N. 140 - Agosto 2019
(CLXXI)
Ciao, felice
ci
lascia
uno
dei
più
grandi
ciclisti
italiani
di
Riccardo
Filippo
Mancini
Quando
un
personaggio
conosciuto
se
ne
va,
c’è
quasi
sempre
un
velo
di
incredulità,
misto
a
dispiacere
o,
talvolta,
a
indifferenza.
Ma
quando
ci
lascia
uno
sportivo,
un
campione,
si
arriva
in
molti
casi
alla
commozione.
É stato
il
caso
di
Felice
Gimondi,
spentosi
lo
scorso
16
agosto ai
Giardini
Naxos
in
seguito
a
un
malore.
Aveva
76
anni.
Il
ciclismo
nel
nostro
paese
ha
saputo
suscitare
nel
corso
dei
decenni
grandissima
attenzione:
per
un
certo
periodo
storico
i
nostri
campioni
–
Binda,
Coppi,
Bartali,
Magni
per
citarne
alcuni
–
avevano
una
popolarità
assimilabile
a
quella
di
cui
godono
alcuni
calciatori
oggi.
Il
ciclismo
era
uno
sport
del
popolo
come
il
calcio.
I
fasti
degli
anni
tra
la
prima
e la
seconda
guerra
mondiale
si
erano
spenti,
e
all’Italia,
o
meglio
ai
suoi
appassionati
di
ciclismo,
mancava
una
figura
di
riferimento,
un
corridore
di
livello
superiore
in
cui
identificarsi
dopo
l’epoca
d’oro.
Anche
l’interesse
intorno
al
ciclismo,
in
virtù
di
questa
mancanza,
si
era
un
pochino
affievolito.
Poi
un
bel
giorno
arrivò
un
ragazzo
lombardo
a
riaccendere
l’entusiasmo.
Felice
Gimondi
nacque
a
Sedrina,
in
provincia
di
Bergamo,
il
26
settembre
del
1942.
Si
avvicina
al
ciclismo
nel
1959
con
una
società
del
suo
paese
natale,
la
Sedrianese.
Passa
tra
i
dilettanti
e
inizia
da
subito
a
mostrare
il
suo
talento:
vince
infatti
ben
16
corse,
tra
cui
il
prestigioso
Tour
de
L’Avenir
nel
1964
(una
sorta
di
piccolo
Tour
de
France
di
categoria,
che
si
corre
ancora
oggi).
Il
1965
fu
il
suo
primo
anno
tra
i
professionisti,
corso
con
i
colori
della
Salvarani.
Nuvola
Rossa
(soprannome
datogli
dal
grande
Gianni
Brera,
insieme
a
Felix
de
Mondi)
fece
il
suo
debutto
al
Giro
d’Italia
correndo
in
appoggio
al
capitano,
Vittorio
Adorni:
si
classificò
addirittura
terzo,
conquistando
il
primo
dei
suoi
nove
podi
alla
corsa
rosa.
Sempre
in
quell’anno
vinse
clamorosamente
a
sorpresa
il
Tour
de
France.
Era
andato
in
Francia
sostituendo
all’ultimo
momento
un
compagno
che
si
era
infortunato,
sempre
per
aiutare
Adorni,
che
però
fu
costretto
al
ritiro.
Il
giovane
Felice
non
si
fece
scappare
l’occasione,
conquistò
la
maglia
gialla
alla
terza
tappa,
rintuzzò
gli
attacchi
del
grande
Raymond
Poulidor
sulle
montagne
e
vincendo
la
cronometro
di
Versailles
pose
il
suo
sigillo
sulla
corsa
francese.
Un
successo
clamoroso
per
quanto
inaspettato,
che
proiettò
Gimondi
in
una
nuova
dimensione.
Era
un
corridore
completo:
forte
a
cronometro,
forte
in
salite,
veloce
in
volata.
In
quel
suo
inizio
di
carriera
sembrava
poter
diventare
il
dominatore
della
scena
mondiale.
Purtroppo
per
lui,
ma
non
per
il
ciclismo,
cominciò
a
splendere
la
stella
del
più
grande
di
tutti
i
tempi:
Eddy
Merckx.
Tra
i
due
nacque
una
forte
rivalità
ma
anche
un
rapporto
vero,
fatto
di
rispetto
e
poi
di
amicizia.
Gimondi
seppe
riconoscere
sin
da
subito
la
superiorità
del
fenomeno
belga,
ma
allo
stesso
tempo
fu
uno
dei
pochi
a
riuscire
a
batterlo
in
più
occasioni
in
quegli
anni.
Di
certo,
se
così
si
può
dire,
il
buon
Felice
non
fu
fortunatissimo
nel
condividere
gli
anni
di
carriera
con
Merckx.
Gimondi
vinse
alla
grande
il
Giro
d’Italia
del
1967,
poi
quello
del
1969
(famoso
per
la
squalifica
per
doping
di
Merckx,
caso
che
ancora
oggi
crea
discussioni),
ma
dovette
anche
assistere
alle
vittorie
del
belga
al
Tour
ininterrottamente
dal
1969
al
1974
(dove
però
si
incrociarono
solamente
in
due
occasioni)
e al
Giro
dal
1970
al
1974.
Nel
1968
partecipò
alla
Vuelta
per
la
prima
e
unica
volta:
la
vinse,
conquistando
la
cosiddetta
“tripla
corona”
come
solo
pochi
nella
storia
hanno
saputo
fare.
Nel
1971
fu
battuto
in
volata
da
Merckx
al
Mondiale
su
strada
di
Mendrisio,
ma
si
rifece
alla
grande
nel
1973,
battendo
proprio
lo
storico
rivale
sul
traguardo
di
Montjuic;
lo
stesso
campione
belga
dice
ancora
oggi
come
quella
sconfitta
sia
stata
la
più
grande
delusione
della
sua
carriera.
Era
forte
anche
nelle
corse
di
un
giorno
il
nostro
campione:
in
carriera
riuscì
a
conquistare
una
Sanremo,
una
Roubaix
e
per
due
volte
il
Giro
di
Lombardia.
Vinse
l’ultimo
dei
suoi
tre
Giri
d’Italia
nel
1976,
quindi
ebbe
una
longevità
di
vittoria
superiore
a
quella
di
Merckx,
avendo
vinto
la
prima
grande
corsa
nel
1965.
Si
ritirò
nel
1978,
ponendo
fine
a
una
carriera
di
primissimo
piano:
nessun
italiano
nel
dopoguerra
può
vantare
un
palmares
come
il
suo
(l’unico
ad
avvicinarsi
è
Vincenzo
Nibali).
Dopo
il
ritiro
si
occupò
ancora
di
ciclismo:
direttore
sportivo
della
Gewiss-Bianchi,
e
poi
dal
2000
anche
Presidente
della
Mercatone
Uno-Albacom,
la
squadra
di
Marco
Pantani.
Fu
proprio
Gimondi
tra
l’altro
a
premiare
il
compiantissimo
Pirata
sugli
Champs
Elysées
in
occasione
della
vittoria
al
Tour
del
1998:
Marco
con
quella
epica
vittoria
interruppe
il
digiuno
tricolore
alla
Grande
Boucle,
digiuno
che
durava
proprio
dalla
vittoria
di
Felice
del
1965.
Amato
e
rispettato
da
tutti,
ha
ricevuto
il
giusto
commiato
dal
mondo
del
ciclismo
e
non
solo.
A
piangerlo
in
prima
fila
anche
il
rivale
storico,
Eddy
Merckx.
Lascia
un
vuoto
nel
nostro
sport
perché
non
è
stato
solo
un
grande
corridore
ma
anche
una
persona
stimata
e
rispettata
da
tutti,
una
figura
positiva
che
ha
ispirato
generazioni
di
ciclisti:
sempre
pacato,
mai
sopra
le
righe.
E
perché
ci
ha
insegnato
una
cosa
importante,
che
spesso
dimentichiamo:
“Nella
vita
puoi
essere
utile
anche
arrivando
secondo
o
quinto...
Purché
tu
ce
la
metta
tutta”.
Ciao
Felice,
buon
viaggio