N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
a proposito di sciascia
parte iI - lo spazio immobile, lo spazio del potere
di Giuseppe Tramontana
"Superior
stabat
lupus"
Parlavamo dei due percorsi che si possono delineare a partire
dalla
‘sofisticazione
sessuale’,
per
dirla
con
Sciascia.
Riguardo
al
primo
percorso,
quello
storico,
Sciascia
ha
le
idee
piuttosto
chiare:
la
Sicilia
è
quella
che
è a
causa
della
storia
che
si è
trovata
a
vivere.
Una
storia
fatta
di
invasioni,
violenze,
sopraffazioni,
dominazioni
più
o
meno
efferate.
Tutte cose che hanno portato i siciliani a diffidare di
ogni
potere
costituito,
a
guardarlo
con
sospetto,
a
cercare,
da
un
lato,
di
conviverci,
tenendoselo
buono,
standone
lontano,
non
immischiandosi
con
esso
(‘di
cappeddi
e
malu
passu
pàrrini
beni
ma
stanni
arrassu’,
dice
un
proverbio
popolare),
dall’altra,
di
parlarne
bene,
usarlo
se
possibile,
piegarlo
ai
voleri
privati.
Emblematica
da
questo
punto
di
vista
l’episodio
che
vede
per
protagonista
un
cane,
il
cane
Barruggieddu:
“Il capitano si avvicinò al cane per accarezzarlo.
No – disse il vecchio allarmato – è cattivo: una persona
che
non
conosce,
magari
prima
si
fa
toccare,
la
fa
assicurare:
e
poi
morde….
È
cattivo
quanto
un
diavolo.
E come si chiama? Domandò il capitano, incuriosito dallo
strano
nome
che
il
vecchio
aveva
pronunciato
per
acquietarlo.
Barruggieddu
si
chiama
–
disse
il
vecchio.
E che vuol dire? – domandò il capitano.
Vuol dire uno che è cattivo – disse il vecchio.
Mai sentito – disse il brigadiere. E in dialetto chiese
altre
spiegazioni
al
vecchio.
Il
vecchio
disse
che
forse
il
nome
giusto
era
Barricieddu,
o
forse
Bargieddu:
ma
in
ogni
caso
significava
malvagità,
la
malvagità
di
uno
che
comanda;
ché
un
tempo
i
Barruggieddi
o
Bargeddi
comandavano
i
paesi
e
mandavano
gente
alla
forca,
per
piacere
malvagio.
Ho capito – disse il capitano – vuol dire Bargello: il capo
degli
sbirri.
Imbarazzato, il vecchio non disse né sì né no”.
Come è palese la diffidenza verso il potere! Il cane, cattivo
come
un
diavolo,
ha
il
nome
di
un
funzionario,
di
un
governatore
del
passato:
ma
non
il
nome
di
persona,
bensì
il
nome
della
funzione!
È
questo
lo
straordinario.
È come se, tra cento anni, chiamassimo un cane Questore
o
Prefetto
(o
Provveditore
agli
studi,
che
so…).
Altra
annotazione:
è un
nome
che
molto
frequentemente
si
affibbia
ai
cani,
almeno
nella
zona
di
Racalmuto
e
questo
è
segno
della
popolarità
del
fenomeno,
non
attribuibile
solo
all’ingegnosità
o
all’ironia
di
qualche
mente
originale.
In questo senso, anche un altro nome, Catapanu, subisce lo
stesso
slittamento
di
senso
e
significato:
“CATAPANU. FARISI PIGLIARI DI LU CATAPANU. Catapano. Farsi
prendere
dal
catapano:
e
cioè
farsi
prendere
dal
panico,
per
timore
e
paura
agitarsi,
confondersi.
Catapano
è
antica
voce:
bizantina,
medievale.
Governatore
dio
provincia,
in
Sicilia,
durante
la
dominazione
bizantina;
funzionario
amministrativo-giudiziario,
‘magistrato
per
giudicare
le
liti
nei
mercati’,
successivamente;
finché
nel
secolo
XVII
(ed
è da
ricordare
la
famosa
‘controversia
lipariana’
che
dall’azione
di
due
catapani
ebbe
origine)
è
soltanto
‘servus
publicus
annonae’
(Del
Bono),
guardia
municipale
–
diremmo
oggi
–
addetta
all’annona,
alla
riscossione
dei
tributi
annonari.”
Questa ‘sofisticazione morale’ rappresenta il bivio per il
secondo
percorso
che
avevamo
delineato,
e
che
merita
di
essere
focalizzato,
è
quello
che
porta
in
avanti,
verso
il
futuro,
un
futuro
in
cui
la
sicilianità,
la
sicilitudine
o la
Sicilia
metaforicamente
intesa
si
dilata
fino
a
diventare
Italia
intera.
‘Tutta l’Italia è Sud’, dirà Enzo Biagi a commento di una
sua
intervista
proprio
a
Sciascia.
E
nella
visione
di
dello
scrittore
di
Racalmuto
è
davvero
così.
Di
cornuti
non
ci
sono
solo
singoli,
ma
popoli
interi.
Non
solo
in
Sicilia,
ma
ovunque.
Cambiano i regimi – fascismo, democrazia – ma il potere (ed
il
suo
esercizio)
non
cambia.
Chi
lo
subisce
è
sempre
la
povera
gente,
il
popolo,
il
popolo-bue,
diremmo
oggi.
Ciò
che
muta,
tra
un
regime
e un
altro,
è
solo
la
forma
esteriore,
le
formalità
partecipative,
gli
orpelli,
i
belletti,
le
marcette
al
posto
della
partite
di
calcio
o
viceversa,
l’illusione
delle
lezioni
democratiche
piuttosto
che
il
plebiscito
o il
niente
elettorale,
ma
chi
governa
–
l’oligarchia,
la
cricca,
gli
eletti
o i
gerarchi
–
non
cambia
mai.
Sotto la vernice caleidoscopica delle apparenze democratiche,
c’è
la
dura
realtà
di
un
dominio
– di
casta?
di
classe?
di
poteri
ammanicati,
simbiotici,
concentrici
o
avviluppati
–
che
non
muta
e
attraversa
i
secoli
e le
tipologie
di
governo:
“Il popolo – sogghignò il vecchio – il popolo…. Il popolo
cornuto
era
e
cornuto
resta:
la
differenza
è
che
il
fascismo
appendeva
una
bandiera
solo
alle
corna
del
popolo
e la
democrazia
lascia
che
ognuno
se
l’appenda
da
sé,
del
colore
che
gli
piace,
alle
proprie
corna…
Siamo
al
discorso
di
prima:
non
ci
sono
soltanto
certi
uomini
a
nascere
cornuti,
ci
sono
anche
popoli
interi;
cornuti
dall’antichità,
una
generazione
appresso
all’altra…
Io non mi sento cornuto – disse il giovane.
E nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli
altri:
come
se
ballassimo
– e
il
vecchio
si
alzò
ad
accennare
dei
saltelli
di
danza;
e
voleva
figurare
l’equilibrio
e il
ritmo
del
camminare
sulle
corna,
da
una
punta
all’altra.
(…)
Il popolo, la democrazia – disse il vecchio rassettandosi a
sedere,
un
po’
ansante
per
la
dimostrazione
che
aveva
dato
del
suo
saper
camminare
sulle
corna
della
gente
–
sono
belle
invenzioni:
cose
inventate
a
tavolino,
da
gente
che
sa
mettere
una
parola
in
culo
all’altra
e
tutte
le
parole
in
culo
dell’umanità,
con
rispetto
parlando…
Dico
con
rispetto
parlando
per
l’umanità…
Un
bosco
di
corna,
l’umanità,
più
fitto
del
bosco
della
Ficuzza
quand’era
bosco
davvero.
E
sai
chi
se
la
spassa
a
passeggiare
sulle
corna?
Primo:
tienilo
bene
a
mente:
i
preti;
secondo:
i
politici,
e
tanto
più
dicono
di
essere
col
popolo,
di
volere
il
bene
del
popolo,
tanto
più
gli
calcano
i
piedi
sulle
corna;
terzo:
quelli
come
me e
come
te…
È
vero
che
c’è
il
rischio
di
mettere
il
piede
in
fallo
e di
restare
infilzati,
tanto
per
me
quanto
per
i
preti
e
per
i
politici:
ma
anche
se
mi
squarcia
dentro,
un
corno
è
sempre
un
corno;
e
chi
lo
porta
in
testa
è un
cornuto…
La
soddisfazione,
sangue
di
Dio,
la
soddisfazione:
mi
va
male,
muoio,
ma
siete
dei
cornuti…”.
Da questo punto di vista il potere dello Stato, fatto di
insensibilità
per
i
più
deboli,
arroganza
e
soprusi
non
è
molto
diverso
da
quello
della
mafia.
Anzi,
per
certi
versi,
è
più
incomprensibile:
vuole
sottomissione,
obbedienza,
non
garantendo
nulla,
non
dando
nulla.
È un potere legale, scritto, fatto di leggi, regolamenti,
decreti,
e
incarnato
nei
carabinieri.
La
mafia
è un
potere
orale,
invece.
I
due
poteri
si
fronteggiano.
La
gente
diffida
di
chi
comanda,
dell’arbitrio
insito
in
chi
comanda.
Ma,
dal
punto
di
vista
dell’arbitrio
e
dell’esercizio,
i
siciliani
vivono
il
potere
legale
dello
Stato
non
diversamente
dal
potere
mafioso.
Rappresentano entrambi la soperchieria, la prepotenze, l’abuso:
“Da questa parte non c’era la morte, c’era quest’uomo biondo
e
ben
rasato,
elegante
nella
divisa;
quest’uomo
che
parlava
mangiandosi
le
esse,
che
non
alzava
la
voce
e
non
gli
faceva
pesare
disprezzo:
e
pure
era
la
legge,
quanto
la
morte
paurosa;
non,
per
il
confidente,
la
legge
che
nasce
dalla
ragione
ed è
ragione,
ma
la
legge
di
un
uomo,
che
nasce
dai
pensieri
e
dagli
umori
di
quest’uomo,
dal
graffio
che
si
può
fare
sbarbandosi
o
dal
buon
caffè
che
ha
bevuto,
l’assoluta
irrazionalità
della
legge,
ad
ogni
momento
creata
da
colui
che
comanda,
dalla
guardia
municipale
o
dal
maresciallo,
dal
questore
o
dal
giudice;
da
chi
ha
la
forza,
insomma.
Che
la
legge
fosse
immutabilmente
scritta
ed
uguale
per
tutti,
il
confidente
non
aveva
mia
creduto,
né
poteva:
tra
i
ricchi
e i
poveri,
tra
i
sapienti
e
gli
ignoranti,
c’erano
gli
uomini
della
legge;
e
potevano,
questi
uomini,
allungare
da
una
parte
sola
il
braccio
dell’arbitrio,
l’altra
parte
dovevano
proteggere
e
difendere.
Un
filo
spinato,
un
muro.
E
l’uomo
che
aveva
rubato
e
scontata
una
condanna,
che
stava
coi
mafiosi
e
meditava
prestiti
ad
usura
e
faceva
la
spia,
cercava
soltanto
una
breccia
nel
muro,
uno
slargo
nel
filo
spinato”.
E questo potere risucchia, avvinghia anche coloro che gli
si
sono
o
gli
sono
stati
oppositori.
Li
attrae
a
sé,
senza
che
loro
se
ne
accorgono
quasi.
È
questo
peraltro
il
senso
in
cui
va
letto
Il
contesto.
In quest’ottica, Il giorno della civetta non appare
tanto
come
un
romanzo
sulla
mafia
–
come
sembrava
alla
sua
uscita
- ma
(proprio
come
Il
contesto
e
Todo
modo)
un
romanzo
sullo
Stato.
Su
uno
Stato
ben
preciso:
il
nostro,
l’Italia.
E
anzi
qui
si
incrociano
tre
concezioni
diverse
dello
Stato:
quella
di
Bellodi,
quella
reale
e
quella
interiorizzata
dai
siciliani.
Bellodi è un ‘emiliano di Parma’ e questa sua ‘estraneità
geografica
e
culturale’
consente
di
gettare
una
luce
oggettiva,
neutra,
incuriosita
sulla
realtà
siciliana.
Bellodi
è un
ex
partigiano,
un
uomo
che
ha
saputo
dire
di
no,
che
ama
e
vive
per
le
istituzioni.
Incarna
una
certa,
nobile
concezione
dello
Stato.
Grazie alle sue domande, ai suoi sguardi sulla realtà siciliana
anche
il
lettore
–
identificandosi
con
lui
–
può
conoscere
di
più
l’ambiente
in
cui
i
personaggi
si
muovono.
Ha
un
concezione
nobile
dello
Stato,
dello
Stato
nato
dalla
Costituzione
e,
ancor
prima,
dalla
Resistenza,
uno
Stato-valore,
che
detiene
il
monopolio
della
forza
contro
l’anarchia
e
garantisce
l’attuazione
dei
diritti
e
dei
doveri
dei
cittadini
mediante
le
sue
leggi.
La realtà qual è invece? È quella di uno Stato che si fa
vivo
solo
con
i
carabinieri,
con
l’Arma:
uno
Stato
percepito
–
all’esterno
–
come
inutilmente
prepotente
con
i
deboli
e
inane
con
i
mafiosi
e,
all’interno,
tra
i
carabinieri,
come
impotente
e
basta:
ci
vorrebbe
il
ritorno
a
Mori,
altro
che!
Dietro
Bellodi
e
sopra
di
lui,
poi,
a
Roma
come
nel
capoluogo,
negli
ambienti
ecclesiastici
come
in
quelli
politici,
si
muove
tutta
una
schiera
di
gente
che
lo
bolla
come
‘comunista’
perché
cerca
di
fare
il
suo
dovere,
come
una
scheggia
impazzita
da
fermare
a
tutti
i
costi,
come
un
inaffidabile
del
potere:
“Come
è
piovuto
qua,
questo
Bellodi?”
dirà
un
personaggio
del
romanzo,
al
quale
il
capitano
è
chiaramente
inviso
a
causa
del
suo
impegno
contro
la
mafia.
Ricorderò solo che anche di Dalla Chiesa, in certi ambienti,
si
diceva
la
stessa
cosa.
La
burocrazia
di
Stato
(la
‘eccellenza’
anonima,
ex
funzionario
della
repubblica
di
salò)
nega
l’esistenza
della
mafia
e,
in
questa
vicenda,
vorrebbe
che
tutto
si
mettesse
a
tacere,
orientando
l’inchiesta
verso
il
delitto
passionale
(progetto
che,
peraltro,
si
attuerà
dopo
la
partenza
di
Bellodi
per
l’Emilia)
in
modo
da
evitare
che
vengano
compromessi
i
più
importanti
personaggi
compromessi
col
mondo
mafioso
che
siedono
in
Parlamento:
l’onorevole
Livigni
e il
ministro
Mancuso.
I loro nomi vengono pronunciati dal torbido personaggio che
va a
parlare
con
Bellodi
in
difesa
di
don
Mariano
Arena.
E lo
fa
con
toni
dalle
forti
venature
clericali.
Insomma,
anche
la
Chiesa
benedice
il
connubio
mafia
e
politici
(e
questo
lo
si
nota
anche
dal
dialogo
romano
tra
l’onorevole
e il
losco
proprietario
di
zolfara).
I dialoghi che spostano il luogo dell’inchiesta, sposano
anche
la
prospettiva
monocentrica
dell’azione,
sgranando
la
realtà,
allontanandoci
dalla
focalizzazione
su
un
unico
punto
e
allargando
la
visuale.
In
questo
modo,
vengono
‘inquadrati’
rappresentanti
dello
Stato
(alti
funzionari,
politici)
e
mafiosi
che
testimoniano
di
come
la
contrapposizione
Stato-mafia,
così
dura
e
reale
alla
base
della
piramide
cioè
per
i
carabinieri
sul
territorio,
per
quei
carabinieri,
come
i
sottoposti
di
Bellodi,
che
rischiano
quotidianamente
la
vita,
al
vertice
della
stessa
piramide
si
eclissa,
scompare.
Qui le parti si confondono, la mafia si annette lo Stato.
La
seduta
alla
Camera
cui
è
dato
assistere
ai
due
protetti
dell’onorevole
venuti
a
Roma,
evidenzia
la
malafede
dello
stesso
governo
sul
problema
della
‘pubblica
sicurezza
in
Sicilia’.
E
l’inutile,
ridicola
rissa
dei
deputati
non
turba
la
sorridente
serenità
di
colui
che,
in
parlamento,
ci
sta
per
volere
dei
mafiosi
e
con
i
loro
voti.
Interrogando
Pizzuco
sulla
natura
dei
suoi
‘consigli’
a
Colasberna,
il
capitano
chiede:
“E
qual
è,
secondo
lei,
il
canale
giusto
in
politica?”
Al
che,
il
mafioso
risponde:
“
Direi
quello
del
governo:
chi
comanda
fa
legge…”.
Ma, in fondo, è proprio il capitano Bellodi che, proprio
perché
proviene
da
un’altra
regione
–
che
è,
più
che
altro,
un
diverso
pianeta
-
getta
lo
sguardo
oggettivo
sulla
realtà
siciliana
e
può
tirare
le
conclusioni
inquietanti:
“Bellodi disse che la Sicilia era incredibile. (…)
Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia
per
constatare
quanto
è
incredibile
l’Italia.
Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta
una
fantasia,
leggendo
sui
giornali
gli
scandali
di
quel
governo
regionale:
gli
scienziati
dicono
che
la
linea
della
palma,
vien
su
verso
nord,
di
cinquecento
metri,
mi
pare
ogni
anno…
La
linea
della
palma…
Io
invece
dico:
la
linea
del
caffè
ristretto,
del
caffè
concentrato…
E
sale
come
l’ago
di
mercurio
di
un
termometro,
questa
linea
della
palma,
del
caffè,
degli
scandali:
su
per
l’Italia,
ed è
già
oltre
Roma…”.
Lo stesso tema lo troviamo in A ciascuno il suo, nel
discorso
tra
il
protagonista,
il
professor
Laurana,
e
don
Benito,
fratello
del
defunto
dottor
Roscio.
Se
possibile,
la
questione
della
endemicità,
della
diffusione
della
mafia
nel
resto
d’Italia
viene
posta
in
termini
ancora
più
netti.
Ma la mafia non viene assimilata ai morti ammazzati, ma
alla
mentalità
arrogante,
prepotente,
autoreferenziale
che
presiede
alla
gestione
del
potere,
un
potere
che
Sciascia
identifica,
come
in
Todo
modo,
con
quel
Leviatano
che
è la
Democrazia
Cristiana.
Leggiamo
il
dialogo
di
Laurana
con
Benito
in
cui
vi è
l’allusione,
per
nulla
velata,
alla
tragedia,
allora
recente,
del
Vajont:
“Ma il fatto è, caro amico, che l’Italia è un così felice
paese
che
quando
si
cominciano
a
combattere
le
mafie
vernacole
vuol
dire
che
già
se
ne è
stabilita
una
in
lingua…
Ho
visto
qualcosa
di
simile
quarant’anni
fa:
ed è
vero
che
un
fatto,
nella
grande
e
nella
piccola
storia,
se
si
ripete
ha
caratteri
di
farsa,
mentre
nel
primo
verificarsi
è
tragedia;
ma
io
sono
ugualmente
inquieto.’
‘Ma che c’entra?’ scattò Laurana. ‘Quarant’anni fa, le posso
anche
dare
ragione,
una
mafia
grande
ha
tentato
di
schiacciare
la
piccola….
Ma
oggi,
via…
le
pare
che
oggi
sia
la
stessa
cosa?’
‘Non la stesa cosa…. Però., senta, le voglio raccontare a
modo
di
apologo
un
fatto
che
lei
certamente
conosce…
Una
grande
industria
decide
di
costruire
una
diga,
a
monte
di
una
zona
popolata.
Una
decina
di
deputati,
avvalendosi
del
parere
dei
tecnici,
chiedono
che
la
diga
non
si
faccia:
per
il
pericolo
che
verrebbe
ad
incombere
sulla
zona
sottostante.
Il
governo
lascia
costruire
la
diga.
Più
tardi,
quando
è
già
costruita
e in
funzione,
si
leva
qualche
avvertimento
di
pericolo.
Niente.
Niente
finché
non
succede
quel
disastro
che
alcuni
avevano
previsto.
Risultato:
duemila
persone
morte.
Duemila
persone:
quante
i
Raganà
che
prosperano
qui
ne
liquidano
in
dieci
anni…
E
potrei
raccontare
qui
una
quantità
di
altri
apologhi,
che
peraltro
lei
consoce
benissimo”.
Tuttavia, a questa visione, avvicinabile a quella di personaggi
‘buoni’
–
una
visione
oggettiva
ed
allarmata,
soprattutto
perché
mette
in
discussione,
se
non
crisi,
i
valori
della
resistenza,
della
Costituzione,
del
buon
governo,
della
democrazia
che
il
capitano
ha
interiorizzato
e
per
i
quali
ha
lottato
-
un’altra
fa
da
contraltare:
la
visione,
anzi
la
concezione
antropologica
di
don
Mariano,
basata
su
una
gerarchizzazione
verticale
rigida
degli
uomini
(tutti
gli
uomini
e
non
solo
i
siciliani).
È una concezione più radicale di quella di Bellodi perché
va a
cogliere
l’essenza
dell’umanità,
non
la
struttura-Stato
o
l’istituzione
in
cui
gli
uomini
crescono
e
maturano,
per
dirla
con
Platone.
L’illuminista Sciascia salta – con don Mariano – la società,
la
dialettica
storica,
e va
a
cogliere
l’uomo
nella
sua
nuda
vita,
per
dirla
alla
Foucault:
è la
famosa
teoria
dei
‘tipi’
di
uomini
(che,
peraltro,
si
oppone
alla
dicotomia
secca
del
Vittorini
di
Uomini
e no),
che
tanto
successo
ha
avuto
e
che
trova
fondamento
nel
pensiero
raziocinante
e
categorizzante
di
Sciascia
e
degli
stessi
siciliani:
“Io – proseguì poi don Mariano – ho una certa pratica del
mondo;
e
quella
che
diciamo
l’umanità,
e ci
riempiamo
la
bocca
a
dire
umanità,
bella
parola
piena
di
vento,
la
divido
in
cinque
categorie:
gli
uomini,
i
mezz’uomini,
gli
ominicchi,
i
(con
rispetto
parlando)
piglia
inculo
e i
quaquaraquà…
Pochissimi
gli
uomini;
i
mezz’uomini
pochi,
ché
mi
contenterei
l’umanità
si
fermasse
ai
mezz’uomini….
E
invece
no,
scende
ancora
più
giù,
agli
ominicchi:
che
sono
come
i
bambini
che
si
credono
grandi,m
scimmie
che
fanno
le
stesse
mosse
dei
grandi…
E
ancora
più
in
giù:
i
pigliainculo,
che
vanno
diventando
un
esercito….
E
infine
i
quaquaraquà:
che
dovrebbero
vivere
come
le
anatre
nelle
pozzanghere,
ché
la
loro
vita
non
ha
più
senso
e
più
espressione
di
quella
delle
anatre…
Lei
anche
se
mi
inchioderà
su
queste
carte
come
un
Cristo,
lei
è un
uomo…
(…)
Perché sono un uomo: e non un mezz’uomo o addirittura un
quaquaraquà?-
domandò
con
esasperata
durezza.
Perché – disse don Mariano – da questo posto dove lei si
trova
è
facile
mettere
il
piede
sulla
faccia
di
un
uomo:
e
lei
invece
ha
rispetto...
Da
persone
che
stanno
dove
sta
lei,
dove
sta
il
brigadiere,
molti
anni
addietro
io
ho
ricevuto
offesa
peggiore
della
morte:
un
ufficiale
come
lei
mi
ha
schiaffeggiato;
e
giù,
nelle
camere
di
sicurezza,
un
maresciallo
mi
appoggiava
la
brace
del
suo
sigaro
alla
pianta
dei
piedi,
e
rideva….
E io
dico:
si
può
più
dormire
quando
si è
stati
offesi
così?
Io dunque non la offendo?
No: lei è un uomo – affermò ancora don Mariano.
E le pare cosa da uomo ammazzare o fare ammazzare un altro
uomo?
Io non ho mai fatto niente di simile. Ma se lei mi domanda,
a
passatempo,
per
discorrere
di
cose
della
vita,
se è
giusto
togliere
la
vita
a un
uomo,
io
dico:
prima
bisogna
vedere
se è
un
uomo…”.
L’inconciliabilità e la tensione tra i due piani di pensiero,
tra
le
due
concezioni,
il
loro
situarsi
su
un
piano
di
reciproco
incontro-scontro,
di
opposizione
ed
irriducibilità,
ma
pur
sempre
all’interno
di
un
sistema
che
si
tiene
proprio
in
virtù
di
tale
contrapposizione,
è
reso
palese
subito
dopo:
“… Lei anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo,
lei
è un
uomo.
Anche lei – disse il capitano con una certa emozione. E nel
disagio
che
subito
sentì
di
quel
saluto
delle
armi
scambiato
con
un
capo
mafia,
a
giustificazione
pensò
di
aver
stretto
le
mani,
nel
clamore
di
una
festa
della
nazione,
e
come
rappresentanti
della
nazione
circonfusi
di
trombe
e
bandiere,
al
Ministro
Mancuso
e
all’onorevole
Livigni:
sui
quali
don
Mariano
aveva
davvero
il
vantaggio
di
essere
un
uomo.
Al
di
là
della
morale
e
della
legge,
al
di
là
della
pietà,
era
una
massa
irredenta
di
energia
umana,
una
massa
di
solitudine,
una
cieca
e
tragica
volontà:
e
come
un
cieco
ricostruisce
nella
mente,
oscuro
e
informe,
il
mondo
degli
oggetti,
così
don
Mariano
ricostruiva
il
mondo
dei
sentimenti,
delle
leggi,
dei
rapporti
umani.
E
quale
altra
nozione
poteva
avere
del
mondo,
se
intorno
a
lui
la
voce
del
diritto
era
stata
sempre
soffocata
dalla
forza
e il
vento
degli
avvenimenti
aveva
soltanto
cangiato
il
colore
delle
parole
su
una
realtà
immobile
e
putrida”.
Queste citazioni rivelano una oggettiva impossibilità di
accedere
al
concetto
di
legge
garantita
dallo
Stato.
Manca
la
nozione
stessa
di
Stato,
mentre
è
chiara
quella
di
governo,
di
esercizio
del
potere
ad
opera
di
una
parte.
L’ideologia di Bellodi che è quella su cui si fonda il concetto
di
stato
di
diritto
sembra
radicalmente
estranea
non
solo
al
mondo
mafioso,
ma
addirittura
al
mondo
siciliano
e,
più
radicalmente,
al
mondo
italiano
per
come
si
sta
configurando
in
base
alla
teoria
della
‘linea
della
palma’.
Manca una legge, cioè una costanza che non dipenda solo
dagli
umori
‘di
chi
sta
in
alto’.
Manca
soprattutto
una
legge
che
metta
nelle
mani
dei
servitori
dello
Stato
veri
strumenti
per
combattere
il
malaffare.
Così
almeno
sembra
al
capitano,
in
un
momento
di
sconforto
ed
impotenza,
subito
dopo
l’uccisione
di
Parrineddu.
In
un
improvviso
scoppio
d’ira,
sente
la
ristrettezza
della
legge
e
sbotta:
“Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il
capitano
sentì
l’angustia
in
cui
la
legge
lo
costringeva
a
muoversi;
come
i
suoi
sottoufficiali
vagheggiò
un
eccezionale
potere,
una
eccezionale
libertà
di
azione:
e
sempre
questo
vagheggiamento
aveva
condannato
nei
suoi
marescialli.
Una
eccezionale
sospensione
delle
garanzie
costituzionali,
in
Sicilia
e
per
qualche
mese:
e il
male
sarebbe
stato
estirpato
per
sempre.
Ma
gli
vennero
alla
memoria
le
repressioni
di
Mori,
il
fascismo:
e
ritrovò
la
misura
delle
proprie
idee,
dei
propri
sentimenti.
Ma
durava
la
collera,
la
sua
collera
di
uomo
del
nord
che
investiva
la
Sicilia
intera:
questa
regione
che,
sola
in
Italia,
dalla
dittatura
fascista
aveva
avuto
in
effetti
libertà,
la
libertà
che
è
nella
sicurezza
della
vita
e
dei
beni.
Quante
altre
libertà
questa
loro
libertà
era
costata,
i
siciliani
non
sapevano
e
non
volevano
sapere:
avevano
visto
sul
banco
degli
imputati,
nei
grandi
processi
delle
assise,
tutti
i
don
e
gli
zii,
i
potenti
capi
elettori
e i
commendatori
della
Corona,
medici
e
avvocati
che
si
intrigavano
alla
malavita
o la
proteggevano;
magistrati
deboli
o
corrotti
erano
stati
destituiti;
funzionari
compiacenti
allontanati.
Per
il
contadino,
per
il
piccolo
proprietario,
per
il
pastore,
per
lo
zolfataro,
la
dittatura
parlava
questo
linguaggio
di
libertà”.
Lo spazio della legge è angusto, ma necessario. E, applicata
con
logica
ed
onestà,
senza
compromessi
e
connivenza,
la
legge,
il
diritto,
sono
l’unica
risorsa
per
combattere
la
mafia.
Basta
che
metta
a
disposizione
degli
inquirenti
gli
strumenti
giusti.
Sciascia fece clamore per quel dialogo tra Bellodi e don
Mariano,
un
dialogo
che,
apparentemente,
secondo
le
lettura
di
alcuni,
metteva
sullo
stesso
piano
di
dignità
il
servitore
dello
Stato
(il
buono)
e il
mafioso
(il
cattivo).
Eppure,
pochi
hanno
fatto
caso
alla
rilevanza
della
pagina
precedente,
una
pagina
che
è
anche
un
suggerimento
nella
lotta
alla
mafia,
una
proposta
(l’unico
caso,
a
nostro
avviso,
di
‘scatto
in
avanti’
anziché
di
sola
analisi
nell’opera
dello
scrittore:
“Questo è il punto – pensò il capitano - su cui bisognerebbe
far
leva.
È
inutile
tentare
di
incastrare
nel
penale
un
uomo
come
costui:
non
ci
saranno
mai
prove
sufficienti,
il
silenzio
degli
onesti
e
dei
disonesti
lo
proteggerà
sempre.
Ed è
inutile
,
oltre
che
pericoloso,
vagheggiare
una
sospensione
dei
diritti
costituzionali.
Un
nuovo
Mori
diventerebbe
subito
strumento
politico-elettoralistico;
braccio
non
del
regime,
ma
di
una
fazione
del
regime:
la
fazione
Mancuso-Livigni
o la
fazione
Sciortino-Caruso.
Qui
bisognerebbe
sorprendere
la
gente
nel
covo
dell’inadempienza
fiscale,
come
in
America.
Ma
non
soltanto
le
persone
come
Mariano
Arena;
e
non
soltanto
qui
in
Sicilia.
Bisognerebbe,
di
colpo,
piombare
sulle
banche;
mettere
mani
esperte
nelle
contabilità,
generalmente
a
doppio
fondo,
delle
grandi
e
delle
piccole
aziende;
revisionare
i
catasti.
E
tutte
quelle
volpi,
vecchie
e
nuove,
che
stanno
a
sprecare
il
loro
fiuto
dietro
le
idee
politiche
o le
tendenze
o
gli
incontri
dei
membri
più
inquieti
di
quella
grande
famiglia
che
è il
regime,
e
dietro
i
vicini
di
casa
della
famiglia,
e
dietro
i
nemici
della
famiglia,
sarebbe
meglio
si
mettessero
ad
annusare
intorno
alle
ville,
le
automobili
fuori
serie,
le
mogli,
le
amanti
di
certi
funzionari:
e
tirarne
il
giusto
senso.
Soltanto
così
ad
uomini
come
don
Mariano
comincerebbe
a
mancare
il
terreno
sotto
i
piedi…
In
ogni
altro
paese
del
mondo,
una
evasione
fiscale
come
quella
che
sto
constatando
sarebbe
duramente
punita:
qui
don
Mariano
se
ne
ride,
sa
che
non
gli
ci
vorrà
molto
ad
imbrogliare
le
carte”.
Val al pena sottolineare che questo suggerimento lo Stato
italiano
lo
farà
proprio
solo
21
anni
dopo
con
la
legge
Rognoni-La
Torre.
E
dopo
la
morte
sia
di
Dalla
Chiesa
che
dello
stesso
Pio
La
Torre.
Ma il potere, Sciascia lo sa, ha una forza, un’energia calamitosa:
attrae
tutti,
anche
quelli
che
fino
a
poco
tempo
prima
gli
si
opponevano
come
il
comunista
Testaquadra,
di
cui
parla
Benito,
l’interlocutore
di
Laurana
in
A
ciascuno
il
suo.
Testaquadra, per Benito, è un ‘fascista’ (intenso nel senso
più
totalizzante
di
uomo
d’apparato
e di
potere)
perché
si è
fatto
corrompere
dalla
brama
di
potere,
dal
suo
esercizio,
dalle
sottigliezze
collegate
a
questo
stesso
esercizio
e
dalla
volontà
(e
dal
gusto)
di
piegare
la
giustizia
per
farla
diventare
privilegio,
il
diritto
arbitrio,
l’amicizia
tornaconto
personale:
“(…) Lei è fascista?
Ma no, tutt’altro.
Non si offenda: lo siamo un po’ tutti.
Davvero? - fece Laurana, divertito e irritato.
Ma sì… E le faccio subito un esempio, che è anche esempio
di
una
delle
mie
più
recenti
e
cocenti
delusioni…
Peppino
Testaquadra,
mio
vecchio
amico:
uno
che
dal
ventisette
al
quarantatré
ha
passato
tra
carcere
e
confino
gli
anni
migliori
della
vita,
uno
che
a
dargli
del
fascista
salterebbe
su
per
scannarvi
o
per
ridervi
sul
muso…
Eppure
lo
è.
Fascista, lei dice? Testaquadra fascista?
Lo conosce?
Ho sentito qualche suo discorso, leggo i suoi articoli.
E, naturalmente, dal suo passato e da quello che dice e
scrive,
lei
ritiene
che
a
considerarlo
fascista
ci
voglia
una
forte
carica
di
malafede
o di
pazzia….
Ebbene,
forse
di
pazzia
sì,
se
consideriamo
la
pazzia
una
specie
di
porto
franco
della
verità;
ma
non
di
malafede,
assolutamente…
È un
mio
amico,
le
dico,
un
mio
vecchio
amico.
Ma
non
c’è
niente
da
fare,
è un
fascista.
Uno
che
arriva
a
trovarsi
una
piccola
e
magari
scomoda
nicchia
nel
potere,
e da
quella
nicchia
eco
che
comincia
a
distinguere
l’interesse
dello
Stato
da
quello
del
cittadino,
il
diritto
del
so
elettore
da
quello
del
so
avversario,
la
convenienza
dalla
giustizia…”.
Nello stesso gorgo è risucchiato il Partito Rivoluzionario
(con
chiara
allusione
al
PCI),
che,
nel
Contesto,
ha
ormai
rinunciato
alla
vocazione
rivoluzionaria
e si
è
adagiato
anch’esso
nel
mero
esercizio
del
potere,
nella
spartizione
benevola
di
influenze,
mercati
elettorali,
gestioni
di
amministrazioni,
di
governi
municipali,
ecc..
con
il
partito
di
maggioranza.
È la condanna inappellabile del compromesso storico. Ma è
la
condanna
di
un
partito,
il
PCI
che
ha
rinunciato
a
perseguire
gli
scopi
di
giustizia,
libertà,
uguaglianza,
emancipazione
delle
classi
più
povere
in
nome
della
coabitazione
e
dell’entrata
nella
cosiddetta
stanza
dei
bottoni.
Il romanzo, ricordiamo, fece arrabbiare quelli del PCI, che
lo
accolsero
con
severe
critiche
sulle
pagine
dell’Unità,
di
Rinascita,
di
Paese
Sera
e
persino
dell’Ora
di
Palermo.
Cusan
è
uno
scrittore,
amico
di
Rogas,
il
detective
che
morirà
dopo
aver
ucciso
il
segretario
del
Partito
Rivoluzionario
Amar.
Alla
fine
del
romanzo,
Cusan,
che
è un
intellettuale
organico
ingenuo
e
idealista,
va a
parlare
con
il
vicesegretario
e
qui
gli
si
rivela
la
verità,
la
vera
strategia
politica
del
Partito:
“La Ragion di Stato, signor Cusan: c’è ancora, come ai tempi
di
Richelieu.
E in
questo
caso
è
coincisa,
diciamo,
con
la
ragion
di
Partito….
L’agente
ha
preso
la
più
saggia
decisione
che
potesse
prendere:
uccidere
anche
Rogas.
Ma la ragion di Partito… Voi… La menzogna, la verità: insomma…
-
Cusan
quasi
balbettava.
Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio
che
scoppiasse
una
rivoluzione
-. E
aggiunse
–
Non
in
questo
momento.
Capisco – disse Cusan. – Non in questo momento”.
È da notare l’amara ironia di Cusan, un’ironia piena di
impotenza,
di
rassegnazione:
‘Capisco,
non
in
questo
momento’.
Ragion
di
Stato,
ragion
di
partito.
Lo
Stato
si
fa
partito
e
viceversa.
E
tutto
si
fa
potere.
E la
gestione
del
potere
o lo
stare
nel
suo
cono
d’ombra
è
quello
che
ormai
interessa
e
converte.
Nel
Contesto,
com’è
noto,
si
evidenziano
presunti
rivoluzionari
che
giocano
solo
a
fare
i
rivoluzionari
e
vanno
a
braccetto
con
i
potenti
ministri
di
maggioranza,
vanno
alle
loro
feste,
alle
loro
cene,
vivono
a
scrocco,
hanno
paura
di
pubblicare
cose
eccessivamente
compromettenti,
ossia
rivoluzionarie:
basta
infarcire
discorsi
e
scritti
con
le
classiche,
stereotipate
formule
marxiste-leniniste
e
possono
sopravvivere
con
un’identità
smorta,
con
un
ruolo
non
richiesto
e
che
funge
solo
da
specchietto
per
le
allodole
del
potere
che
a
parole
dicono
di
voler
combattere
e
abbattere
e
che
in
realtà
legittimano.
Un
potere
che
corrompe,
dicevamo,
per
gente
che
si
fa
corrompere,
aggiungiamo:
“Il presidente della Corte Suprema abitava all’attico di
una
palazzina
immersa
nel
verde
di
un
parco
che
una
volta
era
stata
la
residenza
estiva,
appena
fuori
le
mura,
dei
duchi
di
San
Concordio.
L’associazione
per
la
tutela
del
verde
aveva
menato
scandalo
per
il
parco
che
diventava
zona
residenziale,
ma
ora
in
quella
zona
avevano
residenza
due
o
tre
membri
del
consiglio
direttivo
della
stessa
associazione,
oltre
a un
paio
di
ministri,
una
diecina
di
deputati
(di
diversa,
si
dice
per
dire,
fede
politica),
il
presidente
e il
procuratore
della
Corte
Suprema”.
Un potere che, nel romanzo (un romanzo, ricordiamo, anticipatore
per
moltissimi
aspetti:
si
parla
della
strategia
della
tensione,
dei
tentativi
di
golpe,
della
politica
del
compromesso
storico,
dell’agire
incontrollato
dei
servizi
segreti,
della
generalizzata
corruzione),
questo
potere,
dicevamo,
trova
la
sua
massima,
più
terribile
e
sintomatica
espressione
nel
Procuratore
Riches.
Costui
incarna
l’arroganza,
la
presunzione,
la
prepotenza,
anche
culturale,
del
potere.
È uomo solo, che in solitudine medita sull’ordine della
società
e,
soprattutto,
sull’amministrazione
della
giustizia.
Già,
la
giustizia,
il
cruccio
di
Sciascia,
il
focolaio
di
mille
polemiche,
a
cominciare
da
quella
sui
cosiddetti
‘professionisti
dell’antimafia’.
Nell’intervista rilasciata a Davide Lajolo, Conversazioni
in
una
stanza
chiusa,
dirà
che
“finchè
non
si
troverà
una
soluzione
tecnica
che
non
contravvenga
all’idea
di
diritto,
preferirò
sempre
che
la
giustizia
venga
danneggiata
piuttosto
che
negata.
Questa
è la
mia
eresia:
gli
inquisitori
mi
diano
la
condanna
che
vogliono.
Ma
ci
sono
tanti
eretici,
per
fortuna,
in
questo
nostro
paese;
benché
non
sembri”.
E, a Enzo Biagi che, in un’intervista, gli chiedeva come
nasce
il
nuovo
fascismo,
rispondeva:
“qualcosa
che
si
manifesta
con
la
fine
della
giustizia.”
E, allora, per tornare ai nostri romanzi, è proprio nell’ambito
della
giustizia,
nella
sua
trattazione
tecnica,
premessa
per
la
necessaria
applicazione
pratica
(che,
a
sua
volta,
è la
cosa
che
davvero
interessa
i
cittadini
di
uno
Stato)
che
si
manifesta
l’essenza
ultima
dello
Stato
o
meglio
del
potere,
di
un
potere
ormai
invasivo,
senza
controllo,
negazione
dello
Stato
di
diritto.
E si materializza in una concezione della giustizia assoluta,
totalitario,
antigarantista
nella
maniera
più
assoluta
e
devastante:
è la
concezione
del
Procuratore
Riches,
appunto,
che,
non
a
caso,
per
esporre
la
sua
teoria,
prende
le
mosse
da
una
critica
al
Trattato
sulla
tolleranza
di
Voltaire:
“Segua il mio ragionamento, dunque… Il punto debole del
trattato
di
Voltaire,
il
punto
da
cui
io
parto
per
rimettere
le
cose
in
sesto,
si
trova
proprio
nella
prima
pagina,
quando
pone
la
differenza
tra
la
morte
i
guerra
e la
morte,
diciamo,
per
giustizia.
Questa
differenza
non
esiste:
la
giustizia
siede
su
un
perenne
stato
di
pericolo,
su
un
perenne
stato
di
guerra.
Cos’
era
anche
ai
tempi
di
Voltaire,
ma
non
si
vedeva;
e
comunque
Voltaire
era
troppo
grossolano
pe4r
accorgersene.
Ma
ora
si
vede:
la
massa
ha
reso
macroscopico
quel
che
prima
poteva
essere
colto
da
uno
spirito
sottile,
ha
portato
l’esistenza
umana
a un
totale
e
assoluto
stato
di
guerra.
Mi
spingerò
a un
paradosso,
che
può
anch’essere
una
previsione:
la
sola
forma
possibile
di
giustizia,
di
amministrazione
della
giustizia,
potrebbe
essere,
e
sarà,
quella
che
nella
guerra
militare
si
chiama
decimazione.
Il
singolo
risponde
dell’umanità.
E
l’umanità
risponde
del
singolo.
Non
ci
potrà
essere
altro
modo
di
amministrare
la
giustizia.
Dico
di
più:
non
c’è
mai
stato.
Ma
ora
viene
il
momento
di
teorizzarlo,
di
codificarlo.
Perseguire
il
colpevole,
i
colpevoli,
è
impossibile;
praticamente
impossibile,
tecnicamente.
Non
è
più
il
cercare
l’ago
nel
pagliaio,
ma
il
cercare
nel
pagliaio
il
filo
di
paglia.
(…)
Il
suo
mestiere,
mio
caro
amico,
è
diventato
ridicolo.
Presuppone
l’esistenza
dell’individuo,
e
l’individuo
non
c’è.
Presuppone
l’esistenza
di
dio,
il
dio
che
acceca
gli
uni
e
illumina
gli
altri,
il
dio
che
si
nasconde:
e
talmente
a
lungo
è
rimasto
nascosto
che
possiamo
presumerlo
morto.
Presuppone
la
pace,
e
c’è
la
guerra…
Questo
è il
punto:
la
guerra…
C’è
la
guerra:
e il
disonore
e il
delitto
debbono
essere
restituiti
ai
corpi
della
moltitudine,
come
nelle
guerre
militari
ai
reggimenti,
alle
divisioni,
alle
armate.
Puniti
nel
numero.
Giudicati
dalla
sorte”.
È evidente come il riferimento, per la ‘teoria di Riches’
sia
il
racconto
La
panne
di
Friedrich
Durrenmatt,
laddove
il
protagonista,
Traps,
si
ritrova
causalmente
ospite
in
una
cena
tra
giudici
in
cui
verrà
simulato
un
mostruoso
processo:
“Traps
–
dice
Durrenmatt
–
doveva
essere
considerato
non
un
criminale,
ma
una
vittima
del
nostro
tempo,
della
nostra
civiltà
occidentale
che,
ahimè!,
era
venuta
perdendo
a
poco
a
poco
la
fede….
Il
cristianesimo,
i
valori
universali
ed
era
diventata
un
caos,
sicché
il
singolo
non
aveva
più
una
stella
che
lo
guidasse,
non
si
vedeva
che
disordine
e
abbrutimento,
violenza
e
immoralità…”
E allora: sia la decimazione. Applicata in un rassicurante
contesto.
“Mi duole l’Italia”, affermò, parafrasando Miguel de Unamuno,
Sciascia
nell’intervista
a
Lajolo.
Sintesi
meravigliosa,
efficacissima,
a
mio
modo
di
vedere.
L’Italia,
non
la
Sicilia
o il
Sud.
Un’Italia ormai preda di scempi, culturali e paesaggistici,
da
cui
le
lucciole,
per
ricordare
Pasolini,
sono
scomparse.
L’Italia
ridotta
ad
un
deserto,
o
quasi.
In
una
lettera
a
Calvino,
poco
prima
della
pubblicazione
del
Contesto,
Sciascia
racconta
di
come
la
sua
prima
intenzione
fosse
stata
quella
di
scrivere
un
‘divertissement’,
ma
di
come
“poi
la
storia
cominciò
a
muoversi
in
un
paese
del
tutto
immaginario,
un
paese
–
dice
Sciascia
–
dove
non
avevano
più
corso
le
idee,
dove
i
principi
–
ancora
proclamati
o
conclamati
–
venivano
quotidianamente
irrisi,
dove
le
ideologie
si
riducevano
in
politica
a
pure
denominazioni
nel
giuoco
delle
parti
che
il
potere
si
assegnava,
dove
soltanto
il
potere
per
il
potere
contava.
Un
paese
immaginario,
ripeto
–
aggiungeva.
E si
può
anche
pensare
all’Italia,
alla
Sicilia;
ma
nel
senso
del
mio
amico
Guttuso
quando
dice:
‘anche
se
dipingo
una
mela
c’è
la
Sicilia’.
La
luce.
Il
colore.
E il
verme
che
da
dentro
se
la
mangia?
Ecco,
il
verme,
in
questa
mia
parodia,
è
tutto
d’immaginazione.
Possono
essere
siciliani
e
italiani
la
luce,
i
colori
(ma
ce
n’è,
poi?),
gli
accidenti,
i
dettagli;
ma
la
sostanza
(se
c’è)
vuole
essere
quella
di
un
apologo
sul
potere
nel
mondo,
sul
potere
che
sempre
più
digrada
nella
impenetrabile
forma
di
una
concatenazione
che
approssimativamente
possiamo
dire
mafiosa…”
e
puntualizza
che
Il
contesto
è la
metafora
letteraria
di
una
“desertificazione
ideologica
e
morale”,
in
cui
la
“verità
della
rivoluzione”
in
Italia,
si
avvia
alla
definitiva
sconfitta,
a
vantaggio
di
un
potere
mostruoso
che
“mette
tutto
e
tutti
insieme,
intesse
tutto.
Assimila tutto. Anche l’opposizione, anche la contestazione”
(ricordiamo
come
Sciascia
resti
folgorato
dall’uso
del
termine
‘potere’
fatto
da
Moro,
in
una
lettera
dalla
prigionia
delle
BR:
“non
voglio
trovarmi
tra
quelli
che
sono
al
potere”,
scrive).
Insomma, tutto ciò che abbiamo visto finora. Ma io vorrei
attrarre
la
vostra
attenzione
sul
concetto
di
“desertificazione
ideologica
e
morale”.
È
una
chiara
metafora
spaziale:
il
deserto,
il
nulla
ideologico,
ideale,
morale,
etico.
Un deserto che si rende manifesto nelle ultime pagine del
Contesto,
nello
sgomento
esistenziale,
prima
che
ideologico
dello
scrittore
Cusan,
nella
sua
angoscia
davanti
alla
morte
di
Rogas,
l’amico
stimato,
ma
soprattutto
davanti
al
tracollo
effettivo
di
tutte
le
speranze
che,
incarnate
nel
Partito
Rivoluzionario,
portatore
di
ideali
nuovi,
di
un
mondo
nuovo,
vacillano
clamorosamente,
fino,
poi,
a
crollare
del
tutto.
Anche
visivamente,
la
città
è un
deserto.
E
dal
punto
di
osservazione
di
Cusan
–
dietro
una
finestra,
in
alto,
nel
suo
appartamento
–
appare
come
un
canyon:
“Non farti prendere dal panico, si disse. Il povero Rogas.
Il
povero
Amar.
Questo
povero
paese.
E
intanto
da
dietro
i
vetri
della
finestra
scrutava
la
strada
assolata
e
deserta
come
fosse
la
gola
di
un
canyon:
l’agguato
silenzioso,
il
colpo
secco
del
cecchino
ad
abbattere
l’esploratore
che
vi
si
avventura.
E
subito
si
ritrasse
dalla
finestra,
ché
il
cecchino
poteva
stare
alla
finestra
di
fronte.
Solo in casa, la moglie e i figli al mare. Sempre solo, nei
momenti
difficili
della
sua
vita.
Quali
momenti
difficili?
Ne
cercò
che
somigliassero
a
questo
che
stava
attraversando.
Ma
questo
non
era
un
momento
difficile:
era
la
fine.
E
intorno
al
pensiero
della
fine,
della
morte
che
lo
attendeva
nel
canyon,
lentamente
si
rapprese
un
senso
di
quiete,
forse
anche
il
sonno.
Come
una
trasparenza:
oltre
la
quale
i
fatti,
le
persone,
le
cose
ora
si
accampavano
come
in
quarantena.
Disinfestati.
Asettici.
Tornò ad aver paura che il canyon era in ombra. Ora scrivo
tutto,
si
disse”.
Da notare l’ultimo periodo citato: “Ora scrivo tutto, si
disse.”
Questo
ci
conduce
alla
conclusione
del
nostro
percorso,
che
è
anche
un
ritorno
al
valore
della
scrittura
e
della
letteratura
in
Sciascia.
La letteratura, per Sciascia, è verità. Una verità in azione,
possiamo
aggiungere.
Nel
1958,
in
un
racconto
intitolato
La
sesta
giornata,
Sciascia
scriveva
di
non
riuscire
a
capire
come
un
“testo
possa
splendere
di
verità
e
mancare
di
poesia.
E se
un
poeta
non
scrive
‘parole
che
vogliono
farsi
azione’,
non
sappiamo
davvero
che
cosa
e
perché
scriva”.
Nel 1979, in Nero su nero, si chiede cosa sia la
letteratura.
La
risposta:
“
Forse
un
sistema
di
‘oggetti
interni’
(e
uso
con
impertinenza
questa
espressione
del
professor
Whitehead)
che
variamente,
alternativamente,
imprevedibilmente
splendono,
si
eclissano,
tornano
a
splendere
e ad
eclissarsi-
e
così
via
–
alla
luce
della
verità.
Come
dire:
un
sistema
solare.”
Due definizioni molto diverse, come si vede: probabilmente
perché
la
prima
dettata
dalle
influenze
neorealiste
(siamo
nel
1958!),
che
tuttavia
pongono
l’accento
sulla
verità
di
cui
deve
farsi
portatore
e
cercatore
lo
scrittore.
E
nell’intervista
a
Marcelle
Padovani,
a
precisa
domanda,
risponde:
“Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura
distinguendosi
dalla
falsa
solo
per
l’ineffabile
senso
della
verità.
Va
tuttavia
precisato
che
lo
scrittore
non
è
per
questo
né
un
filosofo
né
uno
storico,
ma
solo
qualcuno
che
coglie
intuitivamente
la
verità.
Per
quanto
mi
riguarda,
io
scopro
nella
letteratura
quel
che
non
riesco
a
scoprire
negli
analisti
più
elucubranti,
i
quali
vorrebbero
fornire
spiegazioni
esaurienti
e
soluzioni
a
tutti
i
problemi.
Sì,
la
storia
mente
e le
sue
menzogne
avvolgono
di
una
stessa
polvere
tutte
le
teorie
che
dalla
storia
nascono”.
Compito dello scrittore, quindi, è cercare la verità e raccontarla.
È un
compito
etico.
Quindi
pubblico,
concetto
che
è
molto
vicino
a
politico.
“Uno scrittore dovrebbe poter dire – scrive sempre in
Nero
su
nero
a
proposito
di
alcune
dichiarazioni
dello
scrittore
argentino
Jorge
Luis
Borges
-
che
la
politica
di
cui
si
occupa
è
etica.
Sarebbe
bello
che
potessero
dirlo
tutti.
Ma
che
almeno
lo
dicano
gli
scrittori”.
Sciascia, allora, indagando, scrivendo, raccontando della
realtà
italiana,
non
fa
altro
che
parlare
dei
suoi
rapporti
-
orizzontali
e
verticali
– di
potere.
Il suo protagonismo umano – per così dire – è coinvolto in
un
destino
collettivo
e lo
cala
nel
male
della
storia,
identificando
il
dramma
personale
con
la
tragedia
collettiva,
sociale.
L’utopia o il miraggio di Sciascia è rintracciare nel fondo
delle
coscienze
frustrate,
assopite,
narcotizzate,
ingannate
e
rappresenta
non
una
privata
e
individualistica
speranza,
una
reazione
personale,
ma
la
ragione
di
una
riscossa
comunitaria,
una
verità
pubblica
che,
come
diceva
Giuseppe
Fava,
è il
baluardo
della
civiltà
contro
la
barbarie.
È la verità della rivolta, del coraggio, anche a rischio di
essere
sconfitti.
E
allora,
al
potere
che
si
può
manifestare
come
anonima
violenza
gratuita
e
sopraffazione
terroristica
(l’esempio
più
terrificante
è
L’uomo
dal
passamontagna
di
cui
Sciascia
parla
nelle
Cronachette),
lo
scrittore,
l’intellettuale
si
può
opporre
con
la
ricerca
e la
manifestazione
della
verità
pubblica,
come
racconta
lui
in
Nero
su
nero,
rispolverando
una
pagina
di
un
vecchio
manuale
di
letteratura
italiana
in
cui
ci
viene
restituita
l’immagine
di
un
Manzoni
scrittore
civile,
coraggioso
e
modernissimo
(almeno
a
giudicare
dalle
recenti
polemiche
su
quegli
scrittori
che
hanno
firmato
il
famoso
appello
pro-Battisti
e
meritevoli,
pertanto,
di
punizione,
secondo
alcuni
fini
cervelli
politici,
mediante
la
messa
al
bando
dei
loro
libri…):
“Uno dei libri che, appena imparato a leggere, mi sono trovato
tra
le
mani,
è
stata
l’antologia
di
prose
e
poesie
italiane,
per
uso
delle
scuole,
di
Luigi
Morandi.
(…)
Trovandone
oggi
una
copia
bel
rilegata
(…)
la
prendo.
E
non
per
nostalgia,
ma
soltanto
perché
ricordo
che
c’è
un
episodio
della
vita
di
Manzoni
che
non
ho
mai
ritrovato
nelle
biografie
manzoniane
che
conosco.
Lo
trovo
subito,
a
pagina
159
(…).
Vale
la
pena
trascriverlo
(…):
“Durante
la
terza
delle
cinque
giornate,
riuscì
a
penetrare
in
città,
travestito
da
carrettiere,
quel
conte
Enrico
Martini
che
fu
poi
deputato
al
Parlamento
italiano
per
il
collegio
di
Crema
sua
patria,
e
che
morì
nel
1868.
Egli
veniva
da
Torino,
dove
aveva
parlato
con
Carlo
Alberto,
il
quale
gli
aveva
detto
che
il
suo
più
vivo
desiderio
era
d’aiutare
l’insurrezione,
occupando
Milano
col
proprio
esercito;
ma
che
per
far
ciò
contro
il
parere
di
tutta
la
diplomazia
europea,
ci
sarebbe
voluto
un
pretesto:
per
esempio,
una
petizione
de’
più
cospicui
cittadini
di
Milano,
che
lo
avessero
chiamato
sotto
colore
di
salvar
la
città
da
una
probabile
anarchia.
Appena
il
Martini
ebbe
partecipato
questa
cosa
ai
capi
dell’insurrezione,
la
petizione
fu
stesa,
e se
ne
fecero
cinque
o
sei
copie.
Una
ne
prese
il
Broglio
e
corse
da
Manzoni
per
farlo
firmare
il
primo.
Lo
trovò
sulla
porta
di
casa
in
compagnia
del
suo
amico
Antonio
Sogni,
fratello
del
noto
pittore
Giuseppe.
Il
combattimento
durava
accanito,
e le
sorti
ne
erano
ancora
incerte;
onde
la
firma
sotto
quell’atto,
se
fosse
caduto
in
mano
agli
austriaci,
poteva
in
quei
momenti
costare
assai
cara.
Ma
il
Manzoni
aderì
immediatamente
alla
preghiera
del
Broglio;
il
quale,
presa
una
penna
in
una
bottega
vicina,
lo
fece
firmare
alla
meglio
sopra
il
cappello
a
cilindro
del
Sogni…
Pochi
gironi
appresso
però
il
Manzoni,
forse
pensando
che
la
carta
a
lui
sottoscritta
poteva
essere
conservata,
fece
capire
al
Sogni
che
avrebbe
volentieri
riparlato
col
Broglio.
Questo
si
recò
allora
dal
Manzoni,
che
gli
domandò
se
si
rammentava
del
modo
onde
egli
aveva
dovuto
firmare
la
petizione.
‘Sicuro!’
rispose
il
Broglio.
‘Sul
cappello
del
Sogni’.
‘Ho
proprio
piacere
che
ella
se
ne
rammenti,
-
soggiunse
il
Manzoni
–
perché,
ripensandoci,
mi
ricordai
che
la
firma
riuscì
di
carattere
mal
fermo,
e
non
vorrei
che
nessuno
potesse
attribuirne
la
causa
alla
qualità
dell’atto
che
stavo
firmando’”.
L’episodio fu raccontato dal Broglio al Morandi: ed oltre a
conferire
al
Manzoni
un
tratto
di
fermezza
civile,
può
essere
assunto
oggi
come
parabola
della
firma
difficile
che
si
paga,
contro
la
firma
facile
e
che
non
si
paga.
Insomma, è la verità del camusiano uomo in rivolta quella
che
ci
presenta
Sciascia.
Anche
a
costo
della
sconfitta.
“A cosa serve vivere se non si ha il coraggio di lottare”,
dirà
Fava.
E
infatti
va
ricordato
come
tutti
i
suoi
personaggi
‘buoni’,
da
Bellodi
a
Laurana,
dall’ispettore
Rogas
del
Contesto
al
Vice
del
Cavaliere
e la
morte
fino
al
brigadiere
Lagandara
della
Storia
semplice
sono
degli
uomini
in
rivolta,
benché
tutti,
a
vario
modo,
sconfitti:
i
primi
quattro
muoiono,
l’ultimo
uccide
il
commissario
corrotto,
ma
non
svelerà
la
fitta
trama
di
connivenze
e
corruzioni
che
sta
dietro
l’omicidio
dell’ex
diplomatico
Roccella.
Senza illusioni, ma capaci di dire di no al male, alla corruzione,
al
fascismo,
alla
mafia.
Fino
alle
estreme
conseguenze.
Riferimenti
bibliografici:
Addamo,
Sebastiano,
Vittorini
e la
narrativa
siciliana
contemporanea,
Salvatore
Sciascia
editore,
Caltanissetta,
1962;
Ambroise,
Claude,
Invito
alla
lettura
di
Sciascia,
Mursia,
Milano,
1978;
Bellini,
Giovanna
–
Mazzoni,
Giovanni,
Sciascia
e la
Sicilia
nella
narrativa
del
Novecento,
Laterza,
Bari-Roma,
1999;
Cattanei,
Luigi,
Leonardo
Sciascia:
introduzione
e
guida
allo
studio
dell’opera
sciasciana
con
antologia
della
critica,
Le
Monnier,
Firenze,
1979;
Cilluffo,
Filippo,
Due
scrittori
siciliani:
Brancati
e
Sciascia,
Salvatore
Sciascia
editore,
Caltanissetta,
1974;
Collura,
Matteo
(a
cura),
Leonardo
Sciascia.
La
memoria,
il
futuro,
Bompiani,
Milano,
1999;
Collura,
Matteo,
Alfabeto
eretico,
Longanesi
&
C.,
Milano,
2002;
Collura,
Matteo,
Il
maestro
di
Regalpetra,
TEA,
Milano,
2007;
Crovi,
Luca,
Leonardo
Sciascia:
crimini
e
società
in
Sicilia,
in
Id.,
Tutti
i
colori
del
giallo,
Marsilio,
Venezia,
2002,
pp.
76-78;
Ghetti
Albruzzi,
Giovanna,
Leonardo
Sciascia
e la
Sicilia,
Bulzoni,
Roma,
1974;
Lajolo,
Davide,
Conversazione
in
una
stanza
chiusa:
Leonardo
Sciascia,
Sperling
&
Kupfer,
Milano,
1981;
Lo
Dico,
Onofrio,
Leonardo
Sciascia.
Tecniche
narrative
e
ideologia,
Salvatore
Sciascia
editore,
Caltanissetta-Roma,
1988;
Macaluso,
Emanuele,
Leonardo
Sciascia
e i
comunisti,
Feltrinelli,
Milano,
2010;
Magni,
Enrico,
L’omicidio
in
Sciascia,
Eldonejo,
Padova,
1991;
Moliterni,
Fabio,
La
nera
scrittura.
Saggi
su
Leonardo
Sciascia,
Edizioni
B.
A.
Graphis,
2007;
Moro,
Walter,
Sciascia,
Nuova
Italia,
Firenze,
1973;
Motta,
Antonio,
Leonardo
Sciascia.
La
verità,
l’aspra
verità,
Lacaita
Editore,
Manduria-Bari-Roma,
1985;
Motta,
Antonio,
Giorni
felici
con
Leonardo
Sciascia,
Casagrande,
Bellinzona,
2004;
Onofri,
Massimo,
Vita
di
Sciascia,
Laterza,
Bari-Roma,
2004;
Palazzolo,
Lanfranco,
Leonardo
Sciascia
deputato
radicale
1979-1983,
Kaos,
Milano,
2004;
Pierangeli,
Fabio,
Indagini
e
sospetti
in
Pirandello,
Camus,
Durrenmatt,
Sciascia,
Betti,
L’Epos,
Palermo,
2004;
Rossani,
Ottavio,
Leonardo
Sciascia,
Luisè
editore,
Rimini,
1990;
Sciascia,
Leonardo,
La
Sicilia
come
metafora,
intervista
di
Marcelle
Padovani,
Mondadori,
Milano,
1997;
Sciascia,
Leonardo,
Un
onorevole
siciliano:
le
interpellanze
parlamentari
di
Leonardo
Sciascia
commentate
da
Andrea
Camilleri,
Bompiani,
Milano,
2009;
Sciuti
Russi,
Vittorio,
Gli
uomini
di
tenace
concetto:
Leonardo
Sciascia
e
l’inquisizione
spagnola
in
Sicilia,
La
vita
felice,
Milano,
1996;
Sgroi,
Salvatore
Claudio,
Per
la
lingua
di
Pirandello
e
Sciascia,
Salvatore
Sciascia
editore,
Caltanissetta-Roma,
1990;
Spalanca,
Carmelo,
Da
Regalpetra
a
Parigi:
Leonardo
Sciascia
tra
critica
italiana
e
critica
francese,
Salvatore
Sciascia
editore,
Caltanissetta,
1994;
Traina,
Giuseppe,
Leonardo
Sciascia,
Bruno
Mondadori,
Milano,
1999.