moderna
ECONOMISTI ITALIANI IN ETÀ MODERNA
IL PENSIERO DI SERRA E
GALIANI
di Enrico Targa
Nell’Italia delle Signorie al Centro
Nord e del Regno di Napoli nel Sud,
spicca il pensiero economico del
cosentino Antonio Serra che scrisse il
suo Breve trattato delle cause che
possono far abbondare il regno d’oro e
argento ove non sono miniere con
applicazione al Regno di Napoli
(1613) nel carcere partenopeo di Vicaria
dove scontava la pena per un crimine
della cui natura non è pervenuta
indicazione.
Contemporanei di Serra, molti autori
scrissero trattati di economia e
dissertazioni su questioni legati alla
finanza, ma il loro interesse analitico
è piuttosto scarso. Di Serra colpisce,
in particolare, la capacità di porre in
relazione aspetti economici e politici,
questioni legate alla bilancia
commerciale e questioni legate alla
bilancia dei pagamenti o, più in
generale, al sistema politico ed
economico del Regno di Napoli.
La vita dell’autore è ignota e lo stesso
Breve trattato, su cui si
soffermò a lungo il Galiani, restò
sconosciuto fino all’Ottocento, pertanto
non influenzò in alcun modo i suoi
predecessori. Di recente, però, sono
emersi alcuni documenti notarili, dei
primi anni del Seicento, relativi a un
Antonio Serra di Dipignano, altro casale
di Cosenza (per es. Archivio di Stato di
Cosenza, Notaio Manilio De Luca, 1602,
c. 106r). Ciò permette, per la prima
volta, di fondare sul piano documentale
un’ipotesi sul luogo di nascita
dell’economista, rafforzata da un atto
pubblicato nel 1964 da Luigi De Rosa,
che pure legava Serra alla stessa
Dipignano.
Da un rogito notarile del 1591 vergato a
Napoli, infatti, era emerso che il
magnificus Antonius Serra de civitate
Cusentie, utriusque iuris doctor,
verosimilmente dimorante nella città
partenopea, deteneva un fondo e case in
territorio Dipignani, casalis dicte
civitatis Cusentie (De Rosa, 1964,
p. 575). Anche qui, come nel caso del
frontespizio del Breve trattato, la
dizione “de civitate Cusentie” è
da legare a quanto già detto sulla
doppia cittadinanza e sul fatto che al
di fuori di Cosenza i casaleni usavano
dichiararsi nativi del più noto
capoluogo. Quanto al titolo di “utriusque
iuris doctor”, anch’esso corrisponde
a quello dichiarato da Serra nel suo
libro, dal quale peraltro risulta
piuttosto evidente che avesse una
formazione di tipo giuridico.
È plausibile, quindi, che si trattasse
di lui, il che permette di rendere meno
vaga anche la definizione della sua data
di nascita, poiché se nel 1591 era già
laureato, doveva avere all’incirca
almeno 20 anni, sicché si può dire che
non nacque oltre i primi anni Settanta
del Cinquecento. Al di là dell’alone di
mistero che permane sulla sua biografia,
Serra resta un autore di rilievo nella
cultura europea. Il Breve trattato è,
infatti, il primo scritto che pose in
termini teorici un quadro generale delle
cause dei fenomeni economici. A Serra,
quindi, va “il merito di avere composto
per primo un trattato scientifico,
seppure non sistematico, sui principi e
sulla politica economica” (Schumpeter,
1959).
La visione di Serra è, come si diceva,
straordinariamente avanzata per l’epoca.
Analizzando le caratteristiche generali
di una nazione attraverso un metodo
comparato che fondava l’indagine
razionale su basi empiriche, nutrito dal
realismo di Niccolò Machiavelli e dal
naturalismo meridionale (da Bernardino
Telesio a Campanella, alla base della
floridezza economica ovvero alla povertà
e arretratezza, egli distingue due
componenti: le risorse naturali,
accidenti propri, e le condizioni
favorevoli, accidenti comuni.
Le prime, tra cui rientrano la fertilità
della terra e la centralità della
localizzazione geografica rispetto ai
traffici, ove sussistano, rappresentano
una sorta di capitale di origine che
però, per assicurare la ricchezza della
nazione, deve accompagnarsi alle
condizioni favorevoli che constano di
elementi quali: la produzione
manufatturiera, le qualità morali e
professionali della popolazione, una
fitta di rete di commercio e un buon
assetto istituzionale. Le risorse
naturali, quindi, sebbene potenzialmente
preziose, non sortiscono d asole
l’effetto di garantire buone condizioni
economiche nella nazione se non vengono
ben utilizzate. La “novità” del pensiero
dell’autore consiste nel prendere in
considerazione elementi molto eterogenei
e nell’analizzarli nella loro reciproca
interferenza e sinergica
giustapposizione; inoltre, veramente
singolare per l’epoca, è la sua la
capacità di collegare i fenomeni
monetari a quelli reali.
Alla generale descrizione dei fenomeni
economici di una nazione, segue nel
Breve Trattato, l’analisi della
condizione del Regno di Napoli. La sua
economia mostra un grave squilibrio
nella bilancia dei pagamenti in quanto
la vendita dei prodotti agricoli locali,
pur facendo affluire cospicue quantità
di moneta nel Regno, non basta a
sostenere le fuoriuscite dovute al
pagamento dei forti interessi sul debito
pubblico. L’arretratezza del sistema
creditizio e bancario e la scarsa
attitudine imprenditoriale della
popolazione autoctona lasciano ampi
margini di guadagno di profitto ai
mercanti-banchieri del centro nord
(soprattutto fiorentini e genovesi) e
sono proprio loro quelli che si
appropriano degli utili della produzione
manifatturiera di cui detengono la
proprietà.
L’analisi di Serra si conclude con
indicazioni di politica economica per il
Regno di Napoli. Si consiglia il divieto
all’esportazione di monete e metalli
preziosi, la riduzione del cambio per
favorire la bilancia commerciale
rendendo le merci più competitive sul
mercato estero, l’utilizzazione delle
monete estere nei pagamenti, l’obbligo
della consegna delle stesse alla Zecca
nazionale. La maggior parte dei rimedi
suggeriti sono quindi collegati ai
movimenti delle monete e ciò potrebbe
ridurre il valore del contributo di
questo autore, riportandolo nei ranghi
del mercantilismo classico, ma questo
sarebbe un errore.
Sicuramente un interesse per i metalli
preziosi è sempre presente e vigile,
tanto che l’autore arriva a definire la
giusta proporzione tra oro e argento
nella composizione delle monete, ma
l’accuratezza dell’analisi sul sistema
produttivo del Regno lo pone ben al di
là dei limiti dei movimenti sopra
descritti, in particolare il rilievo
sugli aspetti antropologici e
istituzionali, intimamente connessi alla
prosperità della nazione, lo proietta in
un luogo ideale dall’analisi economica
abitato da pochi illustri in grado di
cogliere il significato complessivo di
un sistema economico e delle
interconnessioni irriducibili tra le
diverse componenti: storiche, politiche,
antropologiche.
Diverso è il caso di Ferdinando Galiani
le cui opere letterarie circolarono
immediatamente, animando il dibattito
intorno alle riforme politiche che
aprirono la strada all’epoca del
dispotismo illuminato. Nato a Chieti nel
1728, fu attentamente educato dallo zio,
monsignor Celestino Galiani, prima a
Napoli e poi a Roma con l’obiettivo di
intraprendere la carriera ecclesiastica.
Galiani fin dall’inizio mostrò un forte
interesse per lo studio dell’economia e
all’età di ventidue anni, dopo aver
preso gli ordini, produsse due opere con
le quali il suo nome divenne ampiamente
conosciuto ben oltre i confini del Regno
di Napoli.
Nella prima opera, Della Moneta
(1750), fa un’ampia disquisizione
sulla monetazione dell’epoca in cui si
mostra forte sostenitore del
mercantilismo, inoltre affronta molti
aspetti riguardo alle politiche del
cambio facendo particolare riferimento
allo stato di confusione in cui versava
allora il sistema monetario del governo
napoletano. Il Della Moneta viene
considerato “il capolavoro uscito dalla
discussione sulle monete a metà del
secolo” (Venturi, 1969): una discussione
che vide impegnati molti intellettuali e
riformatori dei vari Stati italiani:
C.A. Broggia nel 1743 (e poi di nuovo
nel 1754), T. Spinelli, G. Belloni, G.
Fabbrini, P. Neri, G.R. Carli, G.F.
Pagnini, P.G. Capello e G. Costantini,
tra il 1750 e il 1752.
Rispetto a questi autori il Galiani si
distinse nettamente: per l’ampiezza e
l’organicità della trattazione, per le
chiare e lucide definizioni di concetti
economici di base (come il valore dei
beni), per l’originalità del suo
pensiero rispetto al problema delle
manipolazioni monetarie. Il punto di
partenza era un’articolata analisi sui
metalli preziosi e sul valore intrinseco
della moneta, dovuto alla quantità di
metallo: anche il metallo prezioso non
coniato poteva dirsi quindi moneta e il
conio non era altro che un segno della
quantità di metallo contenuto.
In questo modo il Galiani respingeva la
teoria contrattualista sull’origine
della moneta che derivava da Aristotele
ed era stata accettata da tanti autori
successivi. Nonostante queste premesse,
riteneva il cosiddetto alzamento, la
diminuzione della quantità di metallo in
una moneta che conservava il suo valore
di conio originario, un provvedimento
giusto e utile per i governi che
l’adottavano. Ciò significava
pronunciarsi nettamente a favore
dell’inflazione controllata, mentre gli
altri “monetaristi” si battevano contro
la svalutazione della moneta e gli
aumenti dei prezzi, auspicando una
politica statale a favore della
stabilità monetaria.
L’alzamento – secondo il Galiani –
doveva però essere adottato solo in una
situazione eccezionale e da un governo
che godesse dell’autorità necessaria: un
potere efficiente e assoluto non
limitato da Parlamenti o altri corpi
intermedi, ma illuminato, come a suo
avviso era quello di Carlo di Borbone.
Tale alzamento era lecito soprattutto in
presenza di un cospicuo debito pubblico,
perché consentiva di aumentare le
entrate senza introdurre nuove tasse o
inasprire le vecchie. Col tempo la
svalutazione sarebbe stata assorbita dal
mercato grazie all’inevitabile aumento
dei prezzi, ma prima che si fosse
ricreato l’equilibrio monetario lo Stato
avrebbe realizzato cospicui introiti,
mentre i lavoratori non avrebbero avuto
grandi danni, perché – affermava il
Galiani – “se incariscon le merci,
crescono del pari le mercedi e ogni
altro guadagno”.
Inoltre, l’aumento dei prezzi e la
maggiore disponibilità di denaro
avrebbero prodotto un incremento della
produzione e della circolazione dei beni
e dei consumi. Quello della produzione
era l’obiettivo primario di una nazione,
da incrementare il più possibile sia in
campo agricolo, sia in quello
manifatturiero, mediante adeguati
investimenti: venivano così apertamente
superate le vecchie tesi mercantiliste
di una ricchezza basata
sull’introduzione di molto più denaro o
metallo prezioso di quello esportato.
Accanto a queste tematiche, che per
l’epoca erano senz’altro quelle più
importanti, il libro del Galiani
conteneva alcune felici intuizioni sul
valore dei beni: rapportato sia alla
loro utilità (intesa come
soddisfacimento dei bisogni primari –
mangiare, bere, dormire – e di quelli
secondari, relativi alle passioni e al
piacere), sia alla rarità, sia al lavoro
necessario per produrli (la “fatica”).
Molti economisti e storici del pensiero
economico di fine Ottocento o del primo
Novecento, soprattutto italiani, hanno
individuato in queste intuizioni sia
elementi anticipatori delle teorie
marginaliste del valore, sia di quelle
precedenti di stampo ricardiano e
marxiano.
È il caso di ricordare soltanto il
favorevolissimo giudizio di Luigi
Einaudi, che ravvisa tra l’altro nel
Galiani i “germi delle teorie gosseniane,
della gerarchia dei beni, della loro
sostituzione, della decrescenza della
utilità delle successive dosi di un
bene”; nonché quello altrettanto
entusiasta di Joseph Alois Schumpeter,
per il quale il Galiani eleva la fatica
“alla dignità di unico fattore di
produzione, la considera l’unica
circostanza che dà valore alla cosa”.
Tuttavia il libro del Galiani fu quasi
del tutto ignorato dai maggiori
economisti dell’Ottocento (a eccezione
di Karl Marx), anche perché esso non fu
tradotto, nemmeno dopo la seconda
edizione del 1780 (l’unica traduzione in
francese apparirà nel 1955). Il successo
dell’opera fu quindi solo iniziale,
limitato agli anni Cinquanta, e passò
presto assieme a “quel periodo di
vivissimo interesse per i problemi
monetari che era conseguito alla guerra
di successione austriaca” (Diaz, in F.
Galiani, Opere, p. 9).
L’altra opera, Raccolta in Morte del
Boia, gli permise di consolidare la
sua fama di umorista donandogli molta
popolarità nei circoli letterari
italiani verso la fine del XVIII secolo.
Questa opera fu scritta da Galiani in
forma di parodia strutturata in una
serie di discorsi sulla morte del boia
pubblico utilizzando i già ben noti
stili letterari degli scrittori
napoletani dell’epoca.
La conoscenza politica e le qualità
sociali di Galiani lo portarono
all’attenzione del re Carlo di Napoli e
di Sicilia (in seguito Carlo III di
Spagna) e del suo Ministro liberale
Bernardo Tanucci tanto che nel 1759
Galiani fu nominato segretario
dell’ambasciata napoletana a Parigi.
Ricoprì tale incarico per dieci anni,
quando tornò a Napoli e fu nominato
consigliere del tribunale di commercio e
nel 1777 amministratore dei domini
reali.
Durante il periodo in cui era un
diplomatico a Parigi, Galiani scrisse i
Dialogues sur le commerce des bleds,
che enfatizzava l’importanza per la
regolamentazione del commercio, un
argomento che si opponeva ai
fisiocratici, che sostenevano la
completa libertà del commercio
soprattutto dei grani. Inoltre, egli
distingue nettamente tra la libera
circolazione interna e quella estera,
sostenendo che una grande nazione come
la Francia deve consentire
l’esportazione del raccolto eccedente
alle regioni più prospere solo dopo aver
compensato le eventuali necessità di
grano delle regioni caratterizzate da un
raccolto insufficiente.
In pratica, non si trattava di impedire
le esportazioni, ma di regolamentarle,
adattandole alla realtà concreta in cui
si operava, di scoraggiarle utilizzando
lo strumento dei dazi. In questo modo si
potevano scongiurare momenti di penuria
grave, le carestie così pericolose per
il normale sostentamento degli strati
più deboli della popolazione e di
conseguenza per la tenuta dei governi,
le sordide speculazioni e gli illeciti
arricchimenti che produttori, mercanti e
intermediari spesso riuscivano a
conseguire in tali momenti. Alla base
del ragionamento del G. vi erano quindi
il realismo politico e la ragion di
Stato, contro analisi che mettevano al
primo posto una scienza economica
(fisiocratica) elevata a sistema e posta
al di sopra di qualsiasi istanza di tipo
politico.
Questo libro pubblicato nel 1770,
introduceva il concetto dei rendimenti
crescenti della produzione e i
rendimenti decrescenti dell’agricoltura
e affermava il concetto secondo il quale
la ricchezza di una nazione si misura
dal livello raggiunto dalla produzione e
dal commercio. Approvando l’editto del
1764 di liberalizzazione del commercio
del grano, Galiani respinse gran parte
dell’analisi fisiocratica e in
particolare la teoria del valore della
terra affermando che l’attività
manufatturiera è attività economica più
importante.
Sulla linea di pensiero già tracciata da
Antonio Serra i Dialogues
fornivano un’analisi abbastanza moderna
della bilancia dei pagamenti. l libro fu
poi inserito nella collana degli
Scrittori classici di economia italiana
curata da Pietro Custodi (1803, prima
edizione italiana del testo francese,
senza traduzione). In seguito comunque
l’opera fu piuttosto accantonata, non
suscitando più interesse dopo il
radicale mutamento di prospettive
dell’economia europea avvenuto dopo la
rivoluzione industriale e il trionfo del
liberismo di ispirazione smithiana. Sarà
comunque presa in considerazione dagli
storici del pensiero economico e del
secolo XVIII e sarà oggetto di varie
ristampe (e alcune traduzioni in
italiano) nel corso della seconda metà
del Novecento.
Riferimenti bibliografici:
F. Galiani, Della moneta, libri
cinque, Giuseppe Raimondi, Napoli
1750.
S. De Majo, «Galiani, Ferdinando», in
Dizionario Biografico degli Italiani,
Volume 51, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Roma 1998.
A. Serra, Breve trattato delle cause
che possono far abbondare li regni d’oro
e d’argento dove non sono miniere. Con
applicazione al Regno di Napoli,
Rubbettino Editore, Catanzaro 2013. |