N. 67 - Luglio 2013
(XCVIII)
L’IMMORTALITà DEI SEGNI
STORIA DELLA SCRITTURA NELL’ANTICA ROMA
di Chiara Francesca Chianella
Alcuni
storici
sostengono
che
i
conquistatori
romani
si
siano
valsi
dell’alfabeto
etrusco
per
adattarlo
alla
loro
lingua,
altri
pensano
che l’alfabeto
latino sia
derivato
direttamente
da
quello
greco,
senza
passare
attraverso
la
mediazione
etrusca...Quello
che
sappiamo
è
che
nel
III
secolo
a.
C.
esiste
un
alfabeto
latino
di
19
lettere,
a
cui
si
aggiungeranno
la X
e la
Y
verso
il I
secolo
a.
C.,
all’epoca
di
Cicerone.
I
Romani
scrivevano
come
i
greci,
utilizzavano
le
maiuscole
per
le
iscrizioni
su
pietra
e le
minuscole
per
i
papiri
e le
tavolette
cerate. L'incisione
su
pietra comportava
un
minuzioso
lavoro
di
preparazione.
Il
lapicida
antico
provvedeva
innanzitutto
alla
preparazione
del
campo
epigrafico
levigando
la
superficie
irregolare
del
supporto
prescelto
(pietra,
marmo
ecc.)
affinché
diventasse
adatta
all’incisione
(petram
excidere
è
definita
l’operazione
preliminare,
titulum
polire
quella
ultima
di
rifinitura);
era
poi
realizzata
l’ordinatio,
cioè
il
disegno
preventivo
del
testo
da
scrivere,
che
veniva
preparato
precedentemente:
si
trattava
di
una
sorta
di
minuta
che
il
lapicida
-
non
di
rado
analfabeta
-
avrebbe
dovuto
copiare
in
seguito.
Sulla
base
di
questo
modello,
veniva
poi
inciso
il
supporto
(nomina
inscribere,
nomina
scribere
et
sculpere
è
definita
l’incisione
vera
e
propria),
tracciandovi
con
uno
scalpello
(scalprum)
o
con
un
martello
(malleus)
un
solco
che,
visto
in
sezione,
appariva
di
solito
a
forma
di
triangolo
ed
era
ripassato
col
colore
–
spesso
molto
intenso,
come
ad
esempio
il
rosso,
il
verde,
l’azzurro
–
oppure
veniva
riempito
con
pasta
colorata,
tale
accorgimento
era
impiegato
al
fine
di
rendere
più
evidente
l’iscrizione
anche
da
un
lontano
punto
di
osservazione.
Era
colorato
anche
il
campo
epigrafico:
il
monumento
epigrafico
nel
suo
insieme,
quindi,
doveva
apparire
molto
diverso
da
come
lo
vediamo
noi
oggi.
Talvolta,
nel
lavoro
d’incisione,
il
lapicida
si
aiutava
con
linee-guida,
appena
graffite
sopra
e
sotto
le
lettere,
per
migliorare
la
simmetria
del
testo;
successivamente,
queste
venivano
coperte
con
adeguata
stuccatura,
operazione
di
cui
ci
si
serviva
anche
per
la
correzione
di
eventuali
errori,
spesso
imputabili
a
diversi
fattori:
in
primo
luogo
al
livello
d’istruzione
dell’incisore;
secondariamente,
al
semplice
passaggio
dalla
minuta,
scritta
in
corsivo
in
scriptio
continua
su
materiale
deperibile
(papiro,
stoffa,
anche
legno),
all’epigrafe
sulla
pietra;
infine,
più
semplicemente,
all’iter
del
testo
attraverso
più
“mani”
di
operatori
(di
solito
almeno
tre:
dapprima
lo
scriba,
poi
il
preparatore,
da
ultimo
il
lapicida).
Forse
per
una
sorta
di
horror
vacui,
gli
spazi
tra
le
parole
venivano
riempiti
con
dei
segni,
con
valore
puramente
separativo
e
solo
in
seguito
anche
decorativo:
inizialmente
uno,
due
o
tre
puntini
posti
in
verticale,
poi
un
triangolino,
in
età
imperiale
anche
foglioline
di
edera
o
palmette.
Curiosa
eccezione
–
questa
–
alla
consuetudine
scrittoria
romana:
a
partire
dalla
prima
età
imperiale,
infatti,
nella
pratica
della
scrittura
cadde
progressivamente
in
disuso
la
separazione
tra
le
parole
mediante
spazi
intermedi
o
punti
(interpuncta),
in
favore
della
scriptio
continua
già
in
uso
nel
mondo
greco.
A
differenza
di
altre
forme
antiche
di
comunicazione,
le
iscrizioni
non
costituiscono
una
categoria
esclusiva
per
pochi
eletti,
ma
sono
potenzialmente
rivolte
a
tutti:
i
destinatari
sono
infatti
non
solo
tutte
le
persone
alfabetizzate,
in
grado
di
leggere
e
decodificare
il
messaggio
scritto,
ma
anche
i
semianalfabeti,
che
potevano
avvalersi
di
“esegeti”
o
“letterati”
per
la
lettura,
la
spiegazione
o il
riassunto
dei
testi
(si
pensi
ad
esempio
al
caso
dei
santuari
o ai
documenti
esposti
nei
fòri);
in
effetti,
se
non
tutti
erano
in
grado
di
leggere,
certamente
tutti
sapevano
ascoltare.
E,
d’altro
canto,
bisogna
considerare
che
i
mutamenti
storico-culturali
che
crearono
le
condizioni
favorevoli
per
l’aumento
–
quantitativo
in
primis,
ma
poi
anche
qualitativo
–
delle
iscrizioni
innescarono
una
reazione
a
catena
per
cui,
con
la
maggiore
esposizione
della
scrittura,
crebbe
anche
l’alfabetizzazione:
la
scrittura
fissata
in
maniera
sempre
più
massiccia
su
materiale
duraturo,
alla
portata
di
tutti,
andò
di
pari
passo
con
l’incremento
dell’alfabetizzazione,
con
la
memoria
storica
e
con
la
consapevolezza
politica.
A
questo
proposito,
è
utile
tenere
presente
quali
effetti
produca
nel
lettore
(antico)
la“scrittura
esposta”:
«Assume
una
precisa
connotazione
ideologica
e
psicologica
nei
confronti
del
pubblico
quando
essa
viene
letta
sulla
pietra
(si
può
valutare
indubbiamente
il
pregio
e la
provenienza
della
pietra
come
dati
utili
a
considerazioni
economiche
e
persino
come
coefficiente
di
misura
dell’intenzione
epigrafica,
del
proposito
di
tradurre
in
epigrafe
una
storiografia),
sul
bronzo
ovvero
–
più
raramente
– su
altri
metalli
(per
lo
più
usati
per
oggetti
iscritti)
e su
laterizi:
in
quest’ultimo
caso
si
tratta
quasi
sempre
di
annotazioni
umili,
graffite
o
invece
tracciate
a
fresco,
dove
più
facile
è
l’impiego
della
scrittura
corrente.
La
scrittura
su
materiale
durevole
–
pietre,
e
soprattutto
marmi,
e
bronzo
–
quindi
su
superfici
concettualmente
eterne,
comporta
alcuni
effetti
sul
pubblico,
che
si
possono
così
elencare:
-
la
persuasione
dell’importanza
della
scrittura,
che
impegna
il
suo
estensore
e
tutti
i
protagonisti
che
vi
sono
evocati
(una
gens,
una
res
publica,
una
collettività)
alla
veridicità
di
quanto
vi
si
legge
e
alla
fedeltà
ai
valori
espliciti
o
impliciti
nel
testo,
anche
in
correlazione
agli
apparati
figurativi
e
monumentali
che
eventualmente
corredano
il
supporto;
di
conseguenza,
il
senso
di
sicurezza
che
promana
dal
monimentum
e
dalla
sua
scrittura,
proprio
perché
concettualmente
imperituri:
la
gente
sa
di
ritrovare
in
quell’orizzonte
quella
scrittura,
che
diviene
con
ciò
un
luogo
comune
dell’esperienza,
cioè
del
quotidiano,
e
della
memoria;
infine,
una
scrittura
su
materiale
durevole
impegna
il
committente,
l’estensore,
lo
scriba
o
scriptor,
nonché
il
lapicida
a un
prodotto
“di
riguardo”,
consentaneo
quindi
ai
sentimenti
di
garanzia
che
la
scrittura
suscita
nel
lettore:
costui
ne è
anche
il
controllore
e il
censore,
e
tutto
deve
quindi
compiersi
perché
la
scrittura
risulti
gradevole,
perspicua,
corretta,
quindi
ammirabile».
All’iscrizione
si
affidavano
i
messaggi
più
vari:
la
carriera,
un’occasione
particolare,
un
dono,
la
morte,
la
preghiera,
la
legge,
il
calendario
ecc.;
anche
le
divinità
utilizzavano,
attraverso
la
mediazione
dei
sacerdoti,
la
scrittura
su
ciottoli
o
lamine
per
comunicare
i
loro
messaggi
in
forma
oracolare;
tutti
gli
aspetti
della
vita
antica,
pubblica
e
privata,
sacra
e
profana,
entravano
in
gioco
nelle
epigrafi
e,
oggi,
possono
quindi
stare
direttamente
davanti
ai
nostri
occhi.
La
scrittura
è lo
specchio
di
una
civiltà
e il
tramite
più
immediato
che
unisce
il
mondo
antico
col
nostro.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Susini,
Epigrafia
romana,
Editore
Jouvence,
2002
G.
Susini,
Le
scritture
esposte,
in
Cavallo
Gugliemo
-
Fedeli
Paolo
-
Giardina
Andrea
(diretto
da),
Lo
spazio
letterario
di
Roma
antica,
vol.
2°.
La
circolazione
del
testo,
Salerno
Editrice,
Roma
2003