N. 77 - Maggio 2014
(CVIII)
NUOVI MARI, VECCHI ORIZZONTI
L’ETA’ DELLE SCOPERTE GEOGRAFICHE TRA MEDIOEVO E MODERNITà - PARTE Ii
di Gabriele Passabì
La
spedizione
di
Cristoforo
Colombo
va
collocata
dal
punto
di
vista
cronologico
a
cavallo
tra
il
viaggio
di Dias
e
quello
di
Vasco
da
Gama.
Tradizionalmente
al
navigatore
genovese
si
deve
la
scoperta
dell’America
e
quindi
l’inizio
ufficiale
dell’Età
Moderna.
Eppure
tale
impresa
mostra
più
di
ogni
altra
quanto
il
bagaglio
culturale
condiviso
e la
mentalità
siano
fortemente
radicate
nel
passato.
L’impianto
interpretativo
ancora
oggi
di
una
certa
influenza
presenta
Colombo
come
eroe
della
modernità,
che
in
virtù
del
suo
spirito
rinascimentale
ha
superato
gli
errati
pregiudizi
medievali
ed
ha
scoperto
ciò
che
prima
non
esisteva.
Tale
impostazione
proviene
in
prevalenza
dalla
cultura
illuminista
che
esaltò
la
figura
prometeica
del
genovese
e la
sua
scoperta
come
un
triomphe
de
la
raison.
In
verità
è
impossibile
comprendere
Cristoforo
Colombo
senza
intenderne
le
profonde
radici
cristiane
e
medievali,
senza
inquadrarlo
nel
suo
tempo
e
senza
porlo
al
punto
cruciale
della
generale
espansione
europea.
L’esperienza
marinara
di
Colombo
si
inquadrava
perfettamente
nella
storia
della
sua
patria
e
del
suo
tempo.
Il
navigatore
apprese
tutto
ciò
che
sapeva
riguardo
le
tecniche
di
navigazione
in
Portogallo,
infatti,
quasi
da
“autodidatta”,
navigò
a
lungo
sulle
rotte
dei
traffici
portoghesi
fino
in
Guinea.
Tuttavia,
nonostante
l’esperienza,
le
ipotesi
di
viaggio
di
Colombo
si
basavano
su
due
grossi
ma
fortunati
errori:
una
esagerata
estensione
dell’ecumene
terrestre
verso
Oriente,
concezione
desunta
fondamentalmente
dalla
Geografia
di
Tolomeo,
e
una
notevole
riduzione
del
circolo
massimo
del
globo.
È
proprio
partendo
da
questo
duplice
errore
geografico
che
Colombo
aveva
formulato
l’ipotesi
di
poter
raggiungere
le
Indie
molto
più
rapidamente
navigando
verso
occidente.
Colombo
salpò
da
Palos
nell’agosto
del
1492
e
dopo
un’ardua
traversata
raggiunse
finalmente
un’isola
delle
Bahamas
che
nominò
San
Salvador.
De
facto
egli
fu
il
primo
europeo
a
mettere
piede
in
America,
eppure
la
sua
concezione
della
nuova
terra
era
ben
diversa.
Era
convinto
di
aver
raggiunto
un’isola
dell’arcipelago
giapponese
ed
infatti
confidava
nel
fatto
che
l’isola
successiva
sarebbe
stato
il
Cipango
stesso.
Queste
convinzioni
erano
sostenute
dalle
conoscenze
geografiche
che
Colombo
possedeva,
esse
si
riferivano
alle
grandi
auctoritates
scolastiche
tipicamente
medievali
e a
tutto
il
loro
impianto
culturale,
in
modo
particolare
Tolomeo
e
Marco
Polo
erano
i
suoi
riferimenti
principali.
L’impresa
del
navigatore
genovese
è
stata
descritta
come
una
scoperta
dall’impatto
prometeico
che
ha
avviato
la
modernità
nella
civiltà
umana.
Come
abbiamo
visto
però
l’impostazione
teorica
e i
presupposti
delle
sue
concezioni
scientifiche
erano
in
realtà
pienamente
medievali,
ma
ancor
di
più
lo
erano
la
sua
visione
filosofica
e
teologica.
Il
progetto
di
Colombo
infatti
rientrava
in
un
piano
molto
più
ampio,
dalle
marcate
sfumature
religiose.
La
sua
era
una
missione
affidatagli
dalla
Provvidenza
il
cui
scopo
era
quello
di
portare
la
definitiva
disfatta
dell’Islam
utilizzando
le
copiose
ricchezze
che
avrebbe
raccolto
in
Oriente
per
finanziare
una
nuova
crociata
e
strappare
il
Santo
Sepolcro
agli
infedeli
(Caraci,
1996,
p.
5).
Questo
spiegherebbe
in
parte
il
motivo
dell’accondiscendenza
dei
sovrani
spagnoli
ad
un
progetto
che
si
reggeva
soltanto
su
delle
ipotesi
di
navigazione
prive
di
evidenze
concrete.
I
sovrani
castigliani
erano
animati
infatti
dall’euforia
della
Reconquista
che
in
quegli
anni
stava
raggiungendo
il
più
alto
successo:
Granada.
La
dimensione
religiosa
dell’impresa
di
Colombo
non
era
un
semplice
pretesto
che
nascondeva
il
ben
più
pregnante
interesse
economico
(saccheggio
di
oro,
schiavi,
spezie
ecc.),
ma
si
trattava
di
un
aspetto
determinante.
Testimonianza
immediata
è
proprio
il
diario
di
bordo
in
cui
Colombo
annotò
il
resoconto
della
sua
spedizione,
numerosissime
sono
le
riflessioni
di
stampo
religioso
e
teologico.
A
tal
proposito
sono
esemplificative
le
note
al
primo
incontro
con
gli
indigeni
verso
i
quali
propagandava
la
conversione
per
la
salvezza
delle
loro
anime
attraverso
l’educazione
all’amore
o
con
la
forza.
Oppure
altrettanto
indicativi
sono
i
molteplici
momenti
in
cui
vengono
descritti
i
ringraziamenti
e le
lodi
a
Dio
che
Colombo
compie
con
offerta
di
ceri,
la
preghiera
e la
meticolosa
attenzione
per
le
festività
liturgiche
giornaliere.
Ma è
proprio
con
il
fine
dell’esplorazione,
dichiarato
in
molteplici
pagine
del
diario,
che
Colombo
mostra
la
sua
personalità
da
uomo
del
Medioevo.
Subito
dopo
il
naufragio
della
Santa
Maria
affermò
che
intendeva
ritornare
con
un
secondo
viaggio
per
trovare
oro
e
spezie
in
quantità
tali
da
intraprendere
nel
giro
di
tre
anni
la
conquista
definitiva
della
Casa
Santa.
Voleva
dunque
finalizzare
tutto
il
guadagno
ottenuto
dall’impresa
per
finanziare
la
riconquista
di
Gerusalemme
e
realizzare
definitivamente
la
vittoria
di
Cristo
sulla
Terra.
Si
fanno
evidenti
quindi
le
radici
cristiane
e
medievali
del
suo
carattere
e
del
suo
modo
di
essere:
si
considerava
un
missionario
predestinato
a
diffondere
il
messaggio
di
Dio
tra
gli
abitanti
delle
terre
da
lui
scoperte
arrivando
quasi
a
circondarsi
di
un
alone
di
misticismo.
Per
questa
ragione
si
trovò
spesso
in
conflitto
con
le
autorità
scientifiche,
filosofiche
e
persino
religiose
quando
veniva
costretto
a
discutere
la
possibilità
dell’esistenza
di
altre
terre
ed
altri
uomini
oltre
quelli
che
si
pensava
fossero
i
confini
del
mondo.
Il
genovese
si
sentiva
ispirato
da
un
colloquio
personale
con
Dio
e da
un’incrollabile
fede
nel
suo
destino
di
redenzione
per
le
genti
d’oltremare.
Dunque
non
ha
torto
Todorov
quando
definisce
Colombo
un
ermeneuta
(Todorov,
2005,
p.
25),
il
genovese
con
il
suo
progetto
di
navigazione
voleva
confermare
le
sue
convinzioni,
per
questo
motivo
non
ha
“scoperto”
nulla
ma
ha
trovato
la
terra
dove
sapeva
che
avrebbe
dovuto
essere,
quasi
come
se
ne
avesse
avuto
una
conoscenza
a
priori.
Certo,
sarebbe
sbagliato
(e
quasi
caricaturale)
limitare
l’interpretazione
della
figura
di
Colombo,
da
molti
descritto
come
avventuriero
audace
e
spregiudicato,
a
umile
servo
dell’Onnipotente.
In
lui
sono
presenti
sia
l’anima
economica
dell’arricchimento
che
quella
mistica
della
tensione
spirituale,
l’equilibrio
tra
queste
due
componenti
è
molto
altalenante
ed
instabile
come
si
può
evincere
dalla
lettura
del
diario.
Questo
perché
il
cristianesimo
di
Colombo
non
è né
molto
elevato
né
rozzo
o
popolaresco,
egli
non
appartiene
pienamente
alla
mentalità
comune
della
Spagna
della
fine
del
quattrocento,
nella
quale
la
religiosità
era
fonte
di
conflitto
e di
fermento
sanguinario
contro
musulmani
ed
ebrei.
Non
sono
pochi
infatti
i
casi
in
cui
dimostrò
una
inaspettata
dolcezza
e
mitezza
nei
confronti
degli
indigeni,
ben
diversa
dalla
crudeltà
indiscriminata
che
avrebbero
dimostrato
i
conquistadores
alcuni
anni
dopo.
Inoltre
egli
si
sentiva
vero
e
proprio
strumento
mistico
della
Provvidenza.
La
sua
fede
solidissima
e la
personale
tensione
per
la
vittoria
di
Cristo
sul
mondo
erano
parte
integrante
della
sua
personalità
(Manselli,
1997,
p.
239).
Questo
aspetto
si
rese
evidente
nella
stesura
verso
la
fine
della
vita
del
Libro
de
las
profecias,
una
raccolta
di
passi
biblici
e
brani
tratti
dalle
opere
dei
padri
della
Chiesa
molto
simile
nell’impianto
strutturale
alle
opere
dei
maestri
medievali.
Ovviamente
il
bagaglio
biblico
risulta
essere
disordinato
e
disomogeneo
rispetto
alla
magnificenza
delle
opere
del
passato,
tipico
infatti
di
un
uomo
che
non
era
versato
in
studi
filosofici
e
teologici.
Ma
tale
opera
è
illuminante
nel
suo
ruolo
di
cifra
della
formazione
culturale
che
il
navigatore
possedeva
e
delle
idee
nelle
quali
credeva,
idee
che
si
dimostrano
essere
profondamente
legate
alla
concezione
medievale
della
religiosità
e
del
destino
personale
di
ogni
uomo.
Al
suo
ritorno
dalla
prima
spedizione,
con
il
bottino
della
scoperta
delle
Indie
Occidentali,
immediatamente
si
agitarono
le
bufere
con
il
Portogallo
che
accusò
Colombo
di
essere
un
cacciatore
di
frodo
all’interno
di
quello
che,
in
virtù
del
trattato
di
Alcáçovas,
era
considerato
territorio
portoghese
poiché
vicino
alla
sua
zona
d’influenza.
Eppure
gli
indiani
condotti
in
patria
da
Colombo
erano
ben
diversi
dai
neri
di
Guinea,
si
fece
allora
necessario
conoscere
a
pieno
l’area
scoperta
per
attuare
una
nuova
spartizione
territoriale
e
per
ridefinire
le
sfere
d’influenza
spagnola
e
portoghese.
La
soluzione
definitiva
si
ebbe
con
la
firma
del
trattato
di
Tordesillas
del
1494
che
imponeva
una
linea
di
demarcazione
a
370
leghe
ad
Ovest
delle
isole
di
Capo
Verde:
ogni
terra
scoperta
al
di
là
dei
rispettivi
limiti
doveva
essere
resa.
Questo
diede
piena
libertà
al
Portogallo
di
scoprire
e
colonizzare
l’immenso
e
ricchissimo
territorio
del
Brasile
(Diffie,
Winius,
1985,
p.
212).
In
seguito
Colombo
partecipò
ad
altre
due
spedizioni
seguendo
la
stessa
rotta
della
prima.
Queste
portarono
alla
graduale
scoperta
delle
coste
atlantiche
anche
se
sempre
in
piccole
porzioni,
limitandosi
in
genere
a
sbarcare
presso
le
isole
antistanti
la
costa.
Già
ai
tempi
del
secondo
viaggio
nell’opinione
comune
sorse
il
sospetto
che
quelle
isole
fossero
di
gran
lunga
lontane
dalle
Indie,
anche
perché
negli
stessi
anni
l’esploratore
veneziano
Caboto
scoprì
le
coste
dell’Atlantico
settentrionale
(Terranova,
Nuova
Scozia,
Labrador
e
Nuova
Inghilterra)
e il
navigatore
portoghese
Cabral,
a
causa
di
una
serie
di
deviazioni
forzate,
nell’aprile
del
1500
era
approdato
presso
le
coste
di
quello
che
poi
sarebbe
stato
chiamato
Brasile,
il
suo
scopo
infatti
era
quello
di
seguire
la
rotta
aperta
da
Vasco
da
Gama
e
raggiungere
ancora
una
volta
l’Oceano
Indiano.
Le
scoperte
del
Nuovo
Mondo
quindi
vennero
percepite
in
un
clima
di
delusione
generale.
L’America,
come
erano
state
chiamate
le
nuove
terre
in
seguito
ai
quattro
viaggi
di
Amerigo
Vespucci
e
alle
sue
opere
letterarie,
venne
considerata
solo
una
nuova
grande
barriera
posta
tra
Europa
ed
Asia,
tra
realtà
e
desiderio
(Parry,
1963,
p.
209).
I
portoghesi
continuarono
tassello
dopo
tassello
a
costruire
il
loro
impero
commerciale
nell’Indiano
soprattutto
grazie
allo
stimolo
fondamentale
di
re
Manuel.
Per
molto
tempo
le
nuove
scoperte
lungo
le
coste
americane
vennero
sostanzialmente
ignorate,
senza
approfondire
la
conoscenza
dell’entroterra.
Restarono
esclusivamente
degli
approdi
e
degli
scali
commerciali
all’interno
di
un
circuito
che
si
era
solo
ampliato,
ma
che
manteneva
come
meta
finale
dei
traffici
le
Indie,
quelle
vere.
Con
l’entusiasmo
della
recente
scoperta
un
po’
tutti
i
sovrani
sognavano
di
trovare
un
passaggio
in
direzione
Sud-Ovest,
la
via
segreta
ed
ambitissima
per
le
Indie.
Ferdinando
Magellano,
portoghese
di
nascita,
decise
di
mettersi
al
servizio
della
corona
di
Spagna
per
poter
realizzare
questa
impresa.
La
sua
idea
di
navigazione
partiva
necessariamente
dalle
scoperte
dei
predecessori,
egli
pensava
(a
piena
ragione)
che
veleggiando
lungo
la
costa
del
Brasile
si
potesse
trovare
un
passaggio
per
raggiungere
l’altro
oceano.
Inizialmente
raccolse
informazioni
dai
superstiti
della
drammatica
spedizione
di
Dìaz
de
Solis
che
nel
1514
era
partito
con
il
suo
stesso
intento.
Questi
gli
riferirono
che
dopo
l’estuario
del
Rio
de
la
Plata
la
costa
piegava
ad
occidente
spostando
tutta
la
regione
nella
zona
di
influenza
spagnola
secondo
quanto
sancito
dal
trattato
di
Tordesillas.
Per
questa
ragione
ritenne
inutile
proporre
la
sua
ipotesi
di
esplorazione
presso
la
corte
portoghese,
si
rivolse
direttamente
ai
sovrani
spagnoli
offrendosi
di
scoprire
a
loro
esclusivo
vantaggio
tutte
le
isole
situate
entro
la
linea
di
demarcazione
assegnata.
Ma
la
vera
meta
del
viaggio
di
Magellano
era
l’arcipelago
delle
Molucche,
proprietà
portoghesi
secondo
quando
deciso
a
Tordesillas
e
ufficializzate
anche
dalla
bolla
Praecelse
Devotionis
di
Papa
Leone
X
del
1514.
La
sua
quindi
era
quasi
una
sfida
all’autorità
papale
e
portoghese
che
non
a
caso
cercarono
con
ogni
mezzo
di
impedire
la
spedizione.
Nel
1519
Magellano
salpò
da
Siviglia
con
cinque
navi
cariche
di
merci.
Dopo
aver
attraversato
il
difficilissimo
stretto
che
avrebbe
preso
il
suo
nome,
l’esploratore
si
ritrovò
finalmente
nelle
acque
del
più
estremo
dei
mari.
La
navigazione
in
questo
oceano
fu
estenuante,
pur
non
essendo
funestata
da
tempeste
o
altri
inconvenienti
marittimi
(per
questo
motivo
Magellano
diede
il
nome
“Pacifico”
a
quel
mare)
procedette
per
tre
lunghi
mesi
alla
ricerca
di
venti
favorevoli
in
acque
quiete
ma
sconosciute.
La
situazione
si
fece
drammatica.
L’equipaggio,
giunto
allo
stremo
delle
forze
e
delle
provviste,
arrivò
addirittura
a
nutrirsi
dei
topi
che
abitavano
le
stive
delle
navi
o
addirittura
a
rosicchiare
il
cuoio
e la
pelle
degli
indumenti.
Lo
scopo
era
quello
di
evitare
i
portoghesi
e
questo
li
spinse
molto
più
a
nord
delle
Molucche
giungendo
presso
l’arcipelago
delle
Filippine
(1521).
In
questa
occasione,
sbarcato
a
terra
per
vendere
qualcuna
delle
merci
che
gli
erano
rimaste,
l’ammiraglio
si
trovò
coinvolto
in
una
guerra
locale
dove
lui
e
quaranta
dei
suoi
uomini
perdettero
la
vita.
In
seguito
alla
morte
dell’esploratore
prese
il
comando
il
suo
ufficiale
Sebastian
del
Cano
che
costeggiando
il
Borneo
raggiunse
infine
le
Molucche
facendo
tirare
un
respiro
di
sollievo
a
quello
che
era
rimasto
del
suo
equipaggio.
Dopo
aver
diviso
le
navi
a
disposizione,
attraversò
l’Oceano
Indiano
per
poi
raggiungere
il
Capo
di
Buona
Speranza
e
navigare
finalmente
in
acque
conosciute
fino
a
ritornare
al
porto
di
partenza
nel
settembre
del
1522:
solo
18
rividero
casa
dei
234
partiti.
Con
la
spedizione
di
Magellano
si
chiude
quella
fase
dell’espansione
europea
che
ancora
dimostra,
anche
se
con
tinte
molto
labili
e
sfumate,
delle
caratteristiche
medievali.
L’obiettivo
dell’esploratore
era
fin
da
principio
il
raggiungimento
delle
Molucche,
anche
all’insaputa
di
Carlo
V,
in
modo
tale
da
controllare
uno
snodo
fondamentale
all’interno
del
grande
bacino
di
scambio
della
via
delle
spezie;
quale
miglior
postazione
delle
isole
nel
cuore
dell’arcipelago
indonesiano?
Inoltre
è da
notare
come
l’America,
pur
essendo
esplorata
nella
sua
conformazione
costiera
ed
anche
oggetto
di
abbozzate
rappresentazioni
cartografiche
come
la
carta
di
Ribeiro
del
1529,
non
era
realmente
conosciuta
e
non
faceva
ancora
parte
in
maniera
determinante
dell’orizzonte
economico
europeo.
I
porti
e
gli
insediamenti
sulle
coste
infatti
venivano
sfruttati
come
semplice
scalo
per
fare
rifornimento
e
come
rapida
occasione
di
scambio
con
la
popolazione
locale.
La
meta
ultima
delle
rotte
che
si
percorrevano
e
che
addirittura
si
ricercavano
a
costo
della
guerra
rimaneva
sempre
l’Oriente.
Il
viaggio
di
Magellano
ignorava
quasi
completamente
il
continente
americano,
era
un
immenso
ostacolo
attraverso
il
quale
si
cercava
una
fessura,
una
fenditura
da
poter
percorrere
per
toccare
la
vera
destinazione,
cioè
l’Asia
dei
mercati,
degli
scambi
e
della
ricchezza.
Soltanto
negli
anni
venti
del
XVI
secolo
la
Spagna
accettò
con
rassegnazione
il
dominio
portoghese
in
Oriente,
si
rivolse
dunque
a
ciò
che
fino
ad
allora
era
stato
sostanzialmente
trascurato
riscoprendone
il
formidabile
valore.
Ecco
allora
che
si
avviò
una
nuova
fase
dell’espansione
europea,
quella
con
il
vero
drammatico
volto
della
conquista.
Se
gli
anni
che
corrono
tra
1500
e
1520
possono
essere
definiti
come
l’età
aurea
degli
esploratori,
quelli
che
vanno
dal
1520
al
1550
sono
gli
anni
d’oro
dei
conquistadores.
Cambiando
i
protagonisti
delle
vicende
cambiano
anche
i
luoghi:
è la
volta
dell’America.
Delle
Indie
Occidentali
solo
le
isole
erano
state
effettivamente
colonizzate
con
piccoli
villaggi
per
lo
più
agricoli
i
cui
coloni
in
genere
erano
ex
soldati
dall’indole
poco
pacifica.
Erano
uomini
d’azione,
pronti
a
tutto
pur
di
ottenere
ricchezza
facile,
tale
da
eviragli
per
sempre
il
lavoro
nei
campi.
La
stagione
dei
conquistadores
trovò
la
propria
acmé
nella
conquista
del
Messico
da
parte
di
Hernan
Cortes,
la
sua
entrada
nel
cuore
dell’impero
azteco
è
l’episodio
meglio
documentato
di
tutte
le
spedizioni
spagnole
in
Sud
America.
L’armata
conquistatrice
attuò
un’opera
di
distruzione
totale
e si
stanziò
nel
territorio
appena
preso
come
milizia
“feudale”
tramite
il
sistema
dell’encomienda.
Con
Cortes
si
affermarono
in
maniera
evidente
quei
procedimenti
di
conquista
che
erano
alla
base
dell’approccio
dei
conquistadores
agli
imperi
del
continente
americano
e
per
certi
aspetti
caratterizzarono
il
seguito
dell’espansione
europea
nel
mondo.
Si
sviluppò
infatti
una
vera
e
propria
metodologia
della
conquista
che
prevedeva
lo
sfruttamento
dei
dissensi
interni
tra
le
popolazioni
locali
e la
distruzione
sistematica
di
ogni
forma
della
cultura
indigena;
gli
uomini
al
seguito
di
Cortes
infatti
realizzarono
roghi
delle
opere
letterarie
e
rituali
azteche
per
cancellare
la
religione,
distrussero
templi
e
monumenti
per
obliare
le
loro
vestigia
di
grandezza.
Un’altra
costante
dell’espansione
europea
in
America
fu
l’affermazione
violenta
del
cristianesimo
che
con
la
sua
pretesa
di
universalismo
mostrò
il
volto
sanguinario
di
intolleranza
e
disprezzo
dell’«altro».
Infatti
venne
sfruttato
dai
conquistadores
come
pretesto
che
rese
la
conquista
giusta
e
voluta
da
Dio.
Come
acutamente
scrive
Todorov,
il
Dio
cristiano
non
è
una
divinità
che
si
può
tranquillamente
sommare
ad
altre,
è
unico
in
maniera
esclusiva
e
come
tale
non
può
accettare
rivali.
Dunque
è
proprio
in
conseguenza
di
questa
ottica
che
l’esclusivismo
divenne
intolleranza
e
violenza.
Bisogna
ricordare
però
che
tale
concezione
del
cristianesimo
veniva
applicata
solo
in
determinate
circostanze,
quando
cioè
v’erano
di
mezzo
necessità
contingenti:
gli
spagnoli
ascoltavano
i
consigli
divini
solo
quando
coincidevano
con
i
suggerimenti
dei
loro
informatori
e
con
i
loro
interessi
(Todorov,
2005,
p.
131).
È in
relazione
al
loro
utile
che
sfruttavano
fino
allo
strenuo
gli
indios
all’interno
delle
miniere,
si
macchiavano
di
tremendi
maltrattamenti
che
in
moltissimi
casi
conducevano
alla
morte.
Gli
spagnoli
di
Cortes
tinsero
di
sangue
la
loro
presenza
in
America,
attuando
lo
sterminio
sistematico
della
popolazione
indigena
non
solo
attraverso
il
lavoro
e
l’importazione
involontaria
di
malattie
a
cui
gli
indios
erano
particolarmente
vulnerabili
ma
anche
attraverso
il
massacro
diretto
perpetuato
tramite
crudeltà
inaudite
e
fini
a se
stesse.
Tra
i
moventi
principali
che
portarono
a
queste
atrocità
furono
l’avidità
e la
bramosia
dell’oro;
ecco
la
caratteristica
veramente
“moderna”
che
avrebbe
costituito
una
costante
della
mentalità
europea
nei
periodi
successivi
dell’espansione
non
solo
in
America
ma
nel
mondo.
Quello
che
è
stato
definito
Nuovo
Colonialismo
con
i
suoi
nuovi
protagonisti
(Olanda,
Francia,
Inghilterra)
dimostrò
infatti
nell’approccio
all’«altro»
ed
alla
terra
appena
conquistata
non
tanto
etiche
o
mentalità
nuove
ma
una
nuova
gerarchia
di
valori:
non
è
più
soltanto
l’avidità
di
ricchezza
in
sé
che
colpisce
ma
la
subordinazione
di
qualsiasi
altro
valore
ad
essa
(Todorov,
2005,
p.
173).
Ovviamente
tale
cupidigia
non
può
spiegare
da
sola
la
portata
del
genocidio
compiuto
nelle
Americhe,
esso
deve
essere
ricondotto
in
parte
anche
alla
lontananza
degli
spagnoli
dal
centro
forte
dell’autorità
regia.
In
un
mondo
considerato
lontanissimo
dalla
civiltà
tutte
le
convenzioni
sociali
che
ne
sono
garante
vennero
meno,
la
distanza
dalla
legislazione
e da
ogni
forma
di
controllo
autoritario
(sia
politico
che
religioso)
fece
cedere
persino
le
più
intime
leggi
di
autocontrollo
secondo
la
quale
l’«altro»
non
è
più
soltanto
mero
oggetto
di
cui
poter
disporre
liberamente
ma
limitatamente
al
singolo
(come
nello
schiavismo)
ma è
ente
a
cui
viene
riconosciuta
una
soggettività
di
grado
inferiore,
mezzo
quindi
per
appropriarsi
di
oggetti
in
quantità
praticamente
illimitata
sfruttando
le
risorse
locali
(Todorov,
2005,
p.
176).
Questa
concezione,
che
sarebbe
sembrata
del
tutto
estranea
a
Colombo,
divenne
nel
giro
di
breve
tempo
vera
e
propria
metodologia
della
conquista.
Francisco
Pizarro
nel
1533
seguì
alla
lettera
la
lezione
del
maestro
Cortes
sottomettendo
l’immenso
impero
andino
degli
Inca
nello
spazio
di
un
pomeriggio
(Parry,
1963,
p.
229).
Egli
realizzò
appieno
la
figura
del
colonizzatore
che
sfrutta
biecamente
le
risorse
locali
per
i
propri
interessi,
sottomette
brutalmente
il
territorio
e,
dopo
averlo
spolpato
ogni
ricchezza,
lo
incastra
nel
sistema
amministrativo
della
madrepatria.
Nonostante
la
fragilità
e
l’instabilità
dell’organizzazione
territoriale
dei
conquistadores
spagnoli,
l’esperienza
americana
aprì
effettivamente
all’Europa
le
porte
della
modernità.
Il
Nuovo
Mondo
smise
di
essere
una
barriera
che
bloccava
il
cammino
verso
l’Asia
ma
venne
compreso
nella
sua
complessità
e
soprattutto
venne
riconosciuto
come
straordinaria
possibilità
di
ricchezza.
Le
rotte
commerciali
si
rivolsero
in
America
come
ricco
bacino
di
estrazione
di
risorse,
finalmente
si
inquadrarono
con
un
ruolo
fisso
e
universalmente
riconosciuto
all’interno
di
un
economia
che
solo
ora
era
divenuta
pienamente
mondiale.
Il
Medioevo
quindi
gradualmente
scomparve
dall’orizzonte
mentale
europeo,
lasciando
il
posto
all’alba
sfumata
del
Moderno.
L’età
delle
grandi
scoperte
geografiche
ha
rappresentato
una
fase
di
transizione
in
cui
gli
europei
con
lentezza
e
gradualità
trasformarono
radicalmente
il
loro
modo
di
pensare
e
presero
piena
coscienza
per
la
prima
volta
delle
dimensioni
e
della
complessità
del
mondo.
Questa
comprensione
non
è
stata
così
automatica
ed
immediata
come
anche
è
stato
scritto.
Al
contrario,
come
abbiamo
visto,
è il
frutto
di
un
lungo
cammino,
impreziosito
dalla
scoperta
di
nuove
terre
ma
anche
imbrattato
di
molto
sangue.
Non
è
sbagliato
allora
chiedersi
se
l’espansione
europea
dei
secoli
XV e
XVI
rappresenti
un
nuovo
inizio,
il
sorgere
del
sole
della
modernità
oppure
si
tratti
invece
della
nuova
fase
di
un
processo
di
lunga
durata
che
trova
le
sue
radici
nel
Medioevo
e
che
ha
solo
cambiato
il
cast
degli
attori,
provenienti
questa
volta
da
Portogallo
e
Castiglia.
La
visione
del
mondo
e le
conoscenze
degli
uomini
del
quattrocento
erano
costituite
da
una
mistura
di
racconti
fantastici
ripresi
dai
viaggiatori
e
dagli
esploratori
del
XIII
e
XIV
secolo
e le
teorie
geografiche
dell’antichità
classica
spesso
filtrate
dal
setaccio
dogmatico
del
Cristianesimo.
Il
supporto
intellettuale
dell’impianto
culturale
rinascimentale
sembrò
limitarsi
esclusivamente
a
fare
da
vessillo
guida
per
una
serie
di
obiettivi
ed
ambizioni
che
però
erano
state
stabilite
per
altre
ragioni
divenendo
molto
spesso
fonte
di
confusione
(Phillips,
1990,
p.
237).
Ne è
un
esempio
la
contraddizione
che
si
venne
a
stabilire
tra
l’auctoritas
ritenuta
indiscutibile
dei
classici
e
l’evidenza
dei
fatti
risultanti
dalle
esplorazioni:
la
Geografia
di
Tolomeo
riteneva
impossibile
la
circumnavigazione
dell’Africa
che
di
fatto
era
stata
realizzata.
A
questo
bisogna
aggiungere
il
fascino
durevole
suscitato
dal
secolare
spazio
dei
traffici
che
da
sempre
avevano
luogo
in
Oriente.
L’Asia
infatti
era
l’orizzonte
commerciale
per
eccellenza,
la
meta
di
ogni
rotta
ed
il
sogno
di
ogni
commerciante
o
navigatore
desideroso
di
arricchirsi.
La
pervasiva
leggenda
di
Prete
Gianni,
che
aveva
trovato
le
sue
prime
attestazioni
fin
nel
cuore
del
Medioevo,
contribuì
fortemente
ad
accrescere
questo
mito.
Infatti
uno
tra
i
più
importanti
obiettivi
che
spingevano
gli
esploratori
a
prendere
la
via
del
mare
era
quello
di
raggiungere
le
Indie
ed
individuare
quel
lussureggiante
regno
cristiano.
Possiamo
concludere
quindi
dicendo
che
per
il
suo
bagaglio
culturale,
per
l’insieme
di
esperienze,
conoscenze,
tecniche
e
sensibilità
l’espansione
europea
del
XV
secolo
costituì
in
realtà
la
nuova
tappa
di
un
percorso
di
lunga
durata
che
affondava
le
sue
radici
nell’età
medievale.
L’espansionismo
europeo
dalla
fine
del
XVI
e
l’inizio
del
XVII
secolo
rappresentava
infatti
un
fenomeno
nuovo
e
per
molti
aspetti
diverso;
non
solo
era
animato
da
nuovi
protagonisti
(Inghilterra,
Francia
e
Olanda),
ma
si
era
realizzato
con
metodologie
del
tutto
differenti,
i
cui
primordi
si
possono
riscontrare
solo
nella
conquista
dell’America
da
parte
dei
conquistadores.
Questa
nuova
forma
di
espansione,
proposta
dal
modello
di
riferimento
olandese,
si
fondava
essenzialmente
sulla
creazione
di
imperi
commerciali
sostenuti
soprattutto
dalla
supremazia
militare
sul
mare
e
dal
mantenimento
di
basi
strategiche
per
il
commercio.
A
conferma
di
quanto
asserito
finora,
con
l’affermarsi
del
nuovo
colonialismo
si
spostò
anche
l’orizzonte
del
mito,
del
magico
e
del
fantastico.
Se
fino
ai
primi
decenni
del
cinquecento
era
stato
l’Oriente
ad
essere
depositario
di
meraviglie
e
creature
mostruose,
dal
seicento
in
poi
fu
il
Nuovo
Mondo
ad
essere
la
terra
della
ricchezza
e,
di
conseguenza,
della
leggenda.
Infatti
cominciarono
a
diffondersi
numerosi
racconti
e
miti,
come
El
Dorado
o la
Fonte
della
Giovinezza,
che
trovarono
ambientazione
perfetta
nella
profondità
della
giungla
o
tra
i
ruderi
delle
immense
città
di
pietra
del
Sud
America
(Phillips,
1990,
p.
256).
Dunque
può
risultare
fuorviante
definire
le
scoperte
del
quattrocento
come
un
confine
rigido
di
periodizzazione
che
separa
il
medioevo
dall’età
moderna.
Nei
momenti
di
transizione
come
questo
infatti
ci
si
trova
di
fronte
ad
una
tela
dai
tratti
imprecisi
di
cui
si è
costretti
a
scrutare
le
sfumature.
La
modernità
infatti
ebbe
inizio
soltanto
quando
gli
europei
mostrarono
un’attitudine
ed
una
mentalità
moderne
verso
il
mondo
che
non
comprendeva
solo
l’Asia
ma
che
si
era
aperto
incommensurabilmente
verso
l’America.
Solo
a
seguito
di
ciò
compresero
la
vera
portata
delle
loro
scoperte,
delle
possibilità
di
ricchezza
e di
potere
che
potevano
ottenere
dal
controllo
di
vasti
e
floridi
territori
soggiogandone
la
popolazione
locale
e
realizzando
di
conseguenza
un
assoluto
predominio
militare
e
commerciale.
Le
scoperte
geografiche
del
XV e
degli
inizi
del
XVI
secolo
erano
avvenute
infatti
in
relazione
ad
una
mentalità
che
per
molti
aspetti
era
ancora
radicata
nel
Medioevo
negli
stimoli,
nelle
conoscenze
e
nelle
finalità
contingenti.
È la
conquista
dunque
il
segno
tangibile
dell’età
moderna,
una
conquista
che
per
dimensione
e
profondità
spalancò
le
porte
del
mondo
all’Europa.