N. 75 - Marzo 2014
(CVI)
La seconda rivoluzione industriale
Origini e caratteristiche
di Laura Ballerini
La
prima
rivoluzione
industriale
aveva
avuto
luogo
verso
la
seconda
metà
del
700
in
Gran
Bretagna,
e si
caratterizzò
per
tre
elementi
principali:
la
suddivisione
del
lavoro,
lo
sviluppo
tecnologico,
la
concorrenza
tra
le
imprese.
Circa
un
secolo
dopo,
in
Europa,
questi
elementi
cambiarono
e
determinarono
il
passaggio
verso
la
seconda
rivoluzione
industriale.
Ciò
che
distingue
il
lavoro
manifatturiero
da
quello
di
fabbrica
è la
specializzazione:
l’operaio
non
cura
tutte
le
fasi
della
lavorazione
di
un
bene,
ma
solo
una,
in
questo
modo
vengono
dimezzati
tempi
e
costi,
aumentando
produzione
e
guadagni.
A
determinare
il
passaggio
verso
la
nuova
rivoluzione
industriale,
fu
il
cambiamento
proprio
in
questo
aspetto
e
l’introduzione
della
catena
di
montaggio.
Si
pensò
di
suddividere
ulteriormente
il
lavoro,
non
più
secondo
le
fasi
di
lavorazione,
ma
in
gesti
ancor
più
piccoli:
il
prodotto
viaggiava
su
un
nastro
trasportatore,
dove
l’operaio
lo
lavorava
ripetendo
sempre
le
stesse
procedure.
In
questo
sistema
vi
era
quindi
un
ulteriore
dimezzamento
di
tempi
e
costi
di
produzione,
che
consentiva
di
immettere
nel
mercato
dei
prodotti
anche
di
lusso
a
basso
prezzo:
si
apre
la
strada
dunque
alla
società
di
massa
e
dei
beni
consumo.
A
facilitare
il
tutto
fu
un
nuovo
utilizzo
delle
tecnologie:
la
fonte
di
energia,
infatti,
non
era
più
il
carbone,
bensì
il
petrolio,
che
aveva
concesso
lo
sviluppo
dell’energia
elettrica
e
dei
motori
a
scoppio.
Questo
aumento
di
produzione
necessitava
l’apertura
verso
nuovi
sbocchi:
i
mercati
internazionali.
Se,
infatti,
durante
la
prima
rivoluzione
industriale,
si
puntò
sulla
liberalizzazione
del
mercato
interno,
questa
volta
si
cercò
di
esportare
i
propri
prodotti
affacciandosi
sui
mercati
esteri.
Allo
stesso
modo,
se
prima
si
era
investito
in
mezzi
di
trasporti
nazionali,
ora
si
puntava
ad
allargare
le
reti
a
livello
internazionale:
a
tal
scopo,
nel
1869,
venne
aperto
il
canale
di
Suez.
Questo
cambiamento
penalizzò
i
paesi
mediorientali,
di
cui
non
si
necessitò
più
per
intermediare
con
l’estremo
oriente.
L’ultimo
punto
che
segna
l’effettivo
passaggio
verso
la
seconda
rivoluzione
industriale,
fu
la
concorrenza.
Prima
si
parlava
di
competizione
perfetta,
con
un
incessante
nascere
e
morire
di
imprese,
dove
anche
i
self
made
man,
cioè
persone
non
ricche
di
partenza,
potevano
entrare.
Adesso
invece
si
assiste
al
fenomeno
della
concentrazione,
che
può
essere
di
due
tipi.
La
concentrazione
verticale,
o
trust,
consiste
in
un
impresa
più
grande
che
ingloba
quelle
più
piccole
formando
un
unico
grande
colosso
(come
il
settore
dell’acciaio
negli
Stati
Uniti).
Si
parla
invece
di
concentrazione
orizzontale,
o
cartello,
quando
più
imprese,
che
producono
lo
stesso
bene,
si
mettono
d’accordo
sul
prezzo,
con
un
margine
di
guadagno
per
tutte.
Se
c’è
un
impresa
che
vìola
il
cartello,
le
altre
possono
ricorrere
al
fenomeno
del
dumping,
“affossamento”:
abbassano
artificialmente
il
prezzo,
in
modo
da
eliminare
dal
mercato
quell’impresa.
La
concentrazione
limita
la
scelta
del
consumatore,
e
l’ingresso
di
piccole
imprese,
per
questo
motivo,
nel
1895,
gli
stati
uniti
presero
le
prime
misure
antitrust
con
le
Sherman
Act
(in
Italia
le
prime
misure
si
avranno
circa
un
secolo
dopo.
La
seconda
rivoluzione
industriale
è il
momento
di
ascesa
di
nuove
potenze
economiche.
Se
fino
a
quel
momento,
infatti,
la
Gran
Bretagna
aveva
avuto
il
primato,
ora
la
sua
crescita
iniziava
a
rallentare.
Secondo Shumpeter,
con
la
teoria
del
ciclo
delle
maniche
di
camicia,
la
colpa
era
degli
imprenditori
di
nuova
generazione.
Questi
ultimi,
infatti,
non
erano
disposti
al
rischio
come
i
loro
nonni
e
venivano
educati
in
scuole
che
insegnavano
ancora
i
valori
aristocratici
di
distacco
dal
lavoro.
Ma
un’altra
importante
causa
era
il
vasto
impero
coloniale.
La
Gran
Bretagna
aveva
il
monopolio
dei
mercati
delle
colonie,
a
cui
vendeva
i
propri
prodotti
senza
concorrenza.
Questo
rendeva
i
prodotti
inglese
meno
competitivi
sul
mercato
rispetto
agli
altri
europei,
poiché
certi
di
essere
venduti,
non
erano
curati
per
concorrere
con
gli
altri.
Anche
se
la
crescita
diminuì,
il
Regno
Unito
rimaneva
ancora
una
grande
potenza
economica.
Spettacolare
fu
invece
la
crescita
degli
Stati
Uniti.
Questo
paese
si
configurò
in
maniera
poco
omogenea
tra
nord
e
sud:
il
primo
infatti
era
industrializzato,
attivo
nel
commercio,
con
manodopera
salariata;
il
secondo,
invece,
si
basava
sulle
piantagioni
e
sul
lavoro
servile.
Dopo
la
guerra
di
secessione,
gli
Stati
Uniti
ripresero
la
loro
crescita,
stavolta
più
omogenea.
La
Germania,
invece,
si
presentava
come
un
insieme
di
stati,
accomunati
dalla
cultura
e
dalla
lingua
tedesca.
Per
la
sua
conformazione
territoriale
e
per
la
disponibilità
di
materie
prima,
lo
stato
tedesco
era
l’ideale
per
procedere
all’industrializzazione.
L’iniziativa
venne
portata
avanti
dalla
Prussia.
Si
pensò
infatti
di
legare
gli
stati
tra
loro
creando
una
zona
di
libero
scambio
e
mettersi
in
pari
con
i
paesi
europeai:
lo
Zollverein
1834.
In
seguito,
sempre
ad
opera
della
Prussia
di
Bismark,
venne
portata
avanti
l’unificazione
tedesca
nel
1870.
In
questo
momento
c’è
una
forte
commistione
tra
politica
ed
economia,
poiché
i
capi
militari
erano
spesso
anche
i
proprietari
terrieri
e i
politici
(la
figura
dello
Junker).
Il
Giappone,
invece,
viveva
in
uno
stato
di
isolamento, finchè
nel
1854
giunse
una
missione
americana
che
gli
intimò
di
instaurare
una
relazione
commerciale:
il
rifiuto,
infatti,
sarebbe
stato
interpretato
come
un
atto
ostile
verso
gli
USA.
Il
Giappone,
allora,
nel
corso
del
successivo
trentennio
si
mise
in
pari
con
gli
stati
europei
grazie
anche
alla
dinastia
Meiji.
Si
specializzarono
in
economia
di
trasformazione:
compravano
le
materie
prime,
le
lavoravano,
le
rivendevano.
Si
specializzarono
in
pochi
temi,
come
il
tè e
la
seta,
e
con
pochi
acquirenti,
come
gli
USA,
che
costituivano
il
50%
degli
export.
Si
configura
così
un
nuovo
scenario
economico
che
cambierà
anche
lo
scacchiere
mondiale.