LO SCISMA D'OCCIDENTE
QUANDO LA CRISTIANITÀ EBBE DUE PAPI
di Francesco Biscardi
La recente scomparsa di Benedetto XVI ha posto termine a quella
particolare situazione di due papi
viventi venutasi a creare in seguito
alle sue dimissioni nel 2013. La
contemporanea presenza di un
pontefice esercente a pieno le sue
funzioni e di uno come “emerito” ha
creato un unicum nella storia della
Chiesa. Per quanto singolare, questa
vicenda può riportare alla mente un
determinato periodo storico in cui
la Cristianità si trovò, per oltre
quarant’anni, divisa nella fedeltà a
due pontefici: quello susseguito al
grande Scisma d’Occidente del 1378.
Bisogna risalire agli inizi del XIV
secolo per scorgere le origini di
questa lacerazione: nel 1303 era
morto Bonifacio VIII, al secolo
Benedetto Caetani, uno dei più
energici sostenitori della
supremazia pontificia, il quale, con
la bolla Unam sanctam, riscrisse
l’intera gerarchia dei poteri,
ponendo al vertice il papa, e
indisse, nel 1300, il primo giubileo
della storia.
A provocare la sua rovina fu la
contesa che lo vide contrapposto al
re di Francia Filippo IV “il Bello”.
Questi si era impegnato in una
complessiva riorganizzazione fiscale
dello stato francese e, a tal fine,
aveva sottoposto a tassazione anche
il clero, in precedenza esente,
senza darne informazione alla Santa
Sede. Il papa vide il gesto come
un’ingerenza nell’autonomia della
Chiesa. Il sovrano rispose con una
campagna di discredito nei confronti
di Bonifacio e si accordò con una
delle principali famiglie avverse ai
Caetani, i Colonna, per una
spedizione atta a rapirlo mentre si
trovava ad Anagni, nel 1303, e
tradurlo dinanzi a una corte
francese incaricata di processarlo
per lesa maestà. Sebbene una
sollevazione di popolo consentì al
pontefice di tornare a Roma,
l’anziano prelato morì di lì a poco.
Dopo un brevissimo pontificato di
Benedetto XI, il successivo conclave
non si tenne a Roma (per il pericolo
di proteste e per le eccessive
invadenze delle famiglie magnatizie
romane), ma a Perugia. Ci vollero
undici mesi per sbrigare la matassa:
l’ardua scelta era fra un esponente
gradito al re di Francia e uno che
potesse raccogliere l’eredità di
Bonifacio. La scelta alla fine
ricadde sull’arcivescovo di
Bordeaux, Bertrand de Got, che
ascese al soglio pontificio con il
nome di Clemente V, il quale, nel
1309, ritenendo di non essere
abbastanza al sicuro in Italia,
decretò il trasferimento della curia
ad Avignone, dove rimarrà fino al
1378.
Quello avignonese è stato ritenuto
per molto tempo come un periodo
totalmente negativo, una “parentesi”
in cui i papi furono sottoposti a
uno stretto controllo della
monarchia francese. Si è parlato
pertanto di “cattività avignonese”,
di “prigionia” papale ad Avignone.
In tempi recenti la storiografia ha
parzialmente rivisto questa visione
estrema, sottolineando come in
questo lasso di tempo fu
perfezionata in senso statale
l’organizzazione della curia, libera
dai conflitti fra le principali
famiglie baronali romano-laziali: fu
intensificata l’attività finanziaria
di banchieri italiani ed europei,
furono riviste alcune autonomie
spettanti alle chiese locali, i
pontefici acquisirono più controllo
dei benefici, furono perfezionati
organi centrali come il Concistoro e
la Tesoreria Apostolica.
Certo il venire meno della sede
lateranense comportò, a Roma, una
contrazione del lavoro che vi
ruotava attorno, per cui il danno
economico per la capitale fu enorme.
A ciò si aggiungeva il vuoto
“morale” che sentivano i cristiani,
in particolar modo romani e laziali,
a vivere e a sapere di una città
senza papa; si parlò di una Roma
vidua, una “Roma vedova”.
Nel 1367 fu Urbano V il primo papa a
fare una temporanea ricomparsa a
Roma, ma riprese presto la via di
Avignone, accampando la scusa di
doversi mettere al riparo dalla
imperversante malaria nel Lazio.
Bisognò attendere Gregorio XI nel
1378 per il definitivo ritorno.
Probabilmente neanche quest’ultimo
era così entusiasta all’idea di
dimorare nella città eterna, ma il
precipitare della situazione
conflittuale italiana lasciò poco
margine di scelta: varie rivolte
imperversavano nelle regioni
pontificie, alimentate dalle
principali potenze signorili della
penisola miranti a estendere la loro
egemonia su queste terre; con
Firenze si arrivò anche al conflitto
diretto, in quella che viene
ricordata come “guerra degli Otto
Santi”.
Gregorio morì nello stesso 1378. Il
7 aprile si svolse l’elezione in un
clima di notevoli tensioni. Dietro
le minacce, prima delle milizie e
delle regioni cittadine di Roma e
poi della folla radunatasi davanti a
San Pietro, fu richiesta la nomina
di un candidato romano o almeno
italiano: «Romano, romano lo volemo
lo papa, o almanco italiano», si
racconta che urlasse il popolo. Dopo
ampia discussione, la maggior parte
dei cardinali convenne
sull’arcivescovo di Bari, Bartolomeo
Prignani.
Tuttavia la popolazione, istigata
forse dai membri delle più
importanti famiglie della capitale,
tumultuò assalendo il palazzo e
pretendendo l’elezione di un romano.
I cardinali, intimoriti,
intronizzarono allora un altro
candidato, Francesco de’
Tebaldeschi, e in molti si diedero
alla fuga. Dietro richiesta del
Prignani, attenuatesi le proteste,
accettarono di tornare per risolvere
la crisi e lo riconobbero in
Summum Pontificem con il nome di
Urbano VI.
Tuttavia quest’ultimo non ci mise
molto a inimicarsi i suoi stessi
elettori: parlava troppo e,
sconsideratamente, si arrogava
diritti di deposizione a proprio
arbitrio, vantandosi per giunta di
essere stato scelto dallo Spirito
Santo.
In estate si giunse al punto di
rottura: gran parte dei cardinali si
riunì ad Anagni, inviò un delegato
al neo pontefice che si trovava a
Tivoli con il messaggio che la sua
elezione era avvenuta in un clima di
intimidazioni, necessitante di un
nuovo concilio per la conferma.
Falliti alcuni tentativi di
mediazione operati da cardinali
italiani, il 20 luglio quelli
francesi dichiarano non valida la
nomina.
Sotto la protezione della regina
Giovanna dimorarono a Napoli, dove
furono raggiunti dal resto del
collegio cardinalizio. Radunatisi a
Fondi procedettero all’elezione di
un nuovo papa nella persona di
Roberto di Ginevra, ex comandante
delle truppe pontificie nella guerra
degli Otto Santi, il quale assunse
il nome di Clemente VII e si
ritrasferì ad Avignone. I due
pontefici si scomunicarono a vicenda
e la loro competizione produsse una
grave spaccatura all’interno
dell’intera società cristiana, da
questo momento divisa nella lealtà a
uno dei due, spesso per ragioni
antagoniste, in una trama piuttosto
labile.
Fra i grandi regni, Savoia, Scozia,
Spagna, Napoli e Francia riconobbero
il pontefice avignonese, mentre
Portogallo, Inghilterra, Fiandre,
Germania e Ungheria appoggiarono
quello di Roma. La crisi rinfocolò
le polemiche sull’intera
configurazione della chiesa
cattolica e contribuì a rafforzarele
tesi di chi condannava la
“monarchia” papale, suggerendo che
il governo ecclesiastico dovesse
essere riposto nel collegio
cardinalizio, secondo un modello
“oligarchico”, o nel più ampio
consesso del concilio.
La crisi morale oltre che politica
fu enorme: si divisero molti grandi
Ordini, come i cistercensi, che ora
ebbero due direzioni, e a entrambi i
papi furono inoltrate richieste di
zelanti aspiranti alle prebende.
Capitarono anche casi di cardinali
che passarono da una fazione
all’altra in puro voltagabbanismo;
l’esempio più noto fu quello di
Pileo da Prata, fatto cardinale da
Urbano VI, passato all’obbedienza
avignonese, poi tornato a quella
romana nel 1391, per questo
ribattezzato “cardinale con i tre
cappelli”.
Pensiamo inoltre all’impatto emotivo
che la scissione ebbe sui fedeli,
frastornati e confusi da questa
situazione. Inoltre, il perdurare
dello scisma non poté che aumentare
l’incertezza sulla missione del
papato e della stessa chiesa, nonché
della validità di sacramenti e
consacrazioni, dal momento che i
successori di Urbano VI e Clemente
VII (rispettivamente Bonifacio IX,
Innocenzo VII e Gregorio XII per il
primo e Benedetto XIII per il
secondo) restarono convinti della
loro legittimità e non presero in
considerazione l’abdicazione.
Alla fine i cardinali capirono come
l’unico modo per sanare la frattura
fosse di riunire un concilio
generale. L’assemblea, riunitasi a
Pisa nel 1409, procedette
all’elezione di un nuovo pontefice
nella persona di Alessandro V, al
secolo Pietro Filargo, ma sia
l’avignonese Benedetto XIII che il
romano Gregorio XII rifiutarono di
farsi da parte, con il solo
paradossale risultato della
contemporanea presenza di tre papi.
Alessandro morì dopo un solo anno di
pontificato; il suo successore,
Giovanni XXIII convinse il re
tedesco Sigismondo a convocare un
nuovo sinodo generale. Il 5 novembre
del 1414 si riunì a Costanza
l’ennesimo concilio a cui
parteciparono due dei tre pontefici
(Gregorio si fece rappresentare da
un legato e si dichiarò pronto a
rinunciare alla sua carica purché
gli altri facessero altrettanto).
Dopo accese discussioni fu
proclamato solennemente il principio
che il potere non risiedeva nella
figura del papa, “monarca”, ma nella
Chiesa impersonata dal concilio
generale (principio cardine
dell’allora nascente dottrina
conciliarista); il pontefice, si
concludeva, era solo un
“funzionario”, sebbene il più
importante di tutti.
Nel 1417, acquisite le dimissioni di
Gregorio, i cardinali deposero
d’autorità gli altri due e
procedettero all’elezione di Ottone
Colonna, che prese il nome di
Martino V, con il quale la sede
apostolica tornò stabilmente a Roma.
Si chiudeva così lo Scisma
d’Occidente, uno dei periodi di
maggiore crisi e di più bassa
credibilità di tutta la storia
papale.
Riferimenti bibliografici:
Azzara C., Il papato nel Medioevo,
Il Mulino, Bologna 2006.
Landi A., Il papa deposto (Pisa
1409). L’idea conciliare nel Grande
Scisma, Claudiana, Torino 1985.
Schimmelpfenning B., Il papato.
Antichità, medioevo, rinascimento,
trad. it. di Paciocco R., RCS
MediaGroup, Milano 2021.