Sciascia e Matteotti
la passione per il diritto e un
delitto di cent’anni fa
di
Gaetano Cellura
Da tempo il “piccolo” giudice non
pensava più al delitto Matteotti. E
il rivederne la foto – tra le carte
trovate dalla polizia in casa
dell’imputato che doveva giudicare:
un pluriomicida per il quale, come
esemplare punizione, il regime
pretendeva la pena di morte – lo
riportò con la memoria a
quell’estate del 1924 in cui “la
sorte del fascismo parve vacillare”.
Tanta fu, per l’omicidio del
deputato socialista, la commozione,
tanto lo sdegno nelle famiglie
italiane.
Giacomo Matteotti venne ucciso dai
sicari del fascismo il 10 giugno di
cent’anni fa, probabilmente lo
stesso giorno del suo sequestro. E i
suoi resti ritrovati due mesi dopo.
Sandro Pertini, la mano tremante per
l’ira e il dolore, prese carta e
penna e scrisse al segretario
socialista di Savona: “Non posso più
stare fuori dal vostro partito. Ti
chiedo di volermi rilasciare la
tessera con la sacra data della
scomparsa del povero Matteotti”.
Sulla rivista Rivoluzione
Liberale Gobetti definisce
Matteotti “una specie di guardiano
della rettitudine politica e della
resistenza dei caratteri”. Giovanni
Amendola, in un momento così tragico
per l’incolumità dei deputati e per
le sorti del parlamento, chiese
udienza al Re. Ma non fu ricevuto.
Un intervento di Vittorio Emanuele
III poteva ancora fermare la svolta
autoritaria e brutale di Mussolini.
E fu dopo l’omicidio di Matteotti,
per l’orrore che gli suscitò, che
Carlo Rosselli, altra vittima del
fascismo, sentì il dovere di fare
politica.
Nell’opera di Sciascia, il nome del
Martire compare due volte: ne Le
parrocchie di Regalpetra
e nel romanzo Porte Aperte.
Quest’ultimo uno dei più struggenti
dello scrittore siciliano. Un
romanzo che non è esagerato definire
cristiano. Perché ha per tema la
pena di morte (in vigore durante il
fascismo) e la contrarietà del
“piccolo” giudice ad applicarla. Per
principio. Per l’idea che lui ha
della giustizia, non solo un
problema di applicazione della
legge, ma “di interiore libertà,
comunque dovuta a chi è chiamato a
giudicare”. E per avversione al
fascismo anche.
Sciascia lo chiama “piccolo” non
perché fosse piccolo di statura. Ma
per le cose tanto più grandi di lui
che si trovò ad affrontare. Da solo
e fino a rimetterci, per i propri
principi, la carriera.
La lettura degli Avvertimenti
cristiani di Argisto Giuffredi
aveva contato molto nella sua
formazione giuridica, nella sua
passione per il diritto. Segretario
del vescovo di Patti, maestro notaro
della Corte Pretoriana e del Regio
Portulano di Palermo, cariche (le
ultime due) che ricopre
presumibilmente tra il 1561 e il
1562, gli Avvertimenti o
Ricordi sono l’eredità
letteraria che Giuffredi lascia ai
figli e ai posteri.
E proprio al figlio che aveva scelto
gli studi giuridici nell’opera
raccomanda di non dare mai ai
colpevoli o presunti tali la pena
della tortura e quella della morte.
Avvertimenti che, due secoli
prima di Beccaria e del suo Dei
delitti e delle pene (“Se
dimostrerò non essere la morte né
utile né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità”), suonavamo
indiscutibilmente e coraggiosamente
rivoluzionari. Anticipavano
l’Illuminismo.
Il regime vedeva nell’applicazione
della pena capitale – e nei
confronti di persona colpevole di
orrendi omicidi – la forza dello
Stato. La sicurezza per i cittadini
di poter dormire “con le porte
aperte” (come allora si diceva e
come, dopo la fine del fascismo, i
suoi nostalgici amavano ripetere).
Di qui le forti pressioni sulla
magistratura. Sul giudice che aveva
in mano il processo. Ciononostante
dalla camera di consiglio uscì per
l’imputato pluriomicida una
sentenza, di colpevolezza senza
dubbio, ma che di morte non era. Il
“piccolo” giudice ne aveva fatto un
punto d’onore della sua vita,
“dell’onore di vivere”.
Ne Le parrocchie di Regalpetra
Sciascia parla di
Matteotti attraverso i suoi ricordi
di bambino. Il ritratto del martire
antifascista portato a casa da uno
zio dello scrittore e prudentemente
dalla famiglia tenuto nascosto
nell’armadio per evitare spiacevoli
conseguenze.
Il futuro scrittore domandava chi
era l’uomo nel ritratto. E la zia
gli faceva il segno del silenzio.
L’ha fatto uccidere quello,
diceva piano, e ci penserà il
Signore. E quello si
capiva chi era.
“Una volta – scrive Sciascia – mi
portarono alla stazione per vederlo
passare, ma non riuscii a vedere
niente, ricordo un treno che
arrivava, e avevo sete, mi diedero
una gazzosa di colore rosa e
macchiai il mio vestito bianco”.
Nel romanzo Porte Aperte (ma
il “piccolo” giudice che ne è il
protagonista diceva di tenere sempre
chiuse le sue) Sciascia
sull’omicidio di Matteotti lancia
en passant un’ipotesi originale:
che l’abbiano ucciso non in nome del
socialismo ma in nome del diritto.
Del diritto penale di cui era libero
docente.
A tutt’oggi vago come movente. O del
tutto letterario conoscendo
Sciascia. Ma è storicamente
inconfutabile che Matteotti non
abbia risparmiato attacchi veementi
al fascismo e alle autorità di
governo che assistevano “impassibili
e complici allo scempio della
legge”, ai brogli elettorali, alle
violenze politiche.
Quando Mussolini proclamò che il suo
governo non aveva alcun obbligo
verso il parlamento, perché ne era
nato fuori, Matteotti fu il primo
(se non il solo) a gridare: “Viva il
Parlamento”; e a ribattere che non
con la forza doveva essere guidata
l’Italia. Il primo a rinfacciargli
il suo passato socialista e di
essersi battuto per quei principi
che ora combatteva. Compreso il
diritto di cui il fascismo devastava
lettera e sostanza.
Romanzo incentrato contro la pena di
morte – per Sciascia principio di
tale forza che si può essere nel
giusto anche se si resta soli a
sostenerlo – Porte Aperte,
attraverso i ricordi del “piccolo”
giudice, il ricordo delle foto dei
giornali che maggiormente ne fecero
allora pubblicazione, dedica belle
pagine ai funerali di Matteotti, ai
deputati socialisti inginocchiati di
fronte alla spalletta del ponte dove
avvenne il suo sequestro, alla bara
che ne conteneva i resti dopo il
ritrovamento. E alla commozione
degli italiani che, in quell’estate
del 1924, avevano ancora sentimento.