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N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

La felicità senza invidia
una lettura dello Ierone di Senofonte

di Paola Scollo

 

L’affermazione della tirannide in Grecia si pone nel VII secolo, in un periodo di forti tensioni sociali e politiche. Contrassegnata da spiccato individualismo, questa forma di governo si configura quale risposta necessaria alle divisioni della classe aristocratica al potere. E, in tal senso, è una tappa fondamentale nel passaggio dalla società arcaica alla polis democratica del V secolo.

 

La nozione di tirannide è stata per lungo tempo al centro di dibattiti politici e filosofici. Riuscire a tracciare un quadro puntuale della più antica tirannide greca è operazione complessa e, talvolta, rischiosa.

 

Un interessante contributo giunge dalle pagine dello Ierone di Senofonte. Il trattato, composto tra il 380 e il 355 a.C., non è una riflessione politica teorica e astratta, ma pragmatica, perché rivolta a un reale destinatario.

 

È possibile, infatti, pensare a un tiranno di Siracusa: Dionigi II, contemporaneo di Senofonte, o Dione, che già Platone immagina quale filosofo- reggitore dello stato ideale. Lo Ierone non si inserisce all’interno della riflessione dominante che considera la tirannide una forma di governo degenerata, ma dischiude nuove prospettive, tra cui la possibilità di una valutazione in positivo.

 

Alle origini, il termine tyrannos ha significato incerto. Tale ambiguità trova una plausibile motivazione nella difficoltà di definire la natura della tirannide, ovvero nella confusione tra forme di potere monarchico in epoca arcaica.

 

Secondo Tedeschi, «come ogni vocabolo neutro, tyrannos è predisposto ad essere caricato di significati tra loro opposti e inevitabilmente finisce col diventare ambivalente». Dall’analisi delle testimonianze emerge che, alle origini, tyrannos è sinonimo di monarca, basilèus. Così, ad esempio, in Erodoto (I 86. 4): «uno che io avrei voluto, anche pagando grandi ricchezze, far incontrare a tutti coloro che hanno dominio (tyrannoi)».

 

Al contempo, tyrannos può designare il capo di una fazione politica. Infatti, per affermare il proprio dominio, il tiranno diviene interprete degli interessi di nuove classe sociali: cittadini oppressi da miseria e schiavitù, opliti, artigiani e commercianti. Proprio per queste ragioni, la nozione di tiranno ha valore positivo per il demos: il tyrannos pone fine alla stagione delle guerre civili e delle lotte politiche interne. Più in generale, la tirannide appare quale condizione invidiabile per onori, fama e ricchezze.

 

Sofocle nelle Trachinie definisce il flauto «tiranno del mio senno» (217), in riferimento alla capacità di incitare alle danze. Come risulta evidente, tyrannos ha qui significato neutro: implica una forma di potere.

 

Un primo illuminante esempio di uso deteriore giunge dagli Uccelli di Aristofane, laddove Pisetero, il fondatore della città, viene apostrofato come «il sovrano (tyrannos) nelle splendide case» (1708).

 

Significative attestazioni ricorrono poi nella Repubblica di Platone (334 c - d): «La tirannide non è buona né per i dominatori né per i soggetti: solo anime piccole e servili amano strappare tali guadagni, anime che non sanno nulla di ciò che è buono e giusto».

 

Nel IX libro della Repubblica Platone immagina l’animo tyrannikos come una condizione di torpore della dimensione razionale dell’uomo, con conseguente predominio dell’elemento impulsivo e irragionevole. Priva di controllo, l’anima del tiranno «non esita infatti a tentare di unirsi alla madre, o almeno così crede, o a qualsiasi uomo, dio o animale; a macchiarsi di ogni genere di assassini, a non astenersi da nessun cibo. Insomma, non proibisce a se stessa nessuna stoltezza e nessuna indecenza» (571 c 9 - d 4).

 

Per concludere, «un uomo diventa veramente tiranno quando, per natura o per abitudine o per causa di entrambe, diventa ebbro, innamorato e pazzo» (573 c 7 - 9). Platone intende qui mostrare la distanza dell’indole del tiranno da quella del sapiente: potere e ambizione sono motivo di allontanamento da saggezza e temperanza. D’altra parte, la saggezza è estranea per natura alla sfera politica.

 

In ambiente aristocratico il termine tyrannos indica l’autocrate che spezza l’egualitarismo, isotes, della polis arcaica. Ed è soprattutto nell’Atene democratica del V secolo che riceve connotazione negativa, perché in antitesi con l’etica della polis.

 

A tal proposito, occorre ricordare che anche Pericle, talvolta, viene associato dai poeti comici al tiranno Pisistrato. Secondo Hobbes, Pericle e Pisistrato «non differiscono per il fatto che il secondo abbia più potere del primo, perché non si può dare un potere maggiore di quello supremo […]. Differiscono solo per l’esercizio del potere: è re chi governa rettamente, tiranno chi governa in altro modo.

 

La questione dunque si riduce a questo, che se i cittadini pensano che un re esercita bene il suo potere lo chiamano re; altrimenti tiranno» (De cive VII 3). Sul filo di questa direttrice, sembrerebbe che il pensiero greco abbia utilizzato i termini tiranno, tyrannos, e re, basilèus, in riferimento alla stessa forma di governo, ma l’uno in senso negativo e l’altro in positivo.

 

Questa sintetica rassegna degli usi del termine tyrannos risulta illuminante ai fini del nostro discorso, perché Senofonte ribalta la tradizionale rappresentazione polemica della tirannide di matrice platonica. E tale immagine in positivo non è affidata al filosofo e/o al poeta, ma al tiranno in persona.

 

Nello Ierone Senofonte propone una lunga conversazione tra il tiranno siracusano Ierone, giunto al potere nel 478 a.C., e il poeta lirico Simonide, impegnati a confrontare la condizione del tiranno con quella del cittadino privato, idiotes.

 

Simonide sostiene che il tiranno sia un uomo molto felice. Di contro, Ierone afferma l’assoluta infelicità del tiranno: «Non stanno così le cose, Simonide. Sai bene, infatti, che il tiranno gioisce molto meno e soffre di dolori di gran lunga maggiori del privato, che pure conduce un’esistenza modesta».

 

Il tema del confronto non è politico, ma psicologico: qual è il rapporto tra tiranno e privato nel godimento di un piacere? Si tratta di analizzare il rapporto tra felicità e infelicità. Simonide osserva: «È incredibile quello che dici. Se le cose stanno così, come mai molti, e per giunta quelli che sembrano i più capaci, aspirerebbero alla tirannide? Come mai tutti invidierebbero i tiranni?».

 

Lo stupore di Simonide trova spiegazione nella diffusa convinzione che la tirannide sia una condizione di vita desiderabile. Di qui la necessità di ulteriori riflessioni. Simonide ritiene che il tiranno, per ognuno dei sensi, tragga piaceri di gran lunga superiori rispetto all’uomo comune.

 

Tuttavia, Ierone osserva che, per quanto riguarda la vista, il tiranno si astiene dagli spettacoli: «è, infatti, rischioso per lui recarsi dove non può essere più forte dei presenti».

 

Anche nell’udito il tiranno è svantaggiato: «quale piacere può giungere da coloro che parlano male oppure da coloro che lodano il tiranno, quando c’è il motivo di sospettare che facciano tali lodi per adulare?».

 

Almeno su questo punto il poeta si dichiara d’accordo: «le lodi più gradite sono quelle che provengono dalle persone assolutamente libere». Si passa quindi ad esaminare il gusto: «Anche per quanto riguarda la durata del piacere, chi si fa approntare una mensa ben fornita è svantaggiato nei confronti di chi si ciba frugalmente».

 

Ierone conclude: «Così pure per i cibi; chi ne ha sempre di ogni specie non ne prende alcuno con desiderio mentre chi raramente assaggia una pietanza, se ne sazia con gioia quando gli viene messa davanti». Simonide ritiene che solo i piaceri sessuali rappresentino un impulso alla tirannide «perché chi è tiranno ha la possibilità di intrattenersi con quello che di più bello può vedere».

 

Ma anche in questo caso Ierone individua evidenti svantaggi: «Il tiranno non può mai credere che qualcuno gli sia affezionato. Si sa bene che quelli che si concedono per paura, per quanto meglio possono, simulano le compiacenze di chi è veramente affezionato. Di conseguenza, al tiranno le insidie più numerose provengono proprio da quelli che soprattutto fanno finta di volergli bene».

 

L’amicizia è il bene supremo per l’uomo: eppure, di questa immensa ricchezza il tiranno dispone in minima parte. E così anche per quanto concerne tutti gli affetti: «tra i tiranni molti hanno ammazzato i propri figli, molti sono stati assassinati dai figli, molti fratelli si sono uccisi a vicenda per impadronirsi del potere, molti sono stati privati della vita dalle mogli e dai compagni che mostravano di essere i più devoti».

 

Il tiranno vive costantemente nel timore: crede di essere circondato di nemici e può confidare soltanto negli schiavi. E la paura è motivo di infelicità, perché «non è rovinosa soltanto per se stessa quando si impadronisce dell’anima, ma corrompe anche tutti i piaceri a cui si accompagna». In sintesi, «il tiranno ha solo una minima parte dei beni più grandi e dei mali più grandi, invece, ne possiede moltissimi».

 

Queste riflessioni ben si accordano con quanto osserva Platone nella Repubblica (567 d 1 - 3): «Il tiranno si trova stretto in un dilemma veramente piacevole che gli impone di vivere fra molta gente mediocre che lo odia, oppure di non vivere affatto!» E l’anima tirannica «non farà affatto ciò che vuole, anzi sarà sempre in preda all’agitazione e sempre vittima del disordine e del rimorso» (577 d e 1 - 3). Oltre ad essere causa di rovina per la polis, il potere dispotico rende il tiranno il più infelice degli uomini (578 b 6).

 

Ma torniamo allo Ierone. Al termine della lunga esposizione, Simonide osserva: «L’uomo si distingue dagli altri esseri viventi perché aspira all’onore. E nessun piacere umano sembra avvicinarsi alla divinità più della gioia derivante dagli onori».

 

Tuttavia, per Ierone non si tratta di onori, ma di atti di servilismo: «Il tiranno vive notte e giorno come se l’intera umanità l’avesse condannato a morte per i suoi soprusi». E di fronte a questa prospettiva di vita, unica via di fuga è il suicidio: «Se mai a qualcuno può essere utile impiccarsi, sappilo bene, io trovo che è soprattutto al tiranno che conviene farlo, perché è il solo a cui non giova né tenere né deporre le proprie miserie».

 

La descrizione della condizione del tiranno giunge al momento di massima tensione. A questo punto, Simonide prende la parola e inizia a offrire a Ierone consigli utili per divenire un governante apprezzato. L’esercizio del potere non impedisce di essere benvoluti; anzi, pone in condizione di vantaggio rispetto al privato.

 

Per Simonide, il tiranno non deve competere con i concittadini, ma con i governanti di altre città: «se riuscissi a rendere la città, di cui sei capo, la più prospera fra tutte, saresti proclamato vincitore nella più bella e splendida gara esistente al mondo. Per prima cosa ti guadagneresti immediatamente la benevolenza dei sudditi, che tanto desideri; poi non ci sarebbe un unico banditore a proclamare la tua vittoria, ma tutti quanti esalterebbero la tua virtù. Diventato famoso, non solo da privati cittadini, ma anche da molte città saresti benvoluto; e saresti ammirato non solo in privato ma anche in pubblico in tutto il mondo».

 

Nella competizione con i concittadini il tiranno non può provare piacere: vincendo, diverrebbe oggetto di invidia, non di ammirazione; perdendo, riceverebbe la peggiore delle umiliazioni. Di qui l’esortazione: «Ierone, rendi ricchi i tuoi amici, arricchirai te stesso; rendi più potente la tua città, procurerai alleati a te stesso; considera la tua famiglia la tua patria, tuoi compagni i cittadini, tuoi figli gli amici, i tuoi figli come se fossero la tua stessa vita, e sforzati di vincerli tutti quanti facendo loro del bene. Infatti se nel far del bene supererai gli amici, neppure i nemici potranno resisterti. Se fai tutto quello che ti ho suggerito, sappilo bene, possiederai il bene più bello e prezioso esistente al mondo: la felicità senza invidia».

 

Per Simonide, l’evergetismo è alla base del successo dei governanti: investire denaro in opere pubbliche conferisce prestigio all’intera polis; di contro, spendere denaro pubblico esclusivamente per beni personali porta il tiranno a essere oggetto di invidia. Peraltro, un simile suggerimento economico è già fornito a Ierone da Pindaro nella prima Pitica (88 - 92): «Anche se un’inezia sfavilla sembra grande, se viene da te. Sei ministro di molti e molti sono i testimoni fedeli nel bene e nel male. Serba il rigoglio della tua indole, e se ami udire sempre dolce fama di te, largheggia nelle spese senza angustiarti; libera come il nocchiero al vento la vela. Non lasciare t’ingannino, amico, gli ambigui guadagni; solo il vanto della fama che sopravvive ai mortali rivela per merito di narratori e poeti la vita di quelli che furono». Il richiamo è poi alla Politica di Aristotele (V 11): «Lo scopo comunque è chiaro: bisogna che egli appaia ai sudditi non un capo tirannico, ma un amministratore e un reggitore regale, non un usurpatore ma un tutore, che segua la moderazione nel modo di vivere e non gli eccessi, che frequenti inoltre le persone ragguardevoli e si concili il favore della massa. Da ciò deriva necessariamente non solo che il suo governo sia più bello e più invidiato perché si esercita su persone migliori e d’animo non abietto e che egli viva al riparo da odii e da paure, ma anche che il suo governo duri più a lungo e che lui, poi, sia nel suo carattere o ben disposto verso la virtù o buono per metà e non perverso ma solo perverso per metà».

 

Arricchendo i propri amici il tiranno arricchisce se stesso e può conquistare il bene più prezioso al mondo: la felicità senza invidia. La serie di esortazioni di Simonide si conclude con l’invito a una maggiore prodigalità, motivo di fama anche grazie al valore eternante della poesia. Il benessere comune è il fine ultimo del governo ideale. Ma si tratta di una prospettiva valida?

 

La chiusa dello Ierone mostra un evidente paradosso: l’identificazione degli interessi del tiranno con quelli della comunità.

 

È una forma di governo che può realmente essere definita tirannide?

 

Simonide ha una visione esterna, distorta, della condizione del tiranno; Ierone, invece, è proiettato verso una dimensione più interiore. L’uomo di potere è qui ritratto in condizione di evidente difficoltà e precarietà.

 

Ed è proprio questo l’aspetto più innovativo del dialogo. Pur mostrando diffidenza, il potente Ierone sembra disposto ad ascoltare e ad accogliere i consigli del saggio Simonide.

 

La vita privata è preferibile alla vita politica; tuttavia, esiste la possibilità per il tiranno di ricevere onori e privilegi qualora si lasci illuminare dai suggerimenti del saggio- filosofo.

 

Il richiamo è, ancora una volta, alla Repubblica di Platone (473 c 11 - d 6): «Se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’una o all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano».

 

Alla luce di queste riflessioni, è impossibile non scorgere nello Ierone il paradigma di un regime autoritario e dispotico fondato sul potere della filosofia.



 

 

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