N. 76 - Aprile 2014
(CVII)
NUOVI MARI, VECCHI ORIZZONTI
L’ETA’ DELLE SCOPERTE GEOGRAFICHE TRA MEDIOEVO E MODERNITà - Parte I
di Gabriele Passabì
Prima
che
l'Europa
divenisse
'moderna'
un
altro
mondo
era
l'avanguardia
culturale
ed
economica,
considerato
patria
di
regni
dalle
ricchezze
inimmaginabili,
crogiolo
vasto
e
profondo
di
popoli,
scambi
e
conoscenze:
l'Oriente.
L'Asia
vantava
alcune
delle
città
più
grandi
del
mondo,
gli
studi
più
avanzati
in
campo
astronomico,
matematico
e
filosofico.
Nel
cuore
del
Medioevo
suscitava
sentimenti
di
attrazione
irresistibile
per
gli
europei,
era
non
soltanto
meta
prediletta
e
redditizia
delle
grandi
direttrici
commerciali
ma
anche
vera
e
propria
fonte
di
storie
fantastiche
legate
alla
sua
fama
di
eccezionale
ricchezza.
In
poche
parole,
era
ancora
vista
ed
immaginata
come
Arabia
felix
(Gordon,
2009,
p.
XIII).
Secondo
la
grande
storiografia
questa
visione
immaginifica
e
meravigliosa
dell'Oriente
sembra
infrangersi
nel
momento
stesso
in
cui
l'Europa
scoprì
se
stessa,
la
sua
potenzialità
e la
sua
secolare
grandezza.
Se
con
l’Umanesimo
in
Europa
vengono
rivendicate
la
dignità
umana
e la
vorace
curiositas
scientifica,
è
con
l'epoca
delle
grandi
scoperte
geografiche
che
l’uomo
moderno
diventa
navigatore
e
conquistatore,
si
apre
al
mondo
e lo
conquista
arrivando
addirittura
a
scoprire
ciò
che
non
era
contemplato
dalle
carte.
Ma
osservando
più
da
vicino
proprio
questo
fascio
di
secoli
si
può
notare
come
le
premesse
e le
motivazioni
che
spinsero
gli
europei
all'espansione
oltremare
non
sono
tanto
legate
alla
consapevolezza
della
propria
superiorità
razionale
o ad
un
afflato
spirituale
teso
alla
conoscenza.
L'uomo
europeo
alle
soglie
della
modernità
ha
ancora
radici
saldamente
innervate
nel
passato,
nel
mondo
medievale.
L'epoca
delle
grandi
scoperte
geografiche
trovò
propulsione
attraverso
stimoli
che
appartenevano
profondamente
alla
mentalità
medievale
nella
cultura,
nell'economia,
nell'immaginario
ed
anche
per
certi
aspetti
nelle
conoscenze
teoriche
e
tecniche.
Per
questo
motivo
l'Asia
almeno
fino
ai
primi
decenni
del XVI
secolo,
nonostante
la
scoperta
del
Nuovo
Mondo,
restava
ancora
l'obiettivo
da
raggiungere
e
allo
stesso
tempo
il
sogno
da
realizzare.
Per
mezzo
di
questa
lente
risulta
quindi
particolarmente
interessante
cercare
di
indagare
le
“basi
medievali”
dell'espansione
europea
tra
'400
e
'500;
significa
in
realtà
provare
a
riconoscere
il
germe
identitario
dell'uomo
moderno,
le
radici
di
quella
che
ancora
oggi
chiamiamo
modernità.
Dal
1450
al
1550
gli
europei
“impararono
a
conoscere
il
mondo
nella
sua
totalità
ed a
considerare
tutti
i
mari
come
un
mare
unico”
(Parry,
1963,
p.
9).
In
poche
parole,
gli
spagnoli
e i
portoghesi
che
furono
i
protagonisti
di
quello
che
un
po'
grossolanamente
è
stato
definito
Primo
Colonialismo,
riuscirono
a
tracciare
un
rudimentale
profilo
del
mondo
in
quella
che
si
intravedeva
potesse
essere
la
sua
interezza.
Eppure,
non
solo
le
tendenze
intellettuali
cinquecentesche
erano
fortemente
conservatrici
ma
anche
davanti
all'evidenza
dei
fatti,
con
di
fronte
agli
occhi
le
prove
evidenti
circa
l'esistenza
di
terre
sconosciute
che
i
navigatori
(soprattutto
inconsapevolmente)
andavano
scoprendo,
i
dottori
dell'epoca
erano
riluttanti
a
trarne
analogie
utili
alla
ricerca.
L'insegnamento
così
come
la
conoscenza
erano
saldamente
imperniati
attorno
i
principi
scolastici
e si
basavano
su
autorità
assolutamente
insindacabili.
Se
in
ambito
accademico
la
situazione
era
rimasta
pressoché
invariata
rispetto
all'epoca
precedente,
lo
stesso
si
può
dire
per
la
mentalità
popolare
comune,
soprattutto
tra
marinai
e
navigatori,
celebrati
a
lungo
come
paradigma
del
moderno
spirito
europeo.
La
gente
di
mare
tra
quattrocento
e
cinquecento
era
infatti
particolarmente
scettica
nei
confronti
delle
teorie
scientifiche
ed
era
sempre
fedele
alla
secolare
esperienza
pratica
e
alla
consuetudine
(Parry,
1963,
p.
12).
Già
dalla
fine
del
trecento
erano
state
realizzate
delle
buone
carte
nautiche
che
segnavano
accuratamente
le
direzioni
di
rotta
per
le
vie
mercantili
tipiche
dell'orizzonte
commerciale
del
Medioevo
(se
non
addirittura
dell'età
tardo-antica),
ossia
il
Mediterraneo,
il
Mar
Nero
e le
coste
dell'Europa
Occidentale.
Tali
strumenti
continuavano
ad
essere
usati
poiché
utili
per
i
tragitti
relativamente
brevi
del
traffico
abituale
che
si
svolgeva
lungo
porti
sicuri
e
conosciuti.
Unica
via
per
avere
un'idea
dei
grandi
percorsi
oceanici
e
del
mondo
extra
europeo
poteva
essere
quella
di
consultare
alcuni
tra
i
trattati
accademici
più
diffusi
o i
racconti
di
viaggi.
Entrambe
queste
forme
di
letteratura
consideravano
nell'estensione
del
loro
orizzonte
geografico
il
mondo
asiatico
e
sommariamente
l'Africa,
in
quella
parte
settentrionale
che
era
coinvolta
nei
traffici
mediterranei.
Le
fonti
che
avevano
maggiore
influenza
nella
mentalità
e
nell'immaginario
comuni
erano
i
libri
che
trattavano
dei
viaggi
affrontati
da
esploratori
autentici
o,
come
molto
spesso
accadeva,
fantastici.
La
letteratura
araba
era
particolarmente
ricca
di
opere
di
questo
tipo,
basti
pensare
ai
dettagliatissimi
racconti
dell'esploratore
Ibn
Battuta
o
alle
innumerevoli
relazioni
di
viaggi
scritte
tra
'200
e
'300.
Tra
i
racconti
di
viaggio
che
erano
parte
del
background
culturale
dell'epoca
quello
che
ha
avuto
maggiore
influenza
sulle
conoscenze
europee
dell'Asia
è
sicuramente
Il
Milione
di
Marco
Polo.
Si
tratta
del
racconto
del
viaggio
e
delle
esperienze
vissute
dal
mercante
veneziano
nelle
terre
più
estreme
del
continente
asiatico,
è
un'opera
ricchissima
di
dettagli
anche
abbastanza
affidabili
riguardo
la
vita,
gli
usi
ed i
costumi
della
popolazione
orientale.
L'opera
di
Marco
Polo
è
quindi
un
documento
di
straordinaria
importanza
non
soltanto
per
il
suo
carattere
di
sobrietà
ma
soprattutto
poiché
è
uno
scritto
sgombro
da
ogni
elemento
fantastico
o
grottesco,
prerogative
che
invece
erano
tipiche
delle
contemporanee
narrazioni
di
viaggi
fantastici.
Sull'onda
di
Marco
Polo
seguirono
numerose
altre
opere
come
ad
esempio
il
libro
di
viaggi
di
Odorico
da
Pordenone
che
descrive
fantasiosamnte
i
costumi
cinesi
e
soprattutto
le
relazioni
del
viaggiatore
inglese
John
Mandeville.
Queste
ultime
infatti
furono
causa
di
durature
suggestioni
per
la
mentalità
del
tempo
tanto
da
essere
tradotte
in
numerose
lingue.
Il
trattato
ha
l'obiettivo
di
descrivere
le
cose
più
sorprendenti
e
notabili
che
si
trovano
al
mondo
ed è
ricchissimo
di
dettagli
pittoreschi,
fantastici
e
assolutamente
immaginari
riguardo
terre
e
popoli
lontani.
Questa
letteratura,
nonostante
il
suo
pesante
carico
di
immaginazione,
ha
avuto
un’influenza
sostanziale
sugli
europei
addirittura
fino
ai
primi
anni
del
cinquecento,
essi
infatti
erano
propensi
a
credere
agli
scritti
di
un
testimone
oculare
come
Marco
Polo
con
la
stessa
intensità
con
cui
confidavano
nella
veridicità
delle
storie
di
Mandeville
che
non
aveva
mai
raggiunto
effettivamente
i
luoghi
di
cui
scrive.
Un
altro
elemento
fondamentale
della
formazione
culturale
europea
era
il
corpus
delle
opere
di
tradizione
scolastica
e
quelle
dei
sapienti
antichi
tradotti
in
genere
dall'arabo.
Tra
queste
particolarmente
diffuse
erano
le
mappae
mundi,
rappresentazioni
geografiche
del
mondo
nelle
quali
simmetria
e
ortodossia
religiosa
costituivano
i
principi.
I
continenti
erano
disposti
in
maniera
simmetrica
rispetto
al
centro
che
si
identificava
con
Gerusalemme,
ogni
carta
era
quindi
una
vera
e
propria
miniera
di
erudizione
biblica
ed
aristotelismo.
Nella
medesima
impronta
veniva
interpretata
anche
la
Geografia
di
Tolomeo
(II
secolo
d.C.).
Introdotta
nel
mondo
latino
solo
nel
1406,
ebbe
una
grandissima
diffusione
e
influenzò
notevolmente
la
cartografia
e di
conseguenza
anche
la
concezione
dell'orizzonte
geografico.
Non
a
caso
restò
almeno
fino
al
XVI
secolo
il
modello
della
tipica
rappresentazione
accademica
della
Terra,
come
tale
prevedeva
solo
l'Europa
e le
parti
conosciute
dell'Asia
e
dell'Africa
mentre
alle
estremità
orientali
ed
occidentali
erano
segnate
delle
misteriose
quanto
generalmente
ignorate
terrae
incognitae.
La
convinzione
di
assoluta
scientificità
della
Geografia
tolemaica
e la
sua
duratura
influenza
dipendevano
dal
fatto
che
la
mentalità
comune
riconosceva
una
superiorità
irraggiungibile
agli
antichi
in
ogni
campo
del
sapere
umano,
fatta
eccezione
ovviamente
per
la
religione.
Per
questo
motivo
gli
studiosi
europei
già
del
primo
quattrocento
non
avevano
criteri
validi
per
confutare
l'opera
di
Tolomeo
che
per
quasi
due
secoli
fu
la
fonte
principale
di
tutto
il
sapere
geografico.
Ogni
forma
di
rappresentazione
geografica
del
mondo
quattrocentesco,
sia
accademica
che
tecnico-mercantile,
non
celava
il
fatto
che
il
polo
d'attrazione
più
forte
fosse
l'Asia,
anche
dopo
la
scoperta
del
nuovo
continente.
L'Oriente
conosciuto
era
meta
preferita
dei
traffici
commerciali
di
vasta
portata
ma
erano
soprattutto
le
zone
più
remote
ed
estreme
a
infiammare
i
desideri
e la
fantasia.
Si
credeva
fossero
la
sede
di
animali
e
creature
meravigliose,
di
popolazioni
ai
limiti
dell'umano,
e di
comunità
cristiane
simili
ad
oasi
lussureggianti.
Infatti,
secondo
la
leggenda
esisteva
un
ricchissimo
regno
cristiano
fondato
dal
martire
Tommaso,
un
predicatore
che
aveva
compiuto
la
sua
missione
nel
cuore
dell'Asia.
Tale
mito
era
riportato
su
un
documento
che
ebbe
una
vastità
di
diffusione
straordinaria
nel
Medioevo
così
come
nei
primi
secoli
d'Età
moderna:
la
lettera
di
Prete
Gianni.
Questo
scritto
giunse
per
la
prima
volta
in
Occidente
nel
1165
grazie
all'imperatore
bizantino
Manuele
I
Comneno.
Il
mittente
era
un
certo
presbitero
Giovanni.
Egli
si
presentava
nella
lettera
come
governatore
delle
“Tre
Indie”
che
si
estendevano
dalla
Torre
di
Babele
fino
all'orizzonte,
era
sovrano
di
un
regno
cristiano
dalle
ricchezze
strabilianti
tanto
che
il
palazzo
dove
risiedeva
era
costruito
con
gemme
incastonate
nell'oro.
Dalla
diffusione
di
questo
documento
in
molteplici
versioni
e
lingue
iniziò
il
duraturo
quanto
irriducibile
fenomeno
del
tentare
di
raggiungere
tale
regno
e
consegnare
a
Prete
Gianni
in
persona
delle
lettere
con
le
quali
gli
si
proponeva
un'alleanza
per
il
trionfo
del
Cristianesimo
contro
gli
infedeli
e
realizzare
finalmente
la
Gerusalemme
terrestre
(Phillips,
1990,
p.
61).
Possiamo
notare
quindi
come
l'immaginario
geografico
medievale
rimase
saldo
anche
nella
mente
degli
uomini
moderni
che
proprio
per
questa
ragione,
nonostante
la
vastità
del
mondo
cominciasse
a
schiudersi
davanti
ai
loro
occhi,
mantennero
come
fine
il
raggiungimento
di
quelle
lussureggianti
terre
che
la
mentalità
comune
e il
fervore
religioso
facevano
individuare
in
Asia.
Ovviamente
l'epoca
delle
grandi
scoperte
è
animata
anche
da
straordinari
avanzamenti
rispetto
ai
tempi
appena
trascorsi,
soprattutto
in
ambito
tecnico
e
nautico.
Sono
evidenti
i
progressi
nell'ambito
della
costruzione
navale
e
nel
campo
della
tecnica
di
navigazione
che
ora
riusciva
a
sfruttare
in
maniera
più
accorta
correnti
e
venti
specialmente
nelle
zone
inesplorate.
Più
di
altro
i
miglioramenti
nei
cantieri
navali
permisero
ai
navigatori
europei
di
raggiungere
terre
sconosciute;
basti
pensare
all'innovazione
rappresentata
dalla
caravella,
nave
rapida
e
leggera
che
necessitava
solo
di
un
piccolo
equipaggio
per
essere
governata
e
quindi
adatta
all'esplorazione.
Alla
luce
di
questo
quadro
è
necessario
dunque
chiedersi
quali
fossero
i
moventi
dell'espansione
europea
ad
opera
di
spagnoli
e
portoghesi,
quali
stimoli
spinsero
navigatori
e
sovrani
a
tentare
di
salpare
alla
volta
di
acque
sconosciute.
John
Parry
nella
sua
opera
Le
grandi
scoperte
geografiche
individua
fondamentalmente
due
cause
principali:
il
desiderio
di
acquisire
maggiori
ricchezze
e lo
zelo
religioso.
Fin
dalla
fine
del
quattrocento
la
piccola
nobiltà
era
costretta
a
impossessarsi
di
terre
fuori
dall'Europa,
in
luoghi
disabitati
o
dove
la
popolazione
poteva
tranquillamente
essere
sottomessa.
Ciò
è
dovuto
al
fatto
che
in
patria
il
potere
legale
del
sovrano
si
faceva
sempre
più
stabile
parallelamente
alla
formazione
di
una
entità
statale
forte.
Inoltre
il
commercio
nel
Mediterraneo
era
quasi
completamente
monopolizzato
dai
mercanti
italiani,
per
cui
spagnoli
e
portoghesi
erano
costretti
a
cercare
nuovi
mercati
per
i
prodotti
più
richiesti
del
tempo
(pesce,
oro,
avorio
e
spezie)
arrivando
ad
avventurarsi
nelle
pericolose
acque
dell'Atlantico
(Parry,
1963.
p.
33).
La
devozione
religiosa
è
un'altra
delle
condizioni
che
spronarono
i
navigatori
iberici
a
prendere
il
largo.
La
devozione
religiosa
di
esploratori
e
conquistadores
aveva
assunto
aspetti
di
rigida
ortodossia
e
spirito
pratico.
Di
conseguenza
si
delinearono
due
principali
direttrici
d'azione
che
costituirono
una
costante
dell'approccio
europeo
alle
nuove
terre
in
Asia,
Africa
e
America:
la
conversione
dei
miscredenti
attraverso
la
predicazione
oppure
l'affermazione
violenta
del
cristianesimo.
La
prima
via
richiedeva
grandi
sforzi,
molta
pazienza
e
prospettava
poche
possibilità
di
guadagno,
la
seconda
al
contrario
era
tanto
sbrigativa
quanto
redditizia,
poiché
la
volontà
di
Dio
diveniva
giustificazione
perfetta
per
il
saccheggio
e lo
sterminio.
Proprio
per
queste
caratteristiche
si è
pensato
che
le
prime
conquiste
europee
avessero
per
base
i
motivi
tradizionali
della
crociata
ma
in
realtà
si
tratta
di
fenomeni
ben
diversi
che
nascono
da
condizioni
storiche
differenti.
Eppure
non
si
può
negare
che
gli
spagnoli
verso
la
fine
del
XV
secolo
ancora
indossavano
il
mantello
crociato
trovandosi
nel
cuore
della
loro
guerra
santa
locale,
quella
della
Reconquista
ai
mori
del
territorio
iberico
che
si
sarebbe
conclusa
solo
nel
1492
con
la
presa
di
Granada.
Sia
in
Portogallo
che
in
Castiglia
dunque
l'idea
della
crociata
aveva
ancora
il
potere
di
accendere
il
fervore
e
l'immaginario
degli
uomini,
specialmente
nei
nobili
e
negli
spiriti
avventurosi.
Questa
mentalità
nei
suoi
alti
e
bassi
e
nelle
sue
trasformazioni
strutturali
restò
infatti
un
substrato
culturale
importante
in
una
terra
che
da
sempre
aveva
vissuto
con
un'altra
civiltà
la
quale
in
un
modo
o
nell'altro
ne
aveva
influenzato
la
lingua
e i
costumi.
Possiamo
notare
quindi
come
il
bagaglio
culturale
dell'Europa
alle
soglie
della
sua
espansione
oltreoceano,
nonostante
le
trasformazioni,
le
innovazioni
nella
tecnica
e
negli
strumenti
e
per
certi
aspetti
le
nuove
necessità,
abbia
profonde
radici
innervate
nella
mentalità,
nella
cultura
e
nell'immaginario
medievale.
Spagnoli
e
portoghesi
non
sono
uomini
nuovi,
vogliosi
di
afferrare
il
futuro
ma
figli
del
loro
tempo
e
che
di
esso
portano
le
strutture
mentali
così
come
i
desideri,
le
pulsioni
e
soprattutto
gli
orizzonti
geografici.
Tradizionalmente
l'uomo
che
ha
intrapreso
per
primo
l'impresa
dell'espansione
per
mare
con
lo
scopo
di
scoprire
nuove
terre
fu
il
sovrano
portoghese
Enrico
di
Aviz,
il
Navigatore.
Egli
infatti
patrocinò
moltissime
spedizioni
che
permisero
la
scoperta
e
l'esplorazione
della
costa
occidentale
dell'Africa.
Nel
1434
Gil
Eanes
superò
capo
Bojador
che
era
considerato
a
quell'epoca
il
punto
più
meridionale
conosciuto
in
Europa,
nel
1444
Dinis
Dias
raggiunse
la
foce
del
fiume
Senegal
e
Capo
Verde
e
nel
1455
Alvise
Ca'
da
Mosto
sbarcò
presso
le
isole
di
Capo
Verde.
Tra
il
1430
e il
1460
i
portoghesi
realizzarono
dei
successi
talmente
rapidi
e
sorprendenti
da
aver
suscitato
negli
storici
il
pensiero
che
tale
espansione
fosse
un
progetto
razionale
preordinato
il
cui
regista
era
stato
proprio
Enrico.
Per
questa
ragione
al
re
di
casa
Aviz
gli
è
stata
attribuita
nel
corso
del
tempo
una
cultura
di
ampio
respiro
umanistico-rinascimentale,
gli
sono
stati
riconosciuti
i
meriti
di
essere
stato
un
sovrano
erudito
ed
illuminato,
sempre
circondato
da
uomini
di
scienza
dei
quali
seguiva
consigli
ed
aspirazioni.
Sempre
come
espressione
della
sua
volontà
quindi
si
sono
interpretate
le
principali
innovazioni
tecniche
in
ambito
nautico
e
cartografico.
Ad
Enrico
infatti
venne
attribuita
l'introduzione
della
caravella
per
i
viaggi
di
esplorazione,
quando
in
realtà
era
già
presente
in
Spagna,
e la
produzione
di
carte
nautiche
con
tecniche
rivoluzionarie.
La
figura
del
Navigatore
è
stata
dipinta
in
maniera
oleografica
come
il
perfetto
uomo
moderno
che
realizza
l'aspirazione
rinascimentale.
Eppure
già
il
suo
principale
cronista
Azurara,
esponendo
i
motivi
che
avevano
spinto
Enrico
all'esplorazione,
ci
mostra
un
quadro
ben
differente.
Il
Navigatore
voleva
certamente
conoscere
le
terre
che
si
estendevano
oltre
le
Canarie
e
Capo
Bojador
per
sfatarne
le
dicerie,
ma
al
tempo
stesso
desiderava
con
maggiore
intensità
trovare
nuovi
poli
di
scambio
e
ottenere
nuovi
profitti,
saggiare
la
forza
sui
mari
dei
musulmani,
conoscere
fin
dove
si
estendeva
la
loro
influenza,
in
caso
soccorrere
cristiani
in
pericolo
e
soprattutto
espandere
la
fede
e la
possibilità
della
salvezza
e
redenzione
delle
anime.
Egli
era
sicuro
infatti
che
questa
fosse
la
sua
missione
come
gli
aveva
rivelato
il
suo
oroscopo
al
quale
credeva
ciecamente
(Diffie,
Winius,
1985,
p.
100).
Appare
evidente
quindi
che
Enrico
non
rappresentava
esattamente
il
prototipo
del
“sovrano-scienziato”
moderno,
animato
dalla
sete
di
conoscenza
dell'ignoto
ma
era
un
uomo
del
suo
tempo,
con
un
forte
sostrato
culturale
di
stampo
medievale.
Ne è
una
testimonianza
anche
lo
sforzo
al
quale
di
fatto
costringeva
i
cartografi
di
corte
di
conciliare
le
conoscenze
geografiche
tradizionali,
mutuate
da
quelle
antiche,
con
le
evidenze
delle
recenti
esplorazioni:
non
era
previsto
infatti
che
la
costa
africana
proseguisse
così
ostinatamente
per
centinaia
di
miglia
verso
Sud-Ovest
prima
di
curvare
bruscamente
verso
Est
aprendo
di
fatto
la
possibilità
di
un
passaggio
verso
l’Asia
(Diffie,
Winius,
1985,
p.
150).
Con
sul
trono
Giovanni
II i
portoghesi
continuarono
l'esplorazione
della
costa
del
continente
africano.
Con
la
spedizione
del
1487
Dias
raggiunse
il
Capo
di
Buona
Speranza
trovando
finalmente
ciò
che
gli
esploratori
del
tempo
di
Enrico
anelavano.
Affacciatosi
leggermente
oltre
l'estremo
meridionale
dell'Africa
notò
che
la
costa
curvava
drasticamente
verso
Oriente:
era
stato
trovato
un
passaggio
dall'Oceano
Atlantico
all'Oceano
Indiano.
La
via
per
le
Indie
era
aperta
e
Dias
aveva
trovato
il
modo
più
sicuro
per
raggiungerle.
Ora
per
il
regno
portoghese
si
presentava
la
possibilità
di
aprire
un
nuovo
fascio
di
rotte
verso
l'Asia
e
quindi
di
potersi
affermare
come
valido
concorrente
commerciale
nel
panorama
internazionale.
Allo
stesso
tempo
però
le
fonti
testimoniano
che
era
ancora
molto
sentita
la
necessità
di
appurare
l'esistenza
del
mitico
regno
di
Prete
Gianni.
Chi
continuando
la
ricerca
tradizionale
in
Asia,
chi
invece
spostando
il
campo
verso
l'Africa,
molti
erano
comunque
gli
esploratori
che
avevano
il
compito
di
scovare
il
famigerato
reame
e
consegnare
delle
missive
al
sovrano.
Con
questo
scopo
infatti
partì
Pedro
de
Covilhão
percorrendo
un
tragitto
via
terra
che
da
Calicut
lo
condusse
fino
a El
Cairo,
e il
religioso
etiope
Luca
Marcos
che
aveva
il
dovere
di
consegnare
al
mitico
sovrano
le
lettere
di
Giovanni
II
il
quale,
come
è
riportato
nelle
epistole,
era
“desideroso
della
sua
amicizia”
(Diffie,
Winius,
1985,
p.
199).
Ma
fu
durante
il
regno
di
Manuele
I
che
il
Portogallo
e
l'Europa
si
resero
conto
delle
reali
dimensioni
dell'Africa
e
delle
opportunità
che
si
estendevano
nelle
acque
oltre
il
Capo
di
Buona
Speranza.
Protagonista
di
questa
straordinaria
conquista
fu
Vasco
da
Gama.
Egli
portò
a
termine
il
primo
viaggio
noto
di
congiunzione
tra
Oriente
e
Occidente
raggiungendo
definitivamente
l'India
via
mare.
La
sua
spedizione
venne
preparata
con
cura
e
precisione
al
contrario
di
molte
delle
imprese
precedenti:
non
era
soltanto
un
viaggio
di
esplorazione
ma
anche
un'ambasceria
commerciale
(per
di
più
armata).
Salpato
da
Lisbona
l'8
luglio
1497
giunse
a
Calicut
il
18
maggio
1498
dopo
una
lunga
e
difficile
traversata,
la
sua
missione
venne
continuamente
osteggiata
dai
mercanti
arabi
ma
alla
fine
riuscì
finalmente
a
concludere
un
importante
patto
commerciale
con
le
autorità
indiane.
Da
Gama
realizzò
infatti
il
sogno
che
era
stato
di
tutti
i
suoi
predecessori
e
che
affondava
le
sue
radici
fin
nel
Medioevo.
Allo
stesso
tempo
fu
il
primo
artefice
di
una
trasformazione
della
storia
economica
mondiale
alla
quale
gli
effetti
del
viaggio
di
Colombo,
avvenuto
sei
anni
prima,
avrebbero
cominciato
a
contribuire
solo
una
generazione
più
tardi.
Dopo
innumerevoli
tentativi
l'Occidente
aveva
trovato
l'Oriente,
si
era
realizzato
ciò
che
le
conoscenze
geografiche
scolastiche
ritenevano
inconcepibile:
l'Africa
non
soltanto
era
di
gran
lunga
più
estesa
di
quanto
si
immaginasse
ma
era
possibile
aggirarla
lungo
la
costa
in
modo
tale
da
raggiungere
da
Occidente
le
acque
dell'Oriente.
Il
viaggio
di
da
Gama
ebbe
un
impatto
di
straordinario
rilievo
per
il
futuro
dell'Europa
nonostante
i
suoi
obiettivi
si
iscrivessero
all'interno
di
un
panorama
geografico
e
culturale,
quello
del
desiderio
ardente
di
raggiungere
l'Asia,
che
ha
carattere
medievale.
Era
finalmente
aperta
una
rotta
che
prima
era
considerata
impensabile,
di
conseguenza
si
era
avviato
un
nuovo
mercato
con
l'India
basato
sullo
scambio
di
spezie
e
preziosi
(Garcia,
1998,
p.
33).
Ma
soprattutto
la
scoperta
dell'ammiraglio
permise
l'entrata
del
Portogallo
nei
grossi
traffici
con
l'Asia;
si
scatenava
ora
una
seria
competizione
con
gli
scambi
che
si
svolgevano
lungo
le
vie
carovaniere
che
fino
a
quel
momento
erano
state
esclusivo
appannaggio
di
Venezia.
La
dominatrice
dell'accesso
alla
via
tradizionale
del
commercio
levantino
venne
gradualmente
sorpassata
dal
Portogallo
poiché
una
nuova
via
al
commercio
era
stata
finalmente
aperta.