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attualità


N. 12 - Dicembre 2008 (XLIII)

la sentenza della Diaz

un massacro senza COLPEVOLi
di Cristiano Zepponi

 

Come se non ce ne fossero già toccati abbastanza, abbiamo ora un altro reperto da catalogare alla voce ‘bagni di sangue’, nonostante il suo valore – seppur considerevole – appaia sminuito dalla seconda voce d’etichetta, che certifica l’usuale latitanza di ‘colpevoli d’alto grado’. Ora sì che possiamo dormire sonni tranquilli, accorgendoci d’aver rinvenuto merce comune, prassi di poco conto, ‘normalità’ pura e semplice. In fondo al cuore, tacendo, possiamo percepire allora un casalingo rilassamento, un aroma domestica e fragrante, la confortante consapevolezza che così doveva andare. Possiamo dunque gettarlo via, come si fa con i soliti, stupidi cocci ammassati lungo le consolari, disposti appositamente per disturbare l’inarrestabile destriero della storia, prima di subirne le comprensibili ire. Questa è la storia dei fatti avvenuti nel complesso scolastico Armando Diaz e Giovanni Pascoli, in via Cesare Battisti a Genova, la notte del 21 luglio del 2001.

‘Nomen omen’, dicevano i latini, ‘il nome è un destino’. C’è del sarcasmo nel fato che ha accostato il poeta dello stupore infantile al duca della vittoria, che di suo aveva soltanto cercato di evitare le consuete stragi che il predecessore chiamava offensive; e ce n’è ancora di più nelle circostanze che hanno portato a legare i loro nomi (assai più il secondo, in effetti) al più sbalorditivo massacro degli ultimi decenni.

Nella prima, una scuola media, si sono appoggiati il centro stampa ed i servizi sanitari e legali del Genoa Social Forum; l'altra, una scuola elementare, è stata adibita a centro di accoglienza e casa della radio ufficiale del contro G8, Radio Gap. La tensione in città, e nel complesso, è altissima: il giorno prima, Carlo Giuliani ha bagnato il marciapiede in piena guerriglia, e violenti scontri hanno scosso la città, che del resto appare il campo di battaglia ideale. I vicoli tortuosi cantati da De Andrè inghiottono gli uni e sputano gli altri, e la furia dei reparti antisommossa si sfoga contro l’unico ‘nemico’ visibile, i manifestanti pacifici. C’era una brutta aria, quella sera.

In particolare, si avvertiva la frustrazione delle forze di polizia, che non sembravano più in grado di gestire la situazione, e assecondavano goffamente le puntate dei gruppuscoli violenti che stavano demolendo, impuniti, la città. Commandos vestiti di nero, che hanno ricevuto un sommario addestramento di guerriglia, che sanno marciare in formazione compatta. Nella storia degli ultimi decenni, quando non si sapeva a chi dare la colpa si pensava subito agli anarchici, gente che si presume detesti il vivere civile di una civiltà che rifiuta.
Anche stavolta, a quanto sembra.

“Si fa sempre così, in questi casi” spiegò candidamente l’allora vice-capo della polizia Andreassi, “è un modo per rifarsi dei danni ed alleggerire la posizione di chi non ha tenuto in pugno la situazione. La città è stata devastata? E allora si risponde con una montagna di arresti”.

Intorno a mezzanotte la polizia, che aveva raggiunto in forze il complesso, fece irruzione in massa. Nella confusione, qualcuno spiegò che si cercava droga, qualcun altro propose black-bloc, o magari armi. Raggiunsero prima la scuola-dormitorio, e poi l’altro edificio. Poi, per sapere cosa successe, bisogna affidarsi alle versioni contrastanti delle due parti.

La versione della polizia è che il primo agente entrato, Massimo Nucera, sarebbe stato aggredito con una coltellata, fortunatamente andata a vuoto. Da lì sarebbe scattata la furiosa reazione delle forze dell'ordine contro gli occupanti, a detta loro: ma le perizie sul giubbotto hanno clamorosamente sbugiardato anche questo tentativo. Qualcun altro, invece, sostenne di aver assistito ad un lancio di oggetti dalle finestre: e quel qualcuno, Mortola, solo tra centinaia di uomini impegnati nel blitz, ha parlato di un maglio libratosi nell’aere. Ma è lo stesso che ha sottoscritto l´arresto di Mark Covell – riferendo che si trovava nell’edificio, e aveva opposto resistenza, mentre l’aveva incontrato pochi istanti prima del blitz fuori dall’istituto.

Inoltre, gli agenti del VII Nucleo giurarono di essere stati preceduti da altri sconosciuti colleghi, di aver soprattutto soccorso i feriti, i ragazzi con le ossa rotte e le teste spaccate, trascinati per i capelli giù dalle scale, con le gengive orfane dei denti spaccati. Una ragazza, riversa sul pavimento, era in coma.

I ragazzi spiegarono, invece, di essere stati svegliati in pena notte, e picchiati selvaggiamente: “Abbiamo visto arrivare i poliziotti in divisa. Sono stato circondato da almeno dieci agenti che hanno cominciato a manganellarmi e a prendermi a calci. Poi hanno fatto lo stesso agli altri ragazzi che erano lì”, raccontò a caldo uno dei ragazzi. La maggior parte di loro fu lasciata a terra, nel suo stesso sangue, le manette ai polsi.

Bisogna ascoltare le due versioni, dicevamo, perché la polizia ostruì l’ingresso degli edifici disponendosi a barriera di fronte ai cancelli, e lasciò entrare solo le barelle che trasportavano i feriti. I giornalisti rimasero fuori, insieme agli avvocati del movimento e ad un gruppo di deputati regolarmente muniti di tesserino: “Ho chiesto al capo della Digos di Genova” - raccontò il portavoce del Gsf Vittorio Agnoletto – “di farmi vedere il mandato di perquisizione e lui mi ha risposto di passare più tardi, dopo una mezz'ora. Quello che è accaduto è una cosa non solo vergognosa ma al di fuori della Costituzione”.

Vincenzo Canterini, all'epoca capo della celere di Roma – il reparto protagonista dell’incursione - ha ammesso in sede processuale, il 7 giugno del 2007, di non aver assistito personalmente alla “resistenza attiva da parte dei 93 no-global” di cui al tempo aveva riferito nella relazione indirizzata al questore Francesco Colucci: una reazione, come detto, che è sempre stata usata per giustificare l'uso della forza da parte degli agenti. Affermò invece di averla dedotta da quello che era stato riferito da altri agenti presenti nel cortile. Delle due, l’una: o Canterini ha compilato una relazione sulla base di semplici voci – ed è quindi un incapace – o ha volontariamente segnalato la cosa, per scagionare quella “macedonia di polizia” (per usare le sue parole, che riconoscevano la presenza di agenti di vari reparti) che partecipò al pestaggio.

Comunque sia, i giornalisti ammessi nel museo del sangue, subito dopo i fatti, poterono apprezzare lo stato di devastazione dell’edificio. E che lì dentro si fosse perso il lume della ragione, che si fosse sfogata una rabbia repressa, se ne accorsero anche alcuni agenti: Michelangelo Fournier, uno dei poliziotti indagati, riferì infatti che “..arrivato al primo piano dell'istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana”. Persero un po’ tutti la testa, lì a Genova. Alle nove e mezzo del 17 dicembre 2002, ad esempio, il capo della polizia De Gennaro assicurò che “..per l'operazione alla scuola Diaz non vi fu alcun mutamento di rilievo nella gestione dell'ordine pubblico”. A prescindere dai complimenti per l’elegante scelta delle parole, si potrebbe obiettare che il suo stesso vice, quell’Andreassi di cui abbiamo parlato, l’abbia sconfessato poche ore dopo, affermando che “..quelle operazioni furono il frutto di un mutamento di linea d' azione, caratterizzato da una decisa spinta ad un intervento sul fronte repressivo”. E visto che proprio Andreassi, in quei giorni, faceva le veci a Genova di De Gennaro, tendiamo a credere alla sua testimonianza.

I 93 fermati di quella notte, possiamo dire con certezza, pagarono quindi ordini superiori, tanto che i loro fermi furono basati su prove e documenti falsi, culminati con la patetica “scoperta” di armi all’interno del complesso: in ordine di pericolosità la biografia del reverendo Jesse Jackson (materiale eversivo), gli assorbenti femminili, le anime d’alluminio degli zaini (spranghe), i coltellini multiuso. Senza dimenticare il rastrello e gli attrezzi da lavoro, rubati (da chi?) in un vicino cantiere. E poi le due rinomate bombe molotov, come provato dalla testimonianza (10 giugno 2002) del vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, da lui stesso ritrovate in alcuni cespugli di una traversa di Corso Italia, al termine di una carica e successivamente trasportate di fronte alla Diaz dall’agente Michele Burgio per ordine del vicequestore Pasquale Troiani. Lì cominciò una staffetta: Troiani le mostrò al collega Massimiliano Di Bernardini, e poi ad altri colleghi, tra cui Gilberto Caldarozzi (che sarebbe diventato più noto per l’arresto di Provenzano). Luperi, che al processo ha rifiutato di essere interrogato, preferendo le “dichiarazioni spontanee”, ricordò di aver chiamato una funzionaria che stava all´esterno della scuola, Daniela Mengoni, per affidarle il reperto e dirle di averne cura. La donna, a sua volta, disse di aver chiamato un sottufficiale, “credo fosse un ispettore della Digos di Napoli”.

Nessuno ha mai capito a chi si riferisse, né lei ha mai riconosciuto il suo volto in occasione dei confronti. Comunque, con lui ed il sacchetto si avvicinò all’entrata secondaria della scuola, per poi affidargli la prova. “Tienile un momento, che devo fare una cosa”, sembra che abbia aggiunto, forse dimenticando che il nostro codice le equipara ad armi di guerra. Al suo ritorno (il condizionale è d’obbligo) avrebbe trovato le bottiglie incendiarie allineate sul lenzuolo che ospitava gli altri oggetti di cui sopra.

Che un intervento dall’alto ci sia stato, o che almeno sia stato tentato, è dimostrato dalla difficoltà – come spiegato dal vicequestore di Palermo Luca Salvemini, incaricato di alcune indagini, e dal dirigente della Digos di Genova Claudio Sanfilippo - di effettuare i riconoscimenti (ritardi nella ricezione delle foto degli agenti presenti per i confronti, impossibilità d’identificare un agente con una coda di cavallo, nonostante questo tratto caratteristico comparisse in diverse riprese), e della mancata identificazione, nonostante sei anni di indagini, di una delle quindici firme nei verbali di arresto dei no-global: l’estrema decenza di uno sconosciuto, consapevole d’aver sottoscritto una menzogna.

Il 17 gennaio del 2007 è inoltre emerso che le fantomatiche molotov, le prove centrali del processo, erano state smarrite: da quel momento in poi, il processo abbandonò la questione, non potendo considerare in alcun modo due oggetti scomparsi. Lorenzo Guadagnucci, giornalista de ‘Il Resto del Carlino’, malmenato e gravemente ferito durante l'assalto e parte lesa nel processo, ha dichiarato in proposito che “questo episodio della sparizione delle bottiglie molotov è scandaloso perché è l'ultimo di una serie di boicottaggi operati dalla polizia di Stato contro il normale esercizio dell'azione giudiziaria”.
Francesco Colucci, all’epoca questore di Genova, è stato invece iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza, a causa delle numerose contraddizioni dei suoi racconti.

Il 31 marzo 2008, poi, i media hanno rivelato l'esistenza d’intercettazioni tra un artificiere (che aveva firmato un verbale in cui affermava che le due molotov erano state distrutte per errore) ed un suo familiare, in cui riferiva che le molotov sarebbero state da lui consegnate ad alcuni agenti della Digos, ma che questa versione non poteva essere fornita ai magistrati; infatti, gli era stato consigliato di usare come scusa la distruzione accidentale dei due reperti.

Ci sarebbe tanto altro da scrivere e raccontare, ma preferiamo fermarci qui. Pochi giorni fa, il 13 novembre del 2008, la sentenza di primo grado ha decretato l’assoluzione di sedici dei ventinove imputati, tra cui i funzionari di polizia che firmarono il verbale di perquisizione: Gratteri, Luperi e Calderozzi, e insieme a loro Filippo Ferri, Massimiliano Di Bernardini, Fabio Ciccimarra, Nando Dominici, Spartaco Mortola e Carlo Di Sarro. L’accusa aveva richiesto quattro anni e mezzo ritenendoli colpevoli di calunnia, falso ideologico e arresto illegale.
Il collegio presieduto da Gabrio Barone ha assolto inoltre - per non aver commesso il reato o perché il fatto non sussiste - Massimo Mazzoni, Renzo Cerchi e Davide Di Novi: l’accusa aveva richiesto quattro anni per calunnia, falso ideologico e arresto illegale.


Le tredici condanne sono state emesse esclusivamente nei confronti dei responsabili delle violenze all'interno della scuola, prevalentemente dirigenti e capi squadra del VII reparto mobile di Roma.

In occasione del blitz, sessantatrè persone rimasero ferite, trentaquattro delle quali dovettero essere trasportate in ospedale.
Tra di loro c’era il “membro dell’organizzazione denominata tute nere” Arnaldo Cestaro, sessantadue anni, commerciante di rottami in pensione. Un braccio ed una gamba fratturati, la testa piena di lividi “gonfia come un pallone da rugby”, due interventi chirurgici, ogni tanto si sveglia ancora di notte.
Urla che non ha fatto niente.

 

 

 

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