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N. 114 - Giugno 2017 (CXLV)

IL COLORE DELL'ALBA

FEDERICO CAFFè E LA VOLONTà DI SPARIRE

di Gaetano Cellura

I suoi studenti sono i primi a cercarlo. Gli studenti con cui amava discutere dopo le lezioni nei corridoi dell’università. Setacciano prima Monte Mario e poi inutilmente ogni angolo di Roma.

È l’alba del 15 aprile del 1987 quando Federico Caffè,  economista keynesiano di fama internazionale, allievo di Luigi Einaudi, esce dalla sua bella casa al numero 42 di via Cadlolo, zona residenziale della Balduina, e fa perdere per sempre le proprie tracce. Come Ettore Majorana, il geniale fisico.

Lo cercano ovviamente anche le forze dell’ordine. Che non trascurano nessuna pista: suicidio, fuga, ritiro in qualche convento. Il professore aveva settantatré anni. Era piccolino e magro e camminava con passo felpato. Negli ultimi tempi appariva depresso, ma in condizioni di salute da non destare preoccupazioni. Viveva con il fratello Alfonso, professore di lettere (fu lui a denunciarne la scomparsa) e con la governante. Da quattro anni era andato in pensione.

Caffè riteneva indispensabile l’intervento pubblico nel mercato e considerava il capitalismo maturo non molto dissimile da quello originario. Nel senso che poggiava sempre su “sofferenze umane frustranti e degradanti”.

Per lui le conoscenze dell’analisi teorica dovevano essere usate come guida pratica della politica economica. E niente, più della disoccupazione, poteva disgregare una società che, proprio a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, si apriva al riflusso neoliberista. Solo alti livelli di occupazione potevano onorare l’uguaglianza sostanziale sancita dall’articolo 3 della nostra Costituzione.

Caffè denunciava il conformismo dell’informazione economica come indice tra i più preoccupanti di una situazione di “regime” che vedeva in crescita. Sviluppò tutti questi temi nei suoi libri dal 1956 al 1986 e negli articoli sul Manifesto (era amico di Valentino Parlato), sull’Ora e sul Messaggero, poi raccolti in volumi e pubblicati postumi: Scritti quotidiani (il Manifesto libri, 2009) e Gli incappucciati della finanza (a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, 2013).

Tra i suoi allievi figurano personalità come Mario Draghi, Ignazio Visco, Ezio Tarantelli e Bruno Amoroso. Quest’ultimo fondatore del Centro Studi Federico Caffè dell’università di Roskilde in Danimarca, docente all’università di Hanoi e autore del libro Federico Caffè-Le riflessioni della stanza rossa.

La stanza di Copenaghen dove il professor Amoroso scriveva appunti su Keynes e rifletteva e dialogava, dialogo della memoria, con il suo maestro a La Sapienza di Roma. Amoroso, morto nel gennaio scorso, era forse la persona più informata sulla fine di Federico Caffè. Tra di loro c’era un rapporto di amicizia e fiducia, nato all’università ma durato nel tempo.

Prima di questo libro – vent’anni prima, nel 1992 – ne è uscito un altro: L’ultima lezione, del giornalista napoletano Ermanno Rea. Che dice, a distanza di anni (Adnkronos News del 14 aprile del 2012): «Federico Caffè facendo perdere le tracce di sé ha lasciato un’incognita. È stato bravo a disegnare la sua eclissi. Oggi noi lo ricordiamo per questa ragione. Scoprirne anche solo le ossa ce lo farebbe seppellire definitivamente».

Ma cosa successe all’economista che diceva che abbiamo sostituito gli uomini con i numeri e che al posto della compassione per le sofferenze umane abbiamo messo ׂ«l’assillo dei riequilibri contabili»?

La sera prima di scomparire fece la solita cena con latte e pane. Poi si chiuse nella sua stanza. Il giorno dopo sul suo comodino furono trovati occhiali, chiavi, portafoglio, passaporto, il libretto degli assegni, l’orologio e due libri (quasi a voler lasciare aperte due ipotesi): La scomparsa di Majorana di Sciascia e Il suicidio di Durkheim, uno studio sociologico in cui vengono analizzati quattro tipi di suicidio.

Da quello egoistico, dovuto alla carenza di integrazione sociale, a quello altruistico, per le ragioni opposte, quando cioè una persona è fin troppo inserita nel tessuto sociale.

Dal suicidio anomico, proprio dei momenti di sovrabbondanza o di depressione economica, a quello fatalista che si verifica quando le regole sociali sono così dispotiche da soffocare gli spazi del desiderio. Libri e oggetti di cui non avrebbe più avuto bisogno.

Si suicidò il professore che ai suoi studenti raccomandava di «rimanere sempre vigili, senza mai cedere agli idoli del momento, alle frasi fatte, a quelle convenzionali»? Sparì? O fu fatto sparire?

La società italiana viveva un momento di forte trasformazione. Gli anni Settanta preparavano il terreno alle politiche monetariste. E forse le idee keynesiane di Federico Caffè, le sue critiche al modello di società che si affermava  negli anni Ottanta davano fastidio.

Dava fastidio quel che scriveva. E cioè che i processi deflazionistici sono «profondamente antisociali, provocano l’acuirsi dei conflitti tra le varie categorie produttive». Davano fastidio le sue idee sulla fine del welfare, sull’Italia e l’Europa che si andavano configurando: senza giustizia sociale, senza poteri bilanciati, in mano al più forte.

Certo, era un uomo provato dalla malattia del fratello, dalla morte della madre, dall’uccisione di uno dei suoi allievi prediletti: Ezio Tarantelli. E probabilmente si sentiva solo. Anche come economista. Economista “disubbidiente” in un mondo che cambiava. Ma non è detto che in quell’alba del 15 aprile del 1987 fosse lui ad andare volontariamente verso il destino. Forse era il destino, deciso da altri, ad andare verso di lui.

Bruno Amoroso, morto nel gennaio del 2017, sapeva cosa successe in quelle ultime ore come lascia intendere in un colloquio telefonico ad Alessandra Arachi del Corriere della Sera che si è gettata a capofitto nel mistero di Federico Caffè?

«Non ti posso dir nulla, questo reato non è ancora prescritto». Reato? «Ma l’unico reato che non si prescrive è l’omicidio» risponde la giornalista. «Non è prescritto. Fidati». Il professore, in partenza per la Corea, le raccomanda di leggere il suo Le riflessioni della stanza rossa per capirci di più.

Ma la lettura dei colloqui intimi tra i due professori molto riservati e lontani dalla mondanità, le loro comuni idee sull’economia del benessere non servono a chiarirle il mistero. Mistero che le parole del professore Amoroso rendono più fitto.

«Non hai capito niente» le risponde al ritorno. Lei propose di parlarne con un avvocato: era troppo importante la verità su quel caso. Ma Amoroso non volle sentirne. Anzi, chiuse ogni discorso per sempre: «Non c’è altra verità: Federico Caffè se n’è andato da Roma e ha passato il resto della vita nella stanza rossa».

Il libro di Ermanno Rea, che racconta il “giallo” del professore a partire dalla sua ultima lezione, tenuta nel giugno del 1984, dà più credito invece alla tesi del suicidio.

La lettura del libro di Durkheim e alcuni articoli di giornali sembrano confermarla, anche se convince poco: il suicidio come rimedio «agli squilibri originati da un’esagerata longevità, ai disavanzi catastrofici degli istituti previdenziali… Finirà che perderò la testa, ma la carcassa andrà avanti».

A conti fatti, sono solo le parole di Amoroso – «Questo reato non è prescritto» – a infittire il mistero. Tutto il resto – suicidio o isolamento da un mondo che più non gli piaceva – appartiene alla libera scelta di Federico Caffè. Libera scelta che va rispettata, come disse la nipote Giovanna Leone cinque anni fa.



 

 

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