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N. 105 - Settembre 2016 (CXXXVI)

La Scuola Siciliana
alla corte di federico II

di Paola Scollo

 

Con l’espressione Scuola poetica siciliana si è soliti indicare un ridotto gruppo di poeti (circa venticinque) attivi fra il 1230 e il 1266 presso la corte di Federico II di Svevia, re di Sicilia dal 1198 e imperatore dal 1220. La fioritura di tale tradizione poetica procede in parallelo con le vicende politiche e culturali della corte federiciana che, in seguito alla battaglia di Benevento del 1266 e alla vittoria di Carlo d’Angiò su Manfredi, figlio e successore di Federico, si avvia all’inesorabile declino. Con la sconfitta del sovrano svevo l’esperimento del primo Stato moderno in Italia e in Europa tramonta definitivamente e con esso la nozione di Impero nella sua accezione classica e medievale.

 

Figlio di Enrico VI Hoenstaufen, Minnesänger tedesco, e di Costanza d’Altavilla, regina di Sicilia, Federico II riceve un’educazione in tedesco e in francese. Già conoscitore del provenzale e del latino, in Sicilia apprende l’arabo, il greco e il volgare siciliano. Pur non amando risiedere nel medesimo luogo, il sovrano stabilisce in Sicilia la Magna Curia, la grande corte imperiale, fulcro poetico e culturale dell’impero da cui si propaga il progetto di un potere in senso moderno – accentrato e unitario – teso al raggiungimento di un’omogeneità politica, giuridica e amministrativa. Incurante delle maledizioni papali, in seguito alla crociata contro gli Albigesi, ospita presso la sua corte numerosi trovatori provenzali, oggi ritenuti i primi grandi poeti d’Europa. L’incontro con la produzione poetica in lingua d’oc è determinante per i successivi sviluppi della cultura e della letteratura della corte siciliana.

 

Sulla scia del modello tedesco Federico promuove infatti la diffusione di forme liriche in volgare ispirate alla tradizione dei trovatori provenzali. Peraltro egli stesso è poeta in volgare, mentre in latino compone un trattato di falconeria. È dunque questo l’orizzonte politico e culturale in cui sorge la cosiddetta Scuola poetica siciliana, la cui influenza nel panorama letterario italiano è tale che i poeti successivi – stilnovisti compresi – vengono denominati siciliani, pur essendo attivi in regioni del Centro e del Nord Italia.

 

Pur respirando un’atmosfera riccamente intessuta di esperienze differenti, la corte imperiale riesce a mantenere una dimensione culturale unitaria, elevata e raffinata su cui brilla Federico, Imperator e in partibus Rex Romanorum. Nella figura del suo sovrano, il Terzo vento di Soave, la Magna Curia «in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla» trova il suo punto stabile. È questo il terreno fertile su cui germoglia l’esperienza poetica dei rimatori siciliani: una terra proiettata verso una visione universalistica e universalizzante della cultura, nella consapevolezza dell’autonomia politica del regno.

 

Definire con certezza l’atto di nascita della lirica siciliana si configura quale opera di ampio respiro. È possibile ipotizzare una gestazione lunga e complessa all’origine della quale è doveroso porre non semplicemente una specifica volontà imperiale quanto, piuttosto, una indiscutibile personalità poetica. Una posizione di rilievo va senz’altro assegnata a Jacopo da Lentini, detto il Notaro, che nella Commedia Dante ha indicato quale caposcuola di tale tradizione letteraria.

 

La lirica siciliana è segnata da un’impronta spiccatamente aristocratica, in quanto prodotto dell’attività di principi e di funzionari di corte che concepiscono la poesia sia come forma di otium e di evasione dalla quotidianità sia come segno di appartenenza a una élite di aristocratici cui sono legati per nascita o per funzione amministrativa. Pur riprendendo i modelli e i temi della poesia provenzale, i rimatori federiciani giungono a elaborare una poesia nuova e altra rispetto a quella trobadorica per contenuti e per forme dell’espressione. E ciò non deve sorprendere. La dimensione sociale entro cui fiorisce tale esperienza poetica non è feudale, ma cortigiana.

 

Molteplici appaiono i tratti distintivi della poetica siciliana rispetto al modello provenzale di riferimento, a partire dalla figura stessa del poeta. Il rimatore siciliano non è né un professionista né un giullare, ma un funzionario borghese, prevalentemente giudice o notaio, che coltiva la poesia per diletto, quasi a completamento della vita mondana. Si tratta in sintesi di un dilettante, che non è solito comporre melodie e accompagnare le proprie rime con musica. La lirica siciliana è infatti destinata alla lettura, non alla recitazione o al canto. Il progressivo allontanamento della poesia dalla musica ha contribuito a donare alla lirica moderna un aspetto certamente originale.

 

Ulteriore motivo di distacco dalla poesia trobadorica è rappresentato dalla scelta e dallo sviluppo dei temi. In generale domina una trattazione monocorde di ispirazione amorosa da cui sono esclusi satira, politica e temi morali. Il fin’amor, caratteristico della società feudale, non viene analizzato semplicemente come servitium amoris, ma declinato in svariati modi. Inoltre il focus non è posto sul rapporto d’amore fra vassallo e dama, ma sull’amore in quanto tale. Emerge nel complesso un forte desiderio di introspezione patologica e di interiorizzazione dell’esperienza amorosa con osservazioni anche di carattere scientifico. Il tema amoroso è trasposto in una dimensione più astratta e rarefatta, lontano dalla realtà quotidiana, per cui diviene un fatto puramente letterario. Ne consegue che anche la figura femminile sia eterea ed evanescente, priva di caratterizzazioni concrete.

 

Le strutture metriche adottate dai poeti siciliani hanno notevolmente condizionato gli sviluppi della tradizione lirica italiana. Forme dell’espressione preminenti sono la canzone, la canzonetta e il sonetto, autentica creazione del genio siciliano. Sul piano formale, un indiscutibile tratto di novità della lirica siciliana è la lingua, il cosiddetto siciliano illustre, modellato esteriormente nel lessico e nella sintassi sulla lingua provenzale, ma di maggior prestigio culturale. La lingua dei Siciliani, epurata dagli elementi più marcatamente dialettali attraverso il filtro del latino, del provenzale e degli altri volgari italiani, è un linguaggio aulico, illustre e interregionale utilizzato quale mezzo di comunicazione aristocratico entro una cerchia limitata e dai gusti raffinati.

 

Tale preziosità di linguaggio non costituisce di per sé un limite. Al contrario, i Siciliani modellano la lingua in modo attivo e dinamico, procedendo spesso oltre i modelli provenzali attraverso la formazione di termini nuovi. Occorre comunque ricordare che la lingua dei poeti siciliani può essere ricostruita solo approssimativamente a causa della scarsità di testimonianze in nostro possesso. In seguito alla sconfitta di Benevento e alla crisi della civiltà siciliana, i canzonieri siciliani che custodiscono l’eredità della scuola non sono tramandati e copiati, mentre quelli esistenti vanno perduti. Seppur in maniera diversa, i tre codici che raccolgono i canzonieri del Duecento – il Laurenziano, il Palatino e il Vaticano Latino 3793 – sono espressione del gusto linguistico e letterario preminente in Toscana. La linea poetica toscana si considera infatti erede della tradizione siciliana per nobiltà di temi e per raffinatezza stilistica e linguistica.

 

Facendo propria l’esperienza letteraria – lontana geograficamente e cronologicamente -– della corte di Federico II, i Toscani giungono a modificarne la dimensione linguistica. In tal modo viene tracciata una linea di continuità nella prima tradizione in volgare che giunge sino allo Stilnovismo toscano. Per tale ragione, a partire dalla fine del Duecento la materia poetica siciliana è letta nella redazione toscana. Peraltro in questa trasposizione della lingua dei poeti praefulgentes Dante scorge la pantheram redolentem, la pantera profumata, ossia il modello di riferimento del volgare illustre per sé e per i poeti dello Stil novo, unici legittimi continuatori di quella maestosa operazione culturale e letteraria.

 

E proprio nelle parole del sommo poeta sono racchiusi il valore e l’essenza dell’esperienza poetica della corte di Federico II e del figlio Manfredi, «uomini grandi e illuminati che seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito e che, finché la fortuna lo permise, si comportarono da veri uomini sdegnando di vivere come bestie». Uomini di singolare spessore umano e intellettuale che hanno donato slancio vitale alle lettere, alle scienze e alle arti, rifiutando di viver come bruti e scegliendo di seguire virtù e conoscenza.



 

 

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