
la
vera
intenzione
di
La
Boétie:
“non
vorrei
per
questo
scendere
in
campo
per
discutere
la
verità
delle
nostre
storie,
né
esaminarle
dettagliatamente,
per
non
eliminare
questo
splendido
tema
su
cui
potrà
esercitarsi
la
nostra
poesia
francese
[…].
Sarebbe
certo
da
parte
mia
un
oltraggio
se
osassi
smentire
i
nostri
libri
e
fare
incursioni
nei
campi
dei
nostri
Poeti”.
Con
poche
parole,
la
penna
di
La
Boétie
sconfessa
una
volta
per
tutte
la
sacralità
che
circondava
da
secoli
la
figura
del
sovrano,
classificando
gli
stessi
re
taumaturghi
come
argomento
di
poesia
e
produzione
artistica.
Non
esistendo
una
differenza
ontologica
della
persona
del
re
rispetto
al
resto
dell’umanità,
La
Boétie
sostiene
che
sia
lecito
al
popolo
resistere
al
tiranno
senza
incorrere
in
castighi
divini.
E a
quei
sudditi
che
non
vogliono
prendere
le
armi
per
paura,
egli
ribatte
che
non
c’è
bisogno
di
combatterlo,
né
di
distruggerlo,
il
suo
potere
– e
lui
stesso
–
verrà
meno
non
appena
“il
paese
non
acconsentirà
più
alla
propria
servitù”.
Non
è un
appello
alla
rivolta,
o
alla
violenza,
non
c’è
alcun
bisogno
di
spargimenti
di
sangue,
l’unico
incitamento
di
La
Boétie
è
quello
a
non
servire
più:
“non
voglio
che
vi
scontriate
con
lui,
o
che
lo
facciate
crollare,
limitatevi
a
non
sostenerlo
più,
e lo
vedrete,
come
un
grande
colosso
cui
sia
stata
sottratta
la
base,
cadere
d’un
pezzo
e
rompersi”(p.
14);
e
ancora:
“se
non
gli
si
consegna
niente,
se
non
gli
si
obbedisce
affatto,
senza
combattere,
senza
colpirli
,
ecco
che
restano
nudi
e
sconfitti,
non
sono
più
nulla”.
Se è
così
facile
deporre
un
tiranno,
perché
gli
uomini
vivono
ancora
assoggettati?
Su
questo
tema,
si
dispiega
l’intero
trattato,
l’intera
ricerca
filosofica
di
La
Boétie,
che
prova
a
comprendere
e
spiegare
ai
lettori,
perché
i
sudditi
si
macchino
di
quell’“orribile
vizio”
(parole
sue),
che
lui
chiama
servitù
volontaria.
La
Boétie
è
onesto,
ammette
che,
se
un
tiranno
fosse
potente
come
Ercole
o
Sansone,
non
consiglierebbe
mai
di
ergersi
contro
di
lui;
ma
nella
Francia
del
XVI
il
re è
soltanto
un
omuncolo,
“spesso
il
più
vigliacco
e il
più
effemminato
della
nazione”,
“non
avvezzo
alla
polvere
delle
battaglie,
ma a
mala
pena
è
abituato
alla
sabbia
dei
tornei”.
Dunque
perché
non
negare
l’appoggio
a
una
personalità
capricciosa,
in
grado
con
un
comando
di
togliere
tutto,
persino
la
vita,
ma
che
da
solo
è
poco
più
che
un
omuncolo?
La
carica
stilistica
delle
pagine
di
La
Boétie
e
l’ardore
con
cui
si
esprime
fanno
pensare
a
questo
giovane
filosofo
a
lume
di
candela
con
una
piuma
in
mano,
chino
nel
suo
studio,
che
si
strugge
per
le
sorti
della
Francia.
Alza
lo
sguardo
in
cerca
di
una
parola:
“Dio
mio,
che
cosa
mai
è
questa?
Come
diremo
che
si
chiama?
Di
che
sventura
si
tratta?
[…]
Se
mille
o un
milione
di
individui
non
si
difendono
contro
uno
solo,
non
si
tratta
di
codardia:
questa
non
arriva
a
tanto
[…].
Allora,
che
vizio
mostruoso
è
mai
questo,
che
non
meriti
più
il
nome
di
codardia,
per
il
quale
non
c’è
una
parola
abbastanza
offensiva,
che
la
natura
disconosce
d’aver
creato
e
che
la
lingua
si
rifiuta
di
nominare?”
(pp.6-8).
Gli
occhi
prima
rivolti
verso
il
muro,
adesso
trapassano
la
finestra
e
osservano
il
paesaggio,
la
natura.
Com’è
possibile
la
servitù
volontaria?
“poiché
tutti
gli
esseri
che
hanno
coscienza
avvertono
il
male
della
soggezione
e
ricercano
la
libertà;
[…]
che
disgrazia
è
mai
stata
quella
che
ha
potuto
tanto
snaturare
l’uomo,
in
verità
l’unico
nato
per
vivere
libero,
e
fargli
perdere
la
memoria
del
suo
stato
primigenio
e il
desiderio
di
riconquistarlo?”
(p.
18).
Non
mi
voglio
soffermare
sulle
incredibili
somiglianze
al
pensiero
di
Rousseau.
Secondo
La
Boétie,
la
servitù
è
contraria
alla
legge
naturale:
“se
vivessimo
secondo
i
diritti
che
la
natura
ci
ha
dati
e i
precetti
che
essa
ci
insegna,
saremmo
naturalmente
obbedienti
ai
genitori,
soggetti
alla
ragione,
ma
non
saremmo
servi
di
nessuno”
(p.14).
A
queste
parole
segue
una
bellissima
pausa
dall’invettiva,
tutta
incentrata
sul
tema
della
fratellanza,
che
fa
da
contraltare
alla
servitù.
La
natura,
secondo
un
La
Boétie
–
ripetiamo
–
molto
in
anticipo
rispetto
al
pensiero
filosofico
della
sua
epoca,
la
natura
ha
creato
tutti
gli
uomini
uguali,
li
ha
fatti
con
“lo
stesso
calco”
affinché
si
riconoscano
fratelli.
E,
se
nella
“distribuzione
dei
doni”,
ha
avvantaggiato
uno
piuttosto
che
gli
altri,
non
è
per
permettere
al
primo
di
instaurare
un
potere
sugli
altri,
né
per
istigare
i
secondi
alla
lotta
armata;
ma
perché
voleva
“dare
spazio
all’affetto
fraterno
e
mettere
gli
uomini
in
grado
di
praticarlo,
avendo
gli
uni
la
capacità
di
offrire
aiuto,
gli
altri
bisogno
di
riceverne”.
“Inoltre
questa
buona
madre
(la
natura)
ha
dato
a
tutti
noi
la
terra
come
dimora,
[…]
ci
ha
impastati
con
la
stessa
pasta
affinché
ciascuno
potesse
vedersi
e
quasi
riconoscersi
nel
suo
prossimo;
se
ha
fatto
a
tutti
questo
gran
dono
della
voce
e
della
parola
per
conoscerci
e
meglio
fraternizzare,
e
realizzare
attraverso
la
dichiarazione
comune
e
scambievole
dei
nostri
pensieri
la
comunione
delle
nostre
volontà;
[…]
non
è da
mettere
in
dubbio
che
noi
siamo
tutti
naturalmente
liberi,
poiché
siamo
tutti
uguali;
e a
nessuno
può
saltare
in
mente
che
la
natura,
che
ci
ha
fatti
tutti
uguali,
abbia
reso
qualcuno
servo.
[…]
La
libertà
è
naturale,
e a
mio
parere
bisogna
aggiungere
che
siamo
nati
non
solo
in
possesso
della
nostra
libertà,
ma
anche
con
la
volontà
di
difenderla”
(pp.
15-16).
Ricapitoliamo:
La
Boétie
considera
la
libertà
un
diritto
naturale
e
auspica
il
raggiungimento
di
una
“comunione
di
volontà”
nell’essere
liberi
e
nel
non
sottomettersi
più
al
tiranno.
Pur
sostenendo
l’uguaglianza
di
tutti
gli
uomini,
non
ne
sopprime
le
differenze,
poiché
sono
necessarie
affinché
si
instaurino
rapporti
di
amicizia
e
fratellanza.
La
Boétie
non
incarna
idee
rivoluzionarie
e
non
si
può
certo
immaginarlo
prendere
parte
a
rivolte,
lo
dimostra
la
sua
vita,
che
spese
al
parlamento
e a
corte,
cercando
di
risolvere
i
dissidi
tra
la
fazione
cattolica
e
quella
ugonotta.
La
Boétie
afferma
che
la
libertà
interiore
non
è
slegata
dai
rapporti
sociali,
una
persona
non
può
essere
libera
solo
nella
propria
coscienza,
mentre
nella
vita
politica
è
sottomesso
a un
tiranno.
Il
suo
incitamento
alla
rivolta
è
intellettuale:
la
libertà
va
conquistata
al
proprio
interno,
bisogna
voler
essere
liberi
per
tradurre
questa
aspirazione
in
realtà
politica.
Il
segreto
della
libertà,
per
il
filosofo,
sta
proprio
nella
sua
facilità
di
ottenimento:
basta
volerlo
e si
è
liberi.
Quando
giunge
a
definire
compiutamente
la
servitù
volontaria,
La
Boétie
si
lascia
andare
al
completo
sconcerto.
Non
a
torto,
potremmo
definire
la
servitù
come
il
paradosso
della
libertà,
quest’ultima
è
intrinseca
alla
natura
umana,
e ne
caratterizza
il
patrimonio
genetico,
ma
viene
soppressa
dalla
volontà
che
si
riduce,
consenzientemente,
in
schiavitù.
Il
potere
del
sovrano
non
ha
un
fondamento
oggettivo,
sia
esso
di
diritto
divino
o di
diritto
naturale,
è il
frutto
del
rapporto
creato
unicamente
dai
sudditi
e
consegnato
in
mano
ai
sovrani.
“È
il
popolo
che
si
fa
servo,
che
si
taglia
la
gola,
che
potendo
scegliere
se
essere
servo
o
libero,
abbandona
la
libertà
e si
sottomette
al
giogo:
è il
popolo
che
acconsente
al
suo
male
o
addirittura
lo
provoca.
[…]
Se
per
avere
la
libertà
occorre
unicamente
desiderarla,
se è
necessario
un
semplice
atto
di
volontà,
può
mai
esserci
un
popolo
che
ritenga
di
pagarla
troppo
cara
potendo
ottenerla
con
il
solo
auspicio
[…]?”
(pp.10-11).
Quali
sono,
allora,
i
motivi
per
cui
il
popolo
si
sottomette
al
tiranno
e
rinuncia
alla
propria
libertà?
La
Boétie
ne
individua
tre.
Il
primo,
e il
più
scontato,
è
l’abitudine,
quella
particolare
propensione
umana
a
cancellare
ciò
che
viene
spontaneo
e
naturale
e
sostituirlo
con
comportamenti,
anche
opposti,
dettati
dall’educazione.
Scrive:
“Senza
dubbio
l’abitudine,
che
in
ogni
campo
esercita
un
enorme
potere
su
di
noi,
non
ha
in
nessun
altro
campo
una
forza
così
grande
come
nell’insegnarci
la
servitù.
È
proprio
l’abitudine
[…]
che
c’insegna
a
ingurgitare,
senza
trovarlo
amaro,
il
veleno
della
servitù.
[…]
I
germi
del
bene
che
la
natura
deposita
in
noi
sono
così
fragili
e
minuti
da
non
poter
resistere
al
minimo
impedimento
proveniente
da
un’educazione
a
essi
contraria.
Coltivarli
è
cosa
assai
più
difficile
che
snaturarli,
corromperli
e
addirittura
farli
degenerare”
(pp.
22-23).
Il
popolo
si
assoggetta
al
tiranno
e
decreta
il
proprio
stato
di
servo
volontario
per
aver
dimenticato,
o
abituato
il
proprio
animo
a
non
sentire,
l’anelito
alla
libertà.
Ma
c’è,
secondo
La
Boétie,
un
particolare
gruppo
di
persone
che
si
distaccano
dal
“popolo
crasso”,
individui
“con
idee
ben
chiare
e
mente
lungimirante”
che
“non
s’accontentano
di
ciò
che
hanno
sotto
gli
occhi,
ma
prestano
attenzione
al
prima
e al
dopo,
continuando
a
ricordare
il
passato
per
giudicare
gli
eventi
del
futuro,
e
per
valutare
il
presente:
si
tratta
di
individui
che,
avendo
per
natura
un’intelligenza
acuta,
l’hanno
poi
anche
educata
con
l’esercizio
e il
sapere”
(p.29).
Questa
tribù
di
sapienti,
di
eletti,
ha
l’incarico
di
mantenere
viva
l’immagine
e il
sentimento
della
libertà,
deprecando
totalmente
la
servitù;
infatti,
parlando
del
Gran
Turco,
l’imperatore
ottomano,
dirà:
“si
è
reso
ben
conto
del
fatto
che
i
libri
e
l’istruzione
più
di
ogni
altra
cosa
danno
agli
uomini
il
sentimento
e
l’intelligenza
di
riconoscere
se
stessi
e
d’odiar
la
tirannide”
(p.30).
Possiamo
azzardare,
senza
incorrere
in
errori
di
critica
storica,
di
trovarci
di
fronte
a un
passo
fortemente
autobiografico,
La
Boétie
si
sentiva
molto
chiamato
in
causa
nella
dialettica
sapienza/libertà-ignoranza/servitù.
La
Boétie
continua:
“sotto
i
tiranni,
è
facile
diventare
vili
ed
effemminati
[…].
È
dunque
sicuro
che
con
la
libertà
si
perde
simultaneamente
il
valore.
Gli
individui
assoggettati
non
hanno
in
battaglia
né
ardire
né
costanza;
affrontano
il
pericolo
costretti
e
quasi
intorpiditi,
come
chi
compie
con
sforzo
un
dovere,
e
non
sentono
affatto
ribollire
nel
loro
animo
l’ardore
della
libertà
[…].
Ma
gli
individui
sottomessi
non
perdono
soltanto
il
coraggio
bellico
ma
anche
soprattutto
la
vitalità,
e
divengono
pusillanimi
e
fiacchi,
incapaci
di
ogni
grandezza.
I
tiranni
ne
sono
ben
consapevoli
e,
vedendo
che
prendono
questa
piega,
fanno
il
possibile
per
renderli
sempre
più
deboli
e
vili”
(pp.32-33).
Si
delinea
in
questo
modo,
la
seconda
ragione
per
cui
gli
uomini
si
sottomettono
al
tiranno:
la
viltà.
In
questo
breve
passo,
ricco
di
considerazioni
potremmo
dire
“antropologiche”
e in
cui
risuona
l’eco
delle
pagine
di
Erodoto,
che
La
Boétie
cita
molte
volte
direttamente,
l’autore
indica
nella
rilassatezza
dei
costumi
e
della
tempra,
l’appiglio
su
cui
il
re
fa
leva.
Per
sostenere
la
sua
tesi,
riporta
agli
occhi
del
lettore
due
esempi
storici
in
cui
si
narra
“l’astuzia
dei
tiranni
nell’abbrutire
i
propri
sudditi”.
Il
primo
è la
conquista
della
Lidia
da
parte
di
Ciro:
dopo
aver
deposto
il
re
Creso,
Ciro
venne
a
sapere
della
rivolta
della
città
di
Sardi;
non
volendo
saccheggiare
la
città,
elaborò
un
espediente
per
assicurarsene
il
controllo:
“fece
aprire
bordelli,
taverne
e
sale
da
gioco,
e
fece
pubblicare
un’ordinanza
che
autorizzava
i
cittadini
a
servirsene”.
La
risposta
fu
talmente
positiva,
che
non
ebbe
più
bisogno
di
utilizzare
misure
di
forza
sul
popolo
della
Lidia.
Vale
la
pena
di
leggere
il
commento
finale
di
La
Boètie:
“Certo,
non
tutti
i
tiranni
dichiarano
ufficialmente
di
voler
effemminare
i
propri
sudditi,
ma
in
realtà
quello
che
Ciro
ordinò
a
tutte
lettere,
la
maggioranza
degli
altri
l’ha
fatto
di
nascosto”
(p.35).
Il
secondo
esempio
è il
comportamento
degli
imperatori
romani
con
il
populus:
demagoghi
per
eccellenza,
allettavano
le
folle
con
la
distribuzione
di
cibo
e la
sovvenzione
di
spettacoli
pubblici.
E
commenta:
“teatri,
giochi,
commedie,
spettacoli,
gladiatori,
bestie
feroci
medaglie,
dipinti,
e
consimili
droghe,
erano
per
i
popoli
antichi
l’esca
della
servitù,
il
prezzo
della
loro
libertà,
gli
strumenti
della
tirannide”,
un
crescendo
molto
drammaturgico,
“questo
sistema,
questa
pratica,
questi
allettamenti
erano
gli
strumenti
con
cui
gli
antichi
tiranni
addormentavano
i
loro
sudditi
sotto
il
giogo.
In
tal
modo
i
popoli
instupiditi
[…]
s’abituavano
a
servire
pedissequamente”.
Oltre
all’abitudine
e
alla
viltà,
di
cui
abbiamo
parlato,
La
Boétie
individua
un
terzo
elemento
importantissimo
su
cui
si
regge
tutta
l’impalcatura
della
tiranni.
Questo
altro
non
è
che
la
cupidigia.
Dei
tre
motivi,
la
cupidigia
è il
motivo
che
più
indigna
l’autore
e al
tempo
stesso
ne
riconosce
l’importanza,
poiché
la
definisce
“la
molla
e il
segreto
della
dominazione,
il
sostegno
e il
fondamento
della
tirannide”
(p.44).
Essa
fa
sì
che
attorno
al
tiranno
si
riuniscano
e si
strutturino
in
maniera
gerarchica
tutta
una
serie
di
persone
legate
al
potere.
Questi
uomini
“rosi
da
sfrenata
ambizione
e da
non
comune
avidità,
si
raccolgono
attorno
a
lui
(al
sovrano)
e lo
sostengono
per
aver
parte
al
bottino
e
comportarsi
a
loro
volta
come
tirannelli3
sotto
il
grande
tiranno”
(p.46).
In
questo
modo
il
re
riesce
a
sottomettere
i
sudditi
grazie
all’appoggio
di
altri
sudditi,
a
cui
La
Boétie
riserva
parole
di
fuoco:
“queste
anime
perse”,
scrive,
“abbandonate
da
Dio
e
dagli
uomini,
sono
ben
liete
di
sopportare
il
male
per
farne
a
loro
volta
non
già
a
chi
gliene
fa,
ma a
chi
come
loro
sopporta
senza
reagire”
(p.47).
Costoro
abbracciano
la
servitù
e
negano
la
propria
stessa
natura,
si
sottomettono
a un
giogo
volontario
soltanto
per
ottenere
beni
che
non
varranno
più
nulla
quando
il
tiranno,
o
quello
che
verrà
dopo
di
lui,
deciderà
di
togliergli.
Se
non
si
scardina
questo
perverso
meccanismo,
non
si
potrà
mai
edificare
una
società
naturale,
in
cui
la
libertà
dell’individuo
venga
preservata
e
coltivata.
Il
tema
della
compattezza
sociale,
il
cui
collante
è
costituito
dall’amicizia,
ha
un’estrema
importanza
nella
visione
utopica
di
La
Boétie.
Secondo
lui,
gli
stessi
sapienti,
di
cui
si
parlava
poco
fa,
pur
esistendo
e
battendosi
attivamente
non
possono
far
nulla
per
migliorare
la
situazione,
perché
non
si
conoscono
o
non
sono
sufficientemente
coesi
tra
loro.
Serve
a
questo
la
sua
invocazione
finale:
“impariamo
dunque
una
buona
volta,
impariamo
a
far
bene.
Leviamo
gli
occhi
al
cielo
o
per
il
nostro
onore
o
per
lo
stesso
amore
della
virtù,
o
per
dire
ancor
meglio,
per
l’amore
e
l’onore
di
Dio
onnipotente,
testimone
fidato
delle
nostre
opere
e
giudice
delle
nostre
colpe”
(p.57).
A
prescindere
dall’intenzione
con
cui
venne
scritto
e
dalla
cattiva
interpretazione
che
le
correnti
rivoluzionarie
gli
hanno
attribuito,
il
testo
venne
utilizzato
con
fini
di
polemica
politica
fin
dalla
morte
dell’autore.
Venne
ripreso
persino
dai
cattolici
durante
il
contrasto
con
la
fazione
ugonotta
guidata
da
Enrico
di
Borbone
e
utilizzato
come
manifesto
da
quei
giuristi
che
sostennero
il
diritto
di
uccidere
un
sovrano
divenuto
tiranno.
Il
Discorso
conobbe
sorti
alterne
ed
Étienne
de
La
Boétie,
considerato
teorico
delle
prime
rivoluzioni
nel
Cinquecento,
scomparve
per
lungo
tempo
per
poi
ricomparire
durante
gli
anni
che
prepararono
la
Rivoluzione
Francese.