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N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

 a proposito di sciascia
parte iI - lo spazio immobile, lo spazio del potere

di Giuseppe Tramontana

 

"Superior stabat lupus"

 

Parlavamo dei due percorsi che si possono delineare a partire dalla ‘sofisticazione sessuale’, per dirla con Sciascia. Riguardo al primo percorso, quello storico, Sciascia ha le idee piuttosto chiare: la Sicilia è quella che è a causa della storia che si è trovata a vivere. Una storia fatta di invasioni, violenze, sopraffazioni, dominazioni più o meno efferate.

 

Tutte cose che hanno portato i siciliani a diffidare di ogni potere costituito, a guardarlo con sospetto, a cercare, da un lato, di conviverci, tenendoselo buono, standone lontano, non immischiandosi con esso (‘di cappeddi e malu passu pàrrini beni ma stanni arrassu’, dice un proverbio popolare), dall’altra, di parlarne bene, usarlo se possibile, piegarlo ai voleri privati. Emblematica da questo punto di vista l’episodio che vede per protagonista un cane, il cane Barruggieddu:

 

“Il capitano si avvicinò al cane per accarezzarlo.

 No – disse il vecchio allarmato – è cattivo: una persona che non conosce, magari prima si fa toccare, la fa assicurare: e poi morde…. È cattivo quanto un diavolo.

E come si chiama? Domandò il capitano, incuriosito dallo strano nome che il vecchio aveva pronunciato per acquietarlo.

Barruggieddu si chiama – disse il vecchio.

E che vuol dire? – domandò il capitano.

Vuol dire uno che è cattivo – disse il vecchio.

Mai sentito – disse il brigadiere. E in dialetto chiese altre spiegazioni al vecchio. Il vecchio disse che forse il nome giusto era Barricieddu, o forse Bargieddu: ma in ogni caso significava malvagità, la malvagità di uno che comanda; ché un tempo i Barruggieddi o Bargeddi comandavano i paesi e mandavano gente alla forca, per piacere malvagio.

Ho capito – disse il capitano – vuol dire Bargello: il capo degli sbirri.

Imbarazzato, il vecchio non disse né sì né no”.

 

Come è palese la diffidenza verso il potere! Il cane, cattivo come un diavolo, ha il nome di un funzionario, di un governatore del passato: ma non il nome di persona, bensì il nome della funzione! È questo lo straordinario.

 

È come se, tra cento anni, chiamassimo un cane Questore o Prefetto (o Provveditore agli studi, che so…). Altra annotazione: è un nome che molto frequentemente si affibbia ai cani, almeno nella zona di Racalmuto e questo è segno della popolarità del fenomeno, non attribuibile solo all’ingegnosità o all’ironia di qualche mente originale.

 

In questo senso, anche un altro nome, Catapanu, subisce lo stesso slittamento di senso e significato:

 

“CATAPANU. FARISI PIGLIARI DI LU CATAPANU. Catapano. Farsi prendere dal catapano: e cioè farsi prendere dal panico, per timore e paura agitarsi, confondersi. Catapano è antica voce: bizantina, medievale. Governatore dio provincia, in Sicilia, durante la dominazione bizantina; funzionario amministrativo-giudiziario, ‘magistrato per giudicare le liti nei mercati’, successivamente; finché nel secolo XVII (ed è da ricordare la famosa ‘controversia lipariana’ che dall’azione di due catapani ebbe origine) è soltanto ‘servus publicus annonae’ (Del Bono), guardia municipale – diremmo oggi – addetta all’annona, alla riscossione dei tributi annonari.”

 

Questa ‘sofisticazione morale’ rappresenta il bivio per il secondo percorso che avevamo delineato, e che merita di essere focalizzato, è quello che porta in avanti, verso il futuro, un futuro in cui la sicilianità, la sicilitudine o la Sicilia metaforicamente intesa si dilata fino a diventare Italia intera.

 

‘Tutta l’Italia è Sud’, dirà Enzo Biagi a commento di una sua intervista proprio a Sciascia. E nella visione di dello scrittore di Racalmuto è davvero così. Di cornuti non ci sono solo singoli, ma popoli interi. Non solo in Sicilia, ma ovunque.

 

Cambiano i regimi – fascismo, democrazia – ma il potere (ed il suo esercizio) non cambia. Chi lo subisce è sempre la povera gente, il popolo, il popolo-bue, diremmo oggi. Ciò che muta, tra un regime e un altro, è solo la forma esteriore, le formalità partecipative, gli orpelli, i belletti, le marcette al posto della partite di calcio o viceversa, l’illusione delle lezioni democratiche piuttosto che il plebiscito o il niente elettorale, ma chi governa – l’oligarchia, la cricca, gli eletti o i gerarchi – non cambia mai.

 

Sotto la vernice caleidoscopica delle apparenze democratiche, c’è la dura realtà di un dominio – di casta? di classe? di poteri ammanicati, simbiotici, concentrici o avviluppati – che non muta e attraversa i secoli e le tipologie di governo:

 

“Il popolo – sogghignò il vecchio – il popolo…. Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna… Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall’antichità, una generazione appresso all’altra…

Io non mi sento cornuto – disse il giovane.

E nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo – e il vecchio si alzò ad accennare dei saltelli di danza; e voleva figurare l’equilibrio e il ritmo del camminare sulle corna, da una punta all’altra. (…)

Il popolo, la democrazia – disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente – sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole in culo dell’umanità, con rispetto parlando… Dico con rispetto parlando per l’umanità… Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quand’era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo: tienilo bene a mente: i preti; secondo: i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calcano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te… È vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno; e chi lo porta in testa è un cornuto… La soddisfazione, sangue di Dio, la soddisfazione: mi va male, muoio, ma siete dei cornuti…”.

 

Da questo punto di vista il potere dello Stato, fatto di insensibilità per i più deboli, arroganza e soprusi non è molto diverso da quello della mafia. Anzi, per certi versi, è più incomprensibile: vuole sottomissione, obbedienza, non garantendo nulla, non dando nulla.

 

È un potere legale, scritto, fatto di leggi, regolamenti, decreti, e incarnato nei carabinieri. La mafia è un potere orale, invece. I due poteri si fronteggiano. La gente diffida di chi comanda, dell’arbitrio insito in chi comanda. Ma, dal punto di vista dell’arbitrio e dell’esercizio, i siciliani vivono il potere legale dello Stato non diversamente dal potere mafioso.

 

Rappresentano entrambi la soperchieria, la prepotenze, l’abuso:

 

“Da questa parte non c’era la morte, c’era quest’uomo biondo e ben rasato, elegante nella divisa; quest’uomo che parlava mangiandosi le esse, che non alzava la voce e non gli faceva pesare disprezzo: e pure era la legge, quanto la morte paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione ed è ragione, ma la legge di un uomo, che nasce dai pensieri e dagli umori di quest’uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi o dal buon caffè che ha bevuto, l’assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha la forza, insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti, il confidente non aveva mia creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c’erano gli uomini della legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola il braccio dell’arbitrio, l’altra parte dovevano proteggere e difendere. Un filo spinato, un muro. E l’uomo che aveva rubato e scontata una condanna, che stava coi mafiosi e meditava prestiti ad usura e faceva la spia, cercava soltanto una breccia nel muro, uno slargo nel filo spinato”.

 

E questo potere risucchia, avvinghia anche coloro che gli si sono o gli sono stati oppositori. Li attrae a sé, senza che loro se ne accorgono quasi. È questo peraltro il senso in cui va letto Il contesto.

 

In quest’ottica, Il giorno della civetta non appare tanto come un romanzo sulla mafia – come sembrava alla sua uscita - ma (proprio come Il contesto e Todo modo) un romanzo sullo Stato. Su uno Stato ben preciso: il nostro, l’Italia. E anzi qui si incrociano tre concezioni diverse dello Stato: quella di Bellodi, quella reale e quella interiorizzata dai siciliani.

 

Bellodi è un ‘emiliano di Parma’ e questa sua ‘estraneità geografica e culturale’ consente di gettare una luce oggettiva, neutra, incuriosita sulla realtà siciliana. Bellodi è un ex partigiano, un uomo che ha saputo dire di no, che ama e vive per le istituzioni. Incarna una certa, nobile concezione dello Stato.

 

Grazie alle sue domande, ai suoi sguardi sulla realtà siciliana anche il lettore – identificandosi con lui – può conoscere di più l’ambiente in cui i personaggi si muovono. Ha un concezione nobile dello Stato, dello Stato nato dalla Costituzione e, ancor prima, dalla Resistenza, uno Stato-valore, che detiene il monopolio della forza contro l’anarchia e garantisce l’attuazione dei diritti e dei doveri dei cittadini mediante le sue leggi.

 

La realtà qual è invece? È quella di uno Stato che si fa vivo solo con i carabinieri, con l’Arma: uno Stato percepito – all’esterno – come inutilmente prepotente con i deboli e inane con i mafiosi e, all’interno, tra i carabinieri, come impotente e basta: ci vorrebbe il ritorno a Mori, altro che! Dietro Bellodi e sopra di lui, poi, a Roma come nel capoluogo, negli ambienti ecclesiastici come in quelli politici, si muove tutta una schiera di gente che lo bolla come ‘comunista’ perché cerca di fare il suo dovere, come una scheggia impazzita da fermare a tutti i costi, come un inaffidabile del potere: “Come è piovuto qua, questo Bellodi?” dirà un personaggio del romanzo, al quale il capitano è chiaramente inviso a causa del suo impegno contro la mafia.

 

Ricorderò solo che anche di Dalla Chiesa, in certi ambienti, si diceva la stessa cosa. La burocrazia di Stato (la ‘eccellenza’ anonima, ex funzionario della repubblica di salò) nega l’esistenza della mafia e, in questa vicenda, vorrebbe che tutto si mettesse a tacere, orientando l’inchiesta verso il delitto passionale (progetto che, peraltro, si attuerà dopo la partenza di Bellodi per l’Emilia) in modo da evitare che vengano compromessi i più importanti personaggi compromessi col mondo mafioso che siedono in Parlamento: l’onorevole Livigni e il ministro Mancuso.

 

I loro nomi vengono pronunciati dal torbido personaggio che va a parlare con Bellodi in difesa di don Mariano Arena. E lo fa con toni dalle forti venature clericali. Insomma, anche la Chiesa benedice il connubio mafia e politici (e questo lo si nota anche dal dialogo romano tra l’onorevole e il losco proprietario di zolfara).

 

I dialoghi che spostano il luogo dell’inchiesta, sposano anche la prospettiva monocentrica dell’azione, sgranando la realtà, allontanandoci dalla focalizzazione su un unico punto e allargando la visuale. In questo modo, vengono ‘inquadrati’ rappresentanti dello Stato (alti funzionari, politici) e mafiosi che testimoniano di come la contrapposizione Stato-mafia, così dura e reale alla base della piramide cioè per i carabinieri sul territorio, per quei carabinieri, come i sottoposti di Bellodi, che rischiano quotidianamente la vita, al vertice della stessa piramide si eclissa, scompare.

 

Qui le parti si confondono, la mafia si annette lo Stato. La seduta alla Camera cui è dato assistere ai due protetti dell’onorevole venuti a Roma, evidenzia la malafede dello stesso governo sul problema della ‘pubblica sicurezza in Sicilia’. E l’inutile, ridicola rissa dei deputati non turba la sorridente serenità di colui che, in parlamento, ci sta per volere dei mafiosi e con i loro voti. Interrogando Pizzuco sulla natura dei suoi ‘consigli’ a Colasberna, il capitano chiede: “E qual è, secondo lei, il canale giusto in politica?” Al che, il mafioso risponde: “ Direi quello del governo: chi comanda fa legge…”.

 

Ma, in fondo, è proprio il capitano Bellodi che, proprio perché proviene da un’altra regione – che è, più che altro, un diverso pianeta - getta lo sguardo oggettivo sulla realtà siciliana e può tirare le conclusioni inquietanti:

 

“Bellodi disse che la Sicilia era incredibile. (…)

Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia.

Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, vien su verso nord, di cinquecento metri, mi pare ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè, degli scandali: su per l’Italia, ed è già oltre Roma…”.

 

Lo stesso tema lo troviamo in A ciascuno il suo, nel discorso tra il protagonista, il professor Laurana, e don Benito, fratello del defunto dottor Roscio. Se possibile, la questione della endemicità, della diffusione della mafia nel resto d’Italia viene posta in termini ancora più netti.

 

Ma la mafia non viene assimilata ai morti ammazzati, ma alla mentalità arrogante, prepotente, autoreferenziale che presiede alla gestione del potere, un potere che Sciascia identifica, come in Todo modo, con quel Leviatano che è la Democrazia Cristiana. Leggiamo il dialogo di Laurana con Benito in cui vi è l’allusione, per nulla velata, alla tragedia, allora recente, del Vajont:

 

“Ma il fatto è, caro amico, che l’Italia è un così felice paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha caratteri di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto.’

‘Ma che c’entra?’ scattò Laurana. ‘Quarant’anni fa, le posso anche dare ragione, una mafia grande ha tentato di schiacciare la piccola…. Ma oggi, via… le pare che oggi sia la stessa cosa?’

‘Non la stesa cosa…. Però., senta, le voglio raccontare a modo di apologo un fatto che lei certamente conosce… Una grande industria decide di costruire una diga, a monte di una zona popolata. Una decina di deputati, avvalendosi del parere dei tecnici, chiedono che la diga non si faccia: per il pericolo che verrebbe ad incombere sulla zona sottostante. Il governo lascia costruire la diga. Più tardi, quando è già costruita e in funzione, si leva qualche avvertimento di pericolo. Niente. Niente finché non succede quel disastro che alcuni avevano previsto. Risultato: duemila persone morte. Duemila persone: quante i Raganà che prosperano qui ne liquidano in dieci anni… E potrei raccontare qui una quantità di altri apologhi, che peraltro lei consoce benissimo”.

 

Tuttavia, a questa visione, avvicinabile a quella di personaggi ‘buoni’ – una visione oggettiva ed allarmata, soprattutto perché mette in discussione, se non crisi, i valori della resistenza, della Costituzione, del buon governo, della democrazia che il capitano ha interiorizzato e per i quali ha lottato - un’altra fa da contraltare: la visione, anzi la concezione antropologica di don Mariano, basata su una gerarchizzazione verticale rigida degli uomini (tutti gli uomini e non solo i siciliani).

 

È una concezione più radicale di quella di Bellodi perché va a cogliere l’essenza dell’umanità, non la struttura-Stato o l’istituzione in cui gli uomini crescono e maturano, per dirla con Platone.

 

L’illuminista Sciascia salta – con don Mariano – la società, la dialettica storica, e va a cogliere l’uomo nella sua nuda vita, per dirla alla Foucault: è la famosa teoria dei ‘tipi’ di uomini (che, peraltro, si oppone alla dicotomia secca del Vittorini di Uomini e no), che tanto successo ha avuto e che trova fondamento nel pensiero raziocinante e categorizzante di Sciascia e degli stessi siciliani:

 

“Io – proseguì poi don Mariano – ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) piglia inculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini…. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi,m scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito…. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… (…)

Perché sono un uomo: e non un mezz’uomo o addirittura un quaquaraquà?- domandò con esasperata durezza.

Perché – disse don Mariano – da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto... Da persone che stanno dove sta lei, dove sta il brigadiere, molti anni addietro io ho ricevuto offesa peggiore della morte: un ufficiale come lei mi ha schiaffeggiato; e giù, nelle camere di sicurezza, un maresciallo mi appoggiava la brace del suo sigaro alla pianta dei piedi, e rideva…. E io dico: si può più dormire quando si è stati offesi così?

Io dunque non la offendo?

No: lei è un uomo – affermò ancora don Mariano.

E le pare cosa da uomo ammazzare o fare ammazzare un altro uomo?

Io non ho mai fatto niente di simile. Ma se lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo…”.

 

L’inconciliabilità e la tensione tra i due piani di pensiero, tra le due concezioni, il loro situarsi su un piano di reciproco incontro-scontro, di opposizione ed irriducibilità, ma pur sempre all’interno di un sistema che si tiene proprio in virtù di tale contrapposizione, è reso palese subito dopo:

 

“… Lei anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.

Anche lei – disse il capitano con una certa emozione. E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pensò di aver stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al Ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro e informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida”.

 

Queste citazioni rivelano una oggettiva impossibilità di accedere al concetto di legge garantita dallo Stato. Manca la nozione stessa di Stato, mentre è chiara quella di governo, di esercizio del potere ad opera di una parte.

 

L’ideologia di Bellodi che è quella su cui si fonda il concetto di stato di diritto sembra radicalmente estranea non solo al mondo mafioso, ma addirittura al mondo siciliano e, più radicalmente, al mondo italiano per come si sta configurando in base alla teoria della ‘linea della palma’.

 

Manca una legge, cioè una costanza che non dipenda solo dagli umori ‘di chi sta in alto’. Manca soprattutto una legge che metta nelle mani dei servitori dello Stato veri strumenti per combattere il malaffare. Così almeno sembra al capitano, in un momento di sconforto ed impotenza, subito dopo l’uccisione di Parrineddu. In un improvviso scoppio d’ira, sente la ristrettezza della legge e sbotta:

 

“Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottoufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni. Quante altre libertà questa loro libertà era costata, i siciliani non sapevano e non volevano sapere: avevano visto sul banco degli imputati, nei grandi processi delle assise, tutti i don e gli zii, i potenti capi elettori e i commendatori della Corona, medici e avvocati che si intrigavano alla malavita o la proteggevano; magistrati deboli o corrotti erano stati destituiti; funzionari compiacenti allontanati. Per il contadino, per il piccolo proprietario, per il pastore, per lo zolfataro, la dittatura parlava questo linguaggio di libertà”.

 

Lo spazio della legge è angusto, ma necessario. E, applicata con logica ed onestà, senza compromessi e connivenza, la legge, il diritto, sono l’unica risorsa per combattere la mafia. Basta che metta a disposizione degli inquirenti gli strumenti giusti.

 

Sciascia fece clamore per quel dialogo tra Bellodi e don Mariano, un dialogo che, apparentemente, secondo le lettura di alcuni, metteva sullo stesso piano di dignità il servitore dello Stato (il buono) e il mafioso (il cattivo). Eppure, pochi hanno fatto caso alla rilevanza della pagina precedente, una pagina che è anche un suggerimento nella lotta alla mafia, una proposta (l’unico caso, a nostro avviso, di ‘scatto in avanti’ anziché di sola analisi nell’opera dello scrittore:

 

“Questo è il punto – pensò il capitano - su cui bisognerebbe far leva. È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile , oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione dei diritti costituzionali. Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico-elettoralistico; braccio non del regime, ma di una fazione del regime: la fazione Mancuso-Livigni o la fazione Sciortino-Caruso. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi… In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte”.

 

Val al pena sottolineare che questo suggerimento lo Stato italiano lo farà proprio solo 21 anni dopo con la legge Rognoni-La Torre. E dopo la morte sia di Dalla Chiesa che dello stesso Pio La Torre.

 

Ma il potere, Sciascia lo sa, ha una forza, un’energia calamitosa: attrae tutti, anche quelli che fino a poco tempo prima gli si opponevano come il comunista Testaquadra, di cui parla Benito, l’interlocutore di Laurana in A ciascuno il suo.

 

Testaquadra, per Benito, è un ‘fascista’ (intenso nel senso più totalizzante di uomo d’apparato e di potere) perché si è fatto corrompere dalla brama di potere, dal suo esercizio, dalle sottigliezze collegate a questo stesso esercizio e dalla volontà (e dal gusto) di piegare la giustizia per farla diventare privilegio, il diritto arbitrio, l’amicizia tornaconto personale:

 

“(…) Lei è fascista?

Ma no, tutt’altro.

Non si offenda: lo siamo un po’ tutti.

Davvero? - fece Laurana, divertito e irritato.

Ma sì… E le faccio subito un esempio, che è anche esempio di una delle mie più recenti e cocenti delusioni… Peppino Testaquadra, mio vecchio amico: uno che dal ventisette al quarantatré ha passato tra carcere e confino gli anni migliori della vita, uno che a dargli del fascista salterebbe su per scannarvi o per ridervi sul muso… Eppure lo è.

Fascista, lei dice? Testaquadra fascista?

Lo conosce?

Ho sentito qualche suo discorso, leggo i suoi articoli.

E, naturalmente, dal suo passato e da quello che dice e scrive, lei ritiene che a considerarlo fascista ci voglia una forte carica di malafede o di pazzia…. Ebbene, forse di pazzia sì, se consideriamo la pazzia una specie di porto franco della verità; ma non di malafede, assolutamente… È un mio amico, le dico, un mio vecchio amico. Ma non c’è niente da fare, è un fascista. Uno che arriva a trovarsi una piccola e magari scomoda nicchia nel potere, e da quella nicchia eco che comincia a distinguere l’interesse dello Stato da quello del cittadino, il diritto del so elettore da quello del so avversario, la convenienza dalla giustizia…”.

 

Nello stesso gorgo è risucchiato il Partito Rivoluzionario (con chiara allusione al PCI), che, nel Contesto, ha ormai rinunciato alla vocazione rivoluzionaria e si è adagiato anch’esso nel mero esercizio del potere, nella spartizione benevola di influenze, mercati elettorali, gestioni di amministrazioni, di governi municipali, ecc.. con il partito di maggioranza.

 

È la condanna inappellabile del compromesso storico. Ma è la condanna di un partito, il PCI che ha rinunciato a perseguire gli scopi di giustizia, libertà, uguaglianza, emancipazione delle classi più povere in nome della coabitazione e dell’entrata nella cosiddetta stanza dei bottoni.

 

Il romanzo, ricordiamo, fece arrabbiare quelli del PCI, che lo accolsero con severe critiche sulle pagine dell’Unità, di Rinascita, di Paese Sera e persino dell’Ora di Palermo. Cusan è uno scrittore, amico di Rogas, il detective che morirà dopo aver ucciso il segretario del Partito Rivoluzionario Amar. Alla fine del romanzo, Cusan, che è un intellettuale organico ingenuo e idealista, va a parlare con il vicesegretario e qui gli si rivela la verità, la vera strategia politica del Partito:

 

“La Ragion di Stato, signor Cusan: c’è ancora, come ai tempi di Richelieu. E in questo caso è coincisa, diciamo, con la ragion di Partito…. L’agente ha preso la più saggia decisione che potesse prendere: uccidere anche Rogas.

Ma la ragion di Partito… Voi… La menzogna, la verità: insomma… - Cusan quasi balbettava.

Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione -. E aggiunse – Non in questo momento.

Capisco – disse Cusan. – Non in questo momento”.

 

È da notare l’amara ironia di Cusan, un’ironia piena di impotenza, di rassegnazione: ‘Capisco, non in questo momento’. Ragion di Stato, ragion di partito. Lo Stato si fa partito e viceversa. E tutto si fa potere. E la gestione del potere o lo stare nel suo cono d’ombra è quello che ormai interessa e converte. Nel Contesto, com’è noto, si evidenziano presunti rivoluzionari che giocano solo a fare i rivoluzionari e vanno a braccetto con i potenti ministri di maggioranza, vanno alle loro feste, alle loro cene, vivono a scrocco, hanno paura di pubblicare cose eccessivamente compromettenti, ossia rivoluzionarie: basta infarcire discorsi e scritti con le classiche, stereotipate formule marxiste-leniniste e possono sopravvivere con un’identità smorta, con un ruolo non richiesto e che funge solo da specchietto per le allodole del potere che a parole dicono di voler combattere e abbattere e che in realtà legittimano. Un potere che corrompe, dicevamo, per gente che si fa corrompere, aggiungiamo:

 

“Il presidente della Corte Suprema abitava all’attico di una palazzina immersa nel verde di un parco che una volta era stata la residenza estiva, appena fuori le mura, dei duchi di San Concordio. L’associazione per la tutela del verde aveva menato scandalo per il parco che diventava zona residenziale, ma ora in quella zona avevano residenza due o tre membri del consiglio direttivo della stessa associazione, oltre a un paio di ministri, una diecina di deputati (di diversa, si dice per dire, fede politica), il presidente e il procuratore della Corte Suprema”.

 

Un potere che, nel romanzo (un romanzo, ricordiamo, anticipatore per moltissimi aspetti: si parla della strategia della tensione, dei tentativi di golpe, della politica del compromesso storico, dell’agire incontrollato dei servizi segreti, della generalizzata corruzione), questo potere, dicevamo, trova la sua massima, più terribile e sintomatica espressione nel Procuratore Riches. Costui incarna l’arroganza, la presunzione, la prepotenza, anche culturale, del potere.

 

È uomo solo, che in solitudine medita sull’ordine della società e, soprattutto, sull’amministrazione della giustizia. Già, la giustizia, il cruccio di Sciascia, il focolaio di mille polemiche, a cominciare da quella sui cosiddetti ‘professionisti dell’antimafia’.

 

Nell’intervista rilasciata a Davide Lajolo, Conversazioni in una stanza chiusa, dirà che “finchè non si troverà una soluzione tecnica che non contravvenga all’idea di diritto, preferirò sempre che la giustizia venga danneggiata piuttosto che negata. Questa è la mia eresia: gli inquisitori mi diano la condanna che vogliono. Ma ci sono tanti eretici, per fortuna, in questo nostro paese; benché non sembri”.

 

E, a Enzo Biagi che, in un’intervista, gli chiedeva come nasce il nuovo fascismo, rispondeva: “qualcosa che si manifesta con la fine della giustizia.”

 

E, allora, per tornare ai nostri romanzi, è proprio nell’ambito della giustizia, nella sua trattazione tecnica, premessa per la necessaria applicazione pratica (che, a sua volta, è la cosa che davvero interessa i cittadini di uno Stato) che si manifesta l’essenza ultima dello Stato o meglio del potere, di un potere ormai invasivo, senza controllo, negazione dello Stato di diritto.

 

E si materializza in una concezione della giustizia assoluta, totalitario, antigarantista nella maniera più assoluta e devastante: è la concezione del Procuratore Riches, appunto, che, non a caso, per esporre la sua teoria, prende le mosse da una critica al Trattato sulla tolleranza di Voltaire:

 

“Segua il mio ragionamento, dunque… Il punto debole del trattato di Voltaire, il punto da cui io parto per rimettere le cose in sesto, si trova proprio nella prima pagina, quando pone la differenza tra la morte i guerra e la morte, diciamo, per giustizia. Questa differenza non esiste: la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra. Cos’ era anche ai tempi di Voltaire, ma non si vedeva; e comunque Voltaire era troppo grossolano pe4r accorgersene. Ma ora si vede: la massa ha reso macroscopico quel che prima poteva essere colto da uno spirito sottile, ha portato l’esistenza umana a un totale e assoluto stato di guerra. Mi spingerò a un paradosso, che può anch’essere una previsione: la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo. Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile; praticamente impossibile, tecnicamente. Non è più il cercare l’ago nel pagliaio, ma il cercare nel pagliaio il filo di paglia. (…) Il suo mestiere, mio caro amico, è diventato ridicolo. Presuppone l’esistenza dell’individuo, e l’individuo non c’è. Presuppone l’esistenza di dio, il dio che acceca gli uni e illumina gli altri, il dio che si nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto. Presuppone la pace, e c’è la guerra… Questo è il punto: la guerra… C’è la guerra: e il disonore e il delitto debbono essere restituiti ai corpi della moltitudine, come nelle guerre militari ai reggimenti, alle divisioni, alle armate. Puniti nel numero. Giudicati dalla sorte”.

 

È evidente come il riferimento, per la ‘teoria di Riches’ sia il racconto La panne di Friedrich Durrenmatt, laddove il protagonista, Traps, si ritrova causalmente ospite in una cena tra giudici in cui verrà simulato un mostruoso processo: “Traps – dice Durrenmatt – doveva essere considerato non un criminale, ma una vittima del nostro tempo, della nostra civiltà occidentale che, ahimè!, era venuta perdendo a poco a poco la fede…. Il cristianesimo, i valori universali ed era diventata un caos, sicché il singolo non aveva più una stella che lo guidasse, non si vedeva che disordine e abbrutimento, violenza e immoralità…”

 

E allora: sia la decimazione. Applicata in un rassicurante contesto.

 

“Mi duole l’Italia”, affermò, parafrasando Miguel de Unamuno, Sciascia nell’intervista a Lajolo. Sintesi meravigliosa, efficacissima, a mio modo di vedere. L’Italia, non la Sicilia o il Sud.

 

Un’Italia ormai preda di scempi, culturali e paesaggistici, da cui le lucciole, per ricordare Pasolini, sono scomparse. L’Italia ridotta ad un deserto, o quasi. In una lettera a Calvino, poco prima della pubblicazione del Contesto, Sciascia racconta di come la sua prima intenzione fosse stata quella di scrivere un ‘divertissement’, ma di come “poi la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario, un paese – dice Sciascia – dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati o conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava. Un paese immaginario, ripeto – aggiungeva. E si può anche pensare all’Italia, alla Sicilia; ma nel senso del mio amico Guttuso quando dice: ‘anche se dipingo una mela c’è la Sicilia’. La luce. Il colore. E il verme che da dentro se la mangia? Ecco, il verme, in questa mia parodia, è tutto d’immaginazione. Possono essere siciliani e italiani la luce, i colori (ma ce n’è, poi?), gli accidenti, i dettagli; ma la sostanza (se c’è) vuole essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa…” e puntualizza che Il contesto è la metafora letteraria di una “desertificazione ideologica e morale”, in cui la “verità della rivoluzione” in Italia, si avvia alla definitiva sconfitta, a vantaggio di un potere mostruoso che “mette tutto e tutti insieme, intesse tutto.

 

Assimila tutto. Anche l’opposizione, anche la contestazione” (ricordiamo come Sciascia resti folgorato dall’uso del termine ‘potere’ fatto da Moro, in una lettera dalla prigionia delle BR: “non voglio trovarmi tra quelli che sono al potere”, scrive).

 

Insomma, tutto ciò che abbiamo visto finora. Ma io vorrei attrarre la vostra attenzione sul concetto di “desertificazione ideologica e morale”. È una chiara metafora spaziale: il deserto, il nulla ideologico, ideale, morale, etico.

 

Un deserto che si rende manifesto nelle ultime pagine del Contesto, nello sgomento esistenziale, prima che ideologico dello scrittore Cusan, nella sua angoscia davanti alla morte di Rogas, l’amico stimato, ma soprattutto davanti al tracollo effettivo di tutte le speranze che, incarnate nel Partito Rivoluzionario, portatore di ideali nuovi, di un mondo nuovo, vacillano clamorosamente, fino, poi, a crollare del tutto. Anche visivamente, la città è un deserto. E dal punto di osservazione di Cusan – dietro una finestra, in alto, nel suo appartamento – appare come un canyon:

 

“Non farti prendere dal panico, si disse. Il povero Rogas. Il povero Amar. Questo povero paese. E intanto da dietro i vetri della finestra scrutava la strada assolata e deserta come fosse la gola di un canyon: l’agguato silenzioso, il colpo secco del cecchino ad abbattere l’esploratore che vi si avventura. E subito si ritrasse dalla finestra, ché il cecchino poteva stare alla finestra di fronte.

Solo in casa, la moglie e i figli al mare. Sempre solo, nei momenti difficili della sua vita. Quali momenti difficili? Ne cercò che somigliassero a questo che stava attraversando. Ma questo non era un momento difficile: era la fine. E intorno al pensiero della fine, della morte che lo attendeva nel canyon, lentamente si rapprese un senso di quiete, forse anche il sonno. Come una trasparenza: oltre la quale i fatti, le persone, le cose ora si accampavano come in quarantena. Disinfestati. Asettici.

Tornò ad aver paura che il canyon era in ombra. Ora scrivo tutto, si disse”.

 

Da notare l’ultimo periodo citato: “Ora scrivo tutto, si disse.” Questo ci conduce alla conclusione del nostro percorso, che è anche un ritorno al valore della scrittura e della letteratura in Sciascia.

  

La letteratura, per Sciascia, è verità. Una verità in azione, possiamo aggiungere. Nel 1958, in un racconto intitolato La sesta giornata, Sciascia scriveva di non riuscire a capire come un “testo possa splendere di verità e mancare di poesia. E se un poeta non scrive ‘parole che vogliono farsi azione’, non sappiamo davvero che cosa e perché scriva”.

 

Nel 1979, in Nero su nero, si chiede cosa sia la letteratura. La risposta: “ Forse un sistema di ‘oggetti interni’ (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi- e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare.”

 

Due definizioni molto diverse, come si vede: probabilmente perché la prima dettata dalle influenze neorealiste (siamo nel 1958!), che tuttavia pongono l’accento sulla verità di cui deve farsi portatore e cercatore lo scrittore. E nell’intervista a Marcelle Padovani, a precisa domanda, risponde:

 

“Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura distinguendosi dalla falsa solo per l’ineffabile senso della verità. Va tuttavia precisato che lo scrittore non è per questo né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità. Per quanto mi riguarda, io scopro nella letteratura quel che non riesco a scoprire negli analisti più elucubranti, i quali vorrebbero fornire spiegazioni esaurienti e soluzioni a tutti i problemi. Sì, la storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono”.

 

Compito dello scrittore, quindi, è cercare la verità e raccontarla. È un compito etico. Quindi pubblico, concetto che è molto vicino a politico.

 

“Uno scrittore dovrebbe poter dire – scrive sempre in Nero su nero a proposito di alcune dichiarazioni dello scrittore argentino Jorge Luis Borges - che la politica di cui si occupa è etica. Sarebbe bello che potessero dirlo tutti. Ma che almeno lo dicano gli scrittori”.

 

Sciascia, allora, indagando, scrivendo, raccontando della realtà italiana, non fa altro che parlare dei suoi rapporti - orizzontali e verticali – di potere.

 

Il suo protagonismo umano – per così dire – è coinvolto in un destino collettivo e lo cala nel male della storia, identificando il dramma personale con la tragedia collettiva, sociale.

 

L’utopia o il miraggio di Sciascia è rintracciare nel fondo delle coscienze frustrate, assopite, narcotizzate, ingannate e rappresenta non una privata e individualistica speranza, una reazione personale, ma la ragione di una riscossa comunitaria, una verità pubblica che, come diceva Giuseppe Fava, è il baluardo della civiltà contro la barbarie.

 

È la verità della rivolta, del coraggio, anche a rischio di essere sconfitti. E allora, al potere che si può manifestare come anonima violenza gratuita e sopraffazione terroristica (l’esempio più terrificante è L’uomo dal passamontagna di cui Sciascia parla nelle Cronachette), lo scrittore, l’intellettuale si può opporre con la ricerca e la manifestazione della verità pubblica, come racconta lui in Nero su nero, rispolverando una pagina di un vecchio manuale di letteratura italiana in cui ci viene restituita l’immagine di un Manzoni scrittore civile, coraggioso e modernissimo (almeno a giudicare dalle recenti polemiche su quegli scrittori che hanno firmato il famoso appello pro-Battisti e meritevoli, pertanto, di punizione, secondo alcuni fini cervelli politici, mediante la messa al bando dei loro libri…):

 

“Uno dei libri che, appena imparato a leggere, mi sono trovato tra le mani, è stata l’antologia di prose e poesie italiane, per uso delle scuole, di Luigi Morandi. (…) Trovandone oggi una copia bel rilegata (…) la prendo. E non per nostalgia, ma soltanto perché ricordo che c’è un episodio della vita di Manzoni che non ho mai ritrovato nelle biografie manzoniane che conosco. Lo trovo subito, a pagina 159 (…). Vale la pena trascriverlo (…): “Durante la terza delle cinque giornate, riuscì a penetrare in città, travestito da carrettiere, quel conte Enrico Martini che fu poi deputato al Parlamento italiano per il collegio di Crema sua patria, e che morì nel 1868. Egli veniva da Torino, dove aveva parlato con Carlo Alberto, il quale gli aveva detto che il suo più vivo desiderio era d’aiutare l’insurrezione, occupando Milano col proprio esercito; ma che per far ciò contro il parere di tutta la diplomazia europea, ci sarebbe voluto un pretesto: per esempio, una petizione de’ più cospicui cittadini di Milano, che lo avessero chiamato sotto colore di salvar la città da una probabile anarchia. Appena il Martini ebbe partecipato questa cosa ai capi dell’insurrezione, la petizione fu stesa, e se ne fecero cinque o sei copie. Una ne prese il Broglio e corse da Manzoni per farlo firmare il primo. Lo trovò sulla porta di casa in compagnia del suo amico Antonio Sogni, fratello del noto pittore Giuseppe. Il combattimento durava accanito, e le sorti ne erano ancora incerte; onde la firma sotto quell’atto, se fosse caduto in mano agli austriaci, poteva in quei momenti costare assai cara. Ma il Manzoni aderì immediatamente alla preghiera del Broglio; il quale, presa una penna in una bottega vicina, lo fece firmare alla meglio sopra il cappello a cilindro del Sogni… Pochi gironi appresso però il Manzoni, forse pensando che la carta a lui sottoscritta poteva essere conservata, fece capire al Sogni che avrebbe volentieri riparlato col Broglio. Questo si recò allora dal Manzoni, che gli domandò se si rammentava del modo onde egli aveva dovuto firmare la petizione. ‘Sicuro!’ rispose il Broglio. ‘Sul cappello del Sogni’. ‘Ho proprio piacere che ella se ne rammenti, - soggiunse il Manzoni – perché, ripensandoci, mi ricordai che la firma riuscì di carattere mal fermo, e non vorrei che nessuno potesse attribuirne la causa alla qualità dell’atto che stavo firmando’.

 

L’episodio fu raccontato dal Broglio al Morandi: ed oltre a conferire al Manzoni un tratto di fermezza civile, può essere assunto oggi come parabola della firma difficile che si paga, contro la firma facile e che non si paga.

 

Insomma, è la verità del camusiano uomo in rivolta quella che ci presenta Sciascia. Anche a costo della sconfitta.

 

“A cosa serve vivere se non si ha il coraggio di lottare”, dirà Fava. E infatti va ricordato come tutti i suoi personaggi ‘buoni’, da Bellodi a Laurana, dall’ispettore Rogas del Contesto al Vice del Cavaliere e la morte fino al brigadiere Lagandara della Storia semplice sono degli uomini in rivolta, benché tutti, a vario modo, sconfitti: i primi quattro muoiono, l’ultimo uccide il commissario corrotto, ma non svelerà la fitta trama di connivenze e corruzioni che sta dietro l’omicidio dell’ex diplomatico Roccella.

 

Senza illusioni, ma capaci di dire di no al male, alla corruzione, al fascismo, alla mafia. Fino alle estreme conseguenze.

 

 

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