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N. 41 - Maggio 2011 (LXXII)

a proposito di sciascia
parte i - lo spazio immobile, lo spazio del potere

di Giuseppe Tramontana

 

Che Leonardo Sciascia sia uno dei maggiori scrittori italiani e, probabilmente, uno dei pochi a livello europeo, è fuori discussione.

 

Tuttavia, per iniziare ad avvicinarsi a questa complessa figura di intellettuale occorre partire da almeno tre elementi essenziali alla comprensione dell’uomo dello scrittore: le sue radici siciliane, la denuncia del potere mafioso, e l’indagine storica – che presto diventerà denuncia – del potere in quanto tale.

 

Il primo punto, quello concernente le radici siciliane, viene da lui da lui indagato soprattutto nei saggi sulla cultura e sugli scrittori siciliani.

 

Nelle pagine della raccolta di saggi La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, mette a fuoco il concetto di sicilitudine, fornendo una veste teorica a quell’atteggiamento nel quale confluiscono idee, cultura, attese esistenziali, senso della vita di un intero popolo, quello siciliano, tutte cose però, e ovviamente, rintracciabili in quella che possiamo chiamare letteratura siciliana, da Argisto Giuffredi ad Antonio Veneziano, da Verga a Pirandello, da Brancati a Borgese e oltre.

 

Scrive Sciascia nel primo saggio de La corda pazza, intitolato Sicilia e similitudine:

“I siciliani – dice il Castro – generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. (…) La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano appunto nati per servire. Ma sono d’incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica, e allora agiscono in tutt’altro modo… (…) Una terra difficile da governare perché difficile da capire”.

 

Questa è un’eredità antica, com’è ben noto, sedimentata nelle e dalle invasioni, nelle e dalle condizioni di colonia in cui l’isola venne tenuta per secoli. E si manifesta in una sorta di paura, di diffidenza nei confronti del potere, di controllo della ragione contro i facili trionfalismi positivistici e la tentazione di divenire una delle tanti voci plaudenti del coro.

 

La storia ha dimostrato che è meglio essere prudenti, non lasciarsi travolgere dagli entusiasmi, ché come si dice in siciliano “nun si mangi meli senza muschi”, non si mangia miele senza mosche cioè accanto ad una cosa positiva, ne arriva o se ne aggiunge o ne è pronta una negativa.

 

In due passi distinti, tratti da La Sicilia come metafora, la famosa intervista alla giornalista francese Marcelle Padovani, così si esprime Sciascia:

 

“Sì, ci credo. Nella ragione, nella libertà e nella giustizia che sono, insieme, ragione (ma guai a separarle). Credo si possa realizzare, anche se non perfettamente, un mondo di libertà e di giustizia. Ma la storia siciliana è tutta una storia di sconfitte: sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli. Anche la mia storia è una storia di sconfitte. O, più dimessamente, di delusioni. Da ciò lo scetticismo: che non è, in effetti, , l’accettazione della sconfitta, ma il margine di sicurezza, di elasticità, per cui la sconfitta – già prevista, già ‘ragionata’ – non diventa definitiva e mortale. Lo scetticismo è salutare. È il migliore antidoto per il fanatismo. Impedisce cioè di assumere idee, credenze e speranze con quella certezza che finisce con l’uccidere l’altrui libertà e la nostra”.

 

E, in un altro passo della stessa opera-intervista, sottolinea:

 

“La particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al fatto che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal di fuori e dall’alto: ogni volta che un viceré lasciava Palermo, in tutti i quartieri della città si faceva festa, perché si pensava che il nuovo sarebbe stato migliore del precedente e che avrebbe finalmente apportato il cambiamento. Nessuno tuttavia pensava a rovesciare l’istituzione, le plebi essendo perfettamente avvezze a quest’idea del mutamento che scende dall’alto. (…) La roba, che può essere terra, casa, stoviglie, biancheria, animali, provviste, sembra sia solo casualmente fonte di reddito; non la si utilizza, la si lascia dopo morti: è legata ai sentimenti che si nutrono per la famiglia, al timore per il futuro della famiglia e alla presenza della morte. Più aumenta la ricchezza, più aumenta la quantità di quel che lasceremo alla nostra morte, e più la nostra stessa morte aumenta e si amplifica… Il ritmo dell’accumulo come ritmo di morte… (…) La terra sotto il sole non è mai sicura, le disgrazie, o il vicino, possono portartela via, bisogna vigilare fino all’allucinazione, così come è, meglio vigilare sui membri della famiglia tenendoli sotto la propria ala. Che cosa può capitare in realtà a qualcuno che lascia, anche provvisoriamente, la sua casa? Può venire derubato, rapinato, oltraggiato, può perdere l’onore, la vita. Il siciliano vive tutti insieme questi sentimenti sotto la tonalità ossessiva del timore”.

 

Elemento caratterizzante e conseguente a questo approccio è il fatto che (e Sciascia è consapevole di ciò) la stessa sicilitudine, della quale lui stesso è naturalmente imbevuto, essendo siciliano proprio come il mondo che indaga, non gli consente di formulare speranze per il futuro, progetti, utopie.

 

Egli si arresta all’hic et nunc, all’analisi. Sciascia, in tutta la sua opera, non propone fughe, soluzioni, ma seziona e analizza ciò che c’è per farne emergere contraddizioni e irrazionalità e, da qui, come in un gioco di specchi, farne baluginare e riflettere le potenzialità positive di cui quegli stessi elementi negativi potrebbero (se solo venissero letti nella giusta e razionale dimensione) essere carichi.

 

Che io sappia, solo in un passo molto particolare de Il giorno della civetta (il passo immediatamente precedente al famoso dialogo tra Bellodi e don Mariano sulla graduatoria degli uomini, che poi leggeremo), solo in passo, dicevo, è presente uno scatto in avanti, con una proposta per risolvere il problema-mafia. Ma lo vedremo.

 

Altro elemento verso il quale si concentra l’attenzione di Sciascia è l’analisi e la denuncia del potere mafioso e, soprattutto, politico-mafioso. E qui un ruolo essenziale, in questo approccio, ce l’ha la fedeltà di Sciascia alla ragione illuministica ì, modellata dal rapporto privilegiato con l’Illuminismo francese in quanto corrente letteraria e filosofica e con la Francia degli amati Montaigne, Pascal, Stendhal, Courier, Voltaire, Diderot.

 

Sono loro che gli insegneranno la critica del potere, del suo linguaggio, delle sue attrazioni e delle sue sirene. E, per un siciliano, questa critica del potere è in primis (ma non esclusivamente) critica del potere mafioso. Dalla scrittura di romanzi alla partecipazione assidua al maxi-processo di Palermo del 1986.

 

Già nella prima opera, Le parrocchie di Regalpetra, qua e là, si intravedono delle figure di galantuomini che sono dei veri e propri mafiosi. Ma, com’è noto, è con il Giorno della civetta e A ciascuno il suo che comincia ad essere raccontata la mafia degli anni Sessanta, anni particolari, anni di crescita economica (anche per l’organizzazione mafiosa), anni in cui Cosa Nostra si evolve e da meramente agraria diventa edilizia o imprenditoriale.

 

Non è ovviamente la mafia di oggi, dei traffici internazionali di droga, delle stragi, delle partecipazioni azionarie, ma senza quella degli anni ‘60 e la sua accumulazione originaria di capitale mafioso, questa non ci sarebbe stata, non sarebbe stata possibile.

 

Il fenomeno mafioso è più circoscritto, all’epoca. L’opinione pubblica italiana lo vede come un fenomeno folcloristico, tipicamente siciliano: poca informazione, pochi ragguagli, molta confusione e, soprattutto, tantissimi tentativi di minimizzarne – da parte delle istituzioni, della chiesa e della politica – l’importanza e quindi la pericolosità.

 

C’è pertanto una giusta rivendicazione nelle parole che Sciascia pronunciò nel 1965 nel corso di un dibattito a Palermo:

 

“Indubbiamente – dice lo scrittore – la mafia è un problema nostro. Io ne ho fatto un’esemplificazione narrativa; fino a quel momento sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura; esisteva una commedia di un autore siciliano che era un’apologia della mafia, e nessuno che avesse messo l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo. Io l’ho fatto”.

 

C’è un terzo aspetto dell’atteggiamento intellettuale e morale di Sciascia: l’attenzione a non ricadere in giudizi assoluti, definitivi. Per questo uno dei temi più frequenti nelle sue opere è l’indagine di una verità che la storia ha oscurato,una verità difficile da raggiungere.

 

Sciascia sa che in questi casi indagare e giudicare è decisamente arduo, se non proprio impossibile, e così porta con sé – come dire? – una buona scorta di dubbio, oltre che un’attenzione sempre desta per evidenziare, far risaltare le contraddizioni. Non a caso, e non certo per sterile spirito di polemica, che Sciascia intervenne a più riprese sulle questioni riguardanti la giustizia nel nostro Paese, tema classicamente scottante e ricco di risvolti contraddittori, dove, tra le pieghe del giudizio,m si può nascondere l’abuso del potere, la vendetta sociale, la ricerca dell’uguaglianza e della libertà politiche, l’uso strumentale, il nobile sentimento e il basso interesse.

 

La vita, pirandellianamente, la si vive o la si scrive: Sciascia ha fatto entrambe le cose. Ha attinto alla realtà per farne opere, nel risultato, non di totale fantasia, di pura rappresentazione, ma di verità. La letteratura deve poter servire, non è solo puro divertimento.

 

In una canzone, Velazquez, Roberto Vecchioni afferma che “bisogna sempre scrivere e lottare”. Si tratta di un bellissimo accostamento. L’accostamento di due sintagmi, di due concetti squisitamente umani, troppo umani. Scrivere e lottare.

 

A parte, l’amare, cos’altro rende l’uomo uomo? E anche per Sciascia, la scrittura non è mai orpello, belletto, ma strumento di conoscenza, di lotta appunto, di redenzione se si vuole.

 

È arma ‘ppi luttari li puntenti’, arma con la quale combattere ingiustizie, sopraffazioni, imposture: e pazienza se a qualche lettore difetterà il divertimento!

 

Sciascia attinge da Manzoni un modo peculiare di concepire la scrittura, la letteratura: in esse si trasferisce il modo di essere dello scrittore, il suo modo di affrontare la vita.

 

Ed ecco allora, la famosa frase di Sciascia, secondo cui “lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità…”, anche quando la verità – quella vera, assoluta, oggettiva – si trova “in fondo ad un pozzo”, come dice don Mariano.

 

Ovvio, allora, come lo strumento a cui Sciascia affida la ricerca della verità sia la narrativa e non il saggio. È nella narrativa che trovano posto le varie articolazioni della verità. Ed è sempre per lo stesso motivo che sceglie la forma del romanzo giallo o, meglio, del suo rovesciamento, per parlarne.

 

Ma le verità sono tante, si articolano appunto, sono sfuggenti, prismatiche: ecco il rovesciamento del giallo classico. Sciascia ama Durrenmatt, il Gadda del Pasticciaccio, Agatha Christie e Raymond Chandler, Soldati, Simenon, Greene, Edgar Allan Poe, Savinio…

 

Se alla base di ogni romanzo poliziesco c’è un mistero da risolvere, alla base della riflessione di ogni uomo di pensiero c’è il Mistero dei Misteri: l’esistenza di Dio.

 

Così è anche per Sciascia, uomo di pensiero e scrittore di gialli. Occorre allora capire in che modo lui affronti il problema della metafisica – come ha suggerito Gesualdo Bufalino.

 

Il suo è un poliziotto metafisico e quindi eretico, che indaga tra le pieghe della coscienza rarefatta e delle posizioni politico-ideologiche consolidate e stratificate da abitudini, opportunismi o incrostazioni culturali (vedi il ruolo della Chiesa o dei partiti dominanti, DC per prima).

 

E questo poliziotto è eretico in quanto, oltre ai suoi compiti – diciamo - intratestuali, viola le regole canoniche su cui il romanzo giallo tradizionale si regge: i gialli di Sciascia presentano ‘trappole’ per il narratore (es. Todo modo, con l’illustre precedente dell’Agatha Christie di Assassinio di Roger Ackoyd, per cui Sciascia scrisse anche una prefazione); una scoperta del colpevole che può essere, come in Una storia semplice, anche casuale; il fatto che il colpevole non opera mai solo, isolato anzi, ma sempre all’interno di una fitta trama di complicità; la preferenza del detective per le deduzioni à la Maigret piuttosto che per le intuizioni astratte à la Sherlock Holmes; la mancata punizione del colpevole: forse la più nota ed eclatante violazione del canone giallistico.

 

A volte, poi, il colpevole (come nella Storia semplice) può essere anche punito (non dalla giustizia ufficiale, ma da una, per cos’ dire, privata), ma comunque resta inesplorata e sfuggente alle maglie della giustizia la trama criminale in cui è inserito e per conto della quale ha agito.

 

L’altro genere che Sciascia predilige, dicevamo, è il racconto-inchiesta su un fatto del passato sul quale si è espressa la giustizia. Il modello dichiarato è La storia della colonna infame di Manzoni, dalla quale lo scrittore di Racalmuto riprende l’uso del documento inserito e analizzato nel contesto narrativo.

 

Ciò che affascina l’autore è proprio l’interrogazione al documento, il confronto con esso, la testimonianza senza preconcetti, con la predisposizione ad accogliere verità diverse da quelle di partenza o meramente ufficiali. Dello stesso tenore anche i pamphlets su temi d’attualità, anch’essi costruiti letterariamente attingendo a volte alla parodia, al paradosso, a volte strettamente legati all’analisi documentaria. Si tratta di testi che si addensano soprattutto negli ultimi anni della sua produzione e che lasciano intravedere la persistenza del valore della ragione, la sua fiducia nella ricerca della verità.

 

Lo spazio di libertà che la letteratura offre, che invece è molto meno tollerata nel saggio, gli permette di mostrare quelle verità non provate che smascherano gli inganni delle fedi ideologiche e sfuggono ad ogni presa di posizione precostituita. Qui si collocano pamphlets come L’affaire Moro, La scomparsa di Majorana, Fatti diversi di storia letteraria e civile, La corda pazza.

 

Sulla stessa lunghezza d’onda si situa anche l’ultimo contributo sciasciano, confezionato dallo scrittore poco prima di morire. È la raccolta di articoli pubblicati su quotidiani e riviste tra il 1979 e il 1983. Decise di intitolarla A futura memoria (se la memoria ha un futuro), quasi a sottintendere il valore di verità che i suoi articoli hanno avuto, benché tale valore, con ogni probabilità, sia destinato a manifestarsi col tempo.

          

Parlare, in Sciascia, dello spazio vuol dire parlare dello spazio politico. Anzi, no: dello spazio del potere. Potere sotto varie, proteiche, ma pour sempre inquietanti forme.

 

È il potere – mafioso, della Chiesa o dello Stato – che si fa autoritarismo. Non l’astratto autoritarismo identificato e raccontato anche dalla pubblicistica ufficiale, ma quello bieco e quindi più tragico, angoscioso a livello patologico, continuamente premente, insinuante, dal volto accattivante, mellifluo, ma ubiquo, strisciante, onnipotente e onnivoro. Oltre che pervasivo, occhiuto e terribile:

 

Ogni potere durevolmente stabilito – scrive Wolfgang Sofsky – tende a organizzare lo spazio e il tempo. Le strutture così create non sono condizioni marginali della socialità, ma forme costitutive dell’interazione fra gli individui. Gli ordinamenti temporali e spaziali orientano i comportamenti e i rapporti sociali.

 

Connessa alla questione del potere c’è, e non può non esserci, la questione della giustizia.

 

Chi la esercita? Chi la vuole? E, soprattutto, cos’è? Il tema della giustizia è uno dei fili rossi continui che attraversano tutta la produzione di Sciascia. Una giustizia che è giusta solo in quanto esercitata dal potere, non in sé. Ma è vera giustizia? E non si riduce a mero instumentum regni? E, se sì, a beneficio di chi, a coprire cosa?

 

Ecco allora delinearsi due prospettive nell’estrinsecazione e nell’esercizio del potere: una prospettiva, per così dire, orizzontale (Hic sunt leones) ed una orizzontale, dall’alto in basso (Superior stabat lupus). Vedremo di analizzarli.

 

 

Hic sunt leones

 

Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961, è ispirato all’omicidio del sindaco socialista di Sciacca Accursio Miraglia, ucciso il 4 gennaio 1948. Molti i riferimenti all’Italia ed alla Sicilia di quegli anni. A cominciare dall’alto prelato anonimo che nega l’esistenza della mafia e che è facilmente identificabile nell’allora arcivescovo di Palermo Mons. Ernesto Ruffini.

 

Il romanzo si apre così:

 

“L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l’autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista – un momento – e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarcianti: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò.

Il bigliettaio bestemmiò: la faccia gli era diventata colore di zolfo, tremava. Il venditore di panelle, che era a tre metri dall’uomo caduto, muovendosi come un granchio cominciò ad allontanarsi verso la porta della chiesa. Nell’autobus nessuno si mosse, l’autista era come impietrito, la destra sulla leva del freno e la sinistra sul volante. Il bigliettaio guardò tutte quelle facce che sembravano face di ciechi, senza sguardo; disse – l’anno ammazzato – si levò il berretto e freneticamente cominciò a passarsi la mano tra i capelli; bestemmiò ancora.

I carabinieri – disse l’autista – bisogna chiamare i carabinieri.

Si alzò ed aprì l’altro sportello – ci vado – disse al bigliettaio.

Il bigliettaio guardava il morto e poi i viaggiatori. C’erano anche donne sull’autobus, vecchie che ogni mattina portavano sacchi di tela bianca, pesantissimi, e ceste piene di uova; le loro vesti stingevano odore di trigonella, di stallatico, di legna bruciata; di solito la stimavano e imprecavano, ora stavano in silenzio, le facce come dissepolte da un silenzio di secoli.

Chi è? – domandò il bigliettaio indicando il morto.

Nessuno rispose. Il bigliettaio bestemmiò, era un bestemmiatore di fama tra i viaggiatori di quella autolinea, bestemmiava con estro: già gli avevano minacciato il licenziamento, ché tale era il suo vizio alla bestemmia da non far caso alla presenza di preti e monache sull’autobus. Era della provincia di Siracusa, in fatto di morti ammazzati aveva poca pratica; una stupida provincia, quella di Siracusa; perciò con più furore del solito bestemmiava.

Vennero i carabinieri, il maresciallo nero di barba e di sonno. L’apparire dei carabinieri squillò come allarme nel letargo dei viaggiatori: e dietro al bigliettaio, dall’altro sportello che l’autista aveva lasciato aperto, cominciarono a scendere. In apparente indolenza, voltandosi indietro come a cercare la distanza giusta per ammirare i campanili, si allontanavano verso i margini della piazza e, dopo un ultimo sguardo, svicolavano. Di quella lenta raggera di fuga il maresciallo e i carabinieri non si accorgevano. Intorno al morto stavano ora una cinquantina di persone, gli operai di un cantiere-scuola ai quali non pareva vero di aver trovato un argo,mento così grosso da trascinare nell’ozio delle otto ore. Il maresciallo ordinò ai carabinieri di fare sgomberare la piazza e di far risalire i viaggiatori sull’autobus: e i carabinieri cominciarono a spingere i curiosi verso le strade che intorno alla piazza si aprivano, spingevano e chiedevano ai viaggiatori di andare a riprendere il loro posto sull’autobus. Quando la piazza fu vuota, vuoto era anche l’autobus; solo l’autista e il bigliettaio restavano”.

 

L’omicidio, come si riscontra facilmente, avviene in piazza, cioè in uno spazio pubblico. Cioè nello spazio in cui, da che mondo è mondo, si esercita e manifesta il potere, in cui il potere fa la sua epifania, potremmo aggiungere.

 

Un potere che, in determinati momenti storici – es. i totalitarismi – può anche pervadere l’ambito privato, ma che trova come massimo luogo di estrinsecazione del proprio dominio la sfera pubblica, da sottoporre a controllo, inquadrare, modellare, riempiere di simboli e da cui trarre consenso. L’omicidio avviene in uno spazio pubblico, quindi. E, conseguentemente, deve essere inquadrato nelle sue relazioni con lo spazio del potere e dell’esercizio del potere.

 

Perché avviene in uno spazio pubblico? Semplice, la risposta: deve poter essere visto da tutti, tutti devono constatare. Perché? Per affermare l’autorità, ovvio. Affermarla e ribadirla agli occhi di quelli che in dottrina politica si chiamano ‘i consociati’.

 

Ma chi l’afferma quest’autorità? L’autorità di chi, insomma? Beh, di coloro che hanno perpetrato l’omicidio cioè dei mafiosi! Solo così i mafiosi possono ribadire il loro dominio sulla cittadina, sulla sua gente e dare un messaggio a coloro che, come il morto, avevano tentato di intraprendere delle vie autonome (il rifiuto della ‘guardiania’, del pizzo, come scopriremo cammin facendo dentro il romanzo) rispetto a quelle indicate dai mafiosi. Con quest’atto, la mafia si atteggia chiaramente a Stato o ad ‘anti-Stato’ che non teme lo Stato ufficiale ed anzi lo sfida, se partiamo dal presupposto storico ed extraromazesco che uno Stato ci sia.

 

Collegata a tutto ciò c’è, come sopra anticipato, anche la questione del consenso. La gente, come si è potuto notare dalla lettura, sfugge, si defila: per paura, perché pensa che non siano affari suoi, per indifferenza quindi. Ma soprattutto per non avere nulla da spartire con lo Stato, con quello Stato che in Sicilia è visto come un rapace, uno stato presente solo sotto forma di divise di carabinieri (la legge, si dice normalmente, parlando dei carabinieri) o per legittimare le ingiustizie della leva, delle tasse, delle autorizzazioni.

 

Questa lontananza dello Stato - presunta o reale, ma fortemente percepita in ogni caso – crea, è consenso – passivo, inerte, ma straordinariamente efficace – per la mafia, che ama manifestarsi come potere e potenza, ma si defila, di nasconde, si dilegua persino, per meglio penetrare, insinuarsi nello Stato vero (esempi ne sono i personaggi che ritroviamo a Roma, compreso il deputato che siede in Parlamento che i due amici vanno a trovare…)

 

Come sappiamo, il potere mafioso, nella cittadina di Sciascia, è rappresentato dal capo mafia don Mariano Arena, mentre quello dello Stato dal capitano Bellodi, emiliano di Parma, ex partigiano, uomo che sa dire no ed ha detto no. Uomo che si attira diffidenze, rispetto e odio. E questi sentimenti non glieli concedono - come ci si potrebbe aspettare e come sarebbe d’altronde logico – i politici (rispetto) e i mafiosi (diffidenza e odio), ma esattamente l’opposto. Sarà don Mariano a confessare il suo rispetto per il capitano, mentre nel capoluogo, nell’ambiente ecclesiastico ed a Roma cresceranno la diffidenza e l’odio nei suoi confronti.

 

Lo spazio, dicevamo. Lo spazio pubblico. Lo spazio dominato. Da un potere che si incarna in figure. Nel Giorno della civetta è la mafia, don Mariano, una mafia che tenta il salto alla conquista del mondo edilizio, una mafia modernizzata, attualizzata anche grazie alle connivenze in alto loco, una mafia che è mafia perché – come dirà Sciascia – non sta contro lo Stato, ma permea e si sostituisce a tratti allo Stato, lo controlla dall’interno, almeno in Sicilia, ed almeno all’epoca.

 

Bene, in Todo modo – unico romanzo di Sciascia narrato in prima persona, pubblicato nel 1974 – il potere è incarnato da un prete, da un diabolico, freddo, coltissimo e spregiudicato prete, don Gaetano (eccezionale il particolare dei suoi occhiali a pince-nez simili al diavolo de Le tentazioni di Sant’Antonio di Rutilio Manetti). Don Gaetano uno che “ha letto tutti i libri del mondo” e che rimanda a quella frase (“la cultura è una bella cosa”) messa in bocca al colto mafioso che disquisisce dell’origine della parola ‘mafia’ nel racconto Filologia, contenuto in Il mare colore del vino.

 

Lo spazio, dicevamo. L’ambientazione del romanzo è un eremo, un eremo-albergo a dire il vero, rifatto, riadattato, sberciato a tratti dalle mani di architetti moderni. È qui che immediatamente si esercita il potere di don Gaetano.

 

Vediamo come lo descrive lo scrittore-narratore:

 

“L’eremo è luogo di solitudine; e non di quella solitudine oggettiva, di natura, che meglio si scopre e più si apprezza quando si è in compagnia: un bel posto solitario, come si suol dire; ma di quella solitudine che ne ha specchiato altra umana e si è intrisa di sentimento, di meditazione, magari di follia. E in quanto a Zafer: un santone musulmano o cristiano? Ed era a tre chilometri: soltanto, esattamente e giustamente. Feci la breve manovra per entrare nella stradetta asfaltata (e l’asfalto avrebbe dovuto mettermi in guardia) e mi avventai alla salita. Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre. E improvvisamente un vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato, un lato chiuso da un casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe. Mi fermai, deluso e arrabbiato: poiché non si vedeva che la strada potesse continuare, e dunque l’eremo era ormai quella mostruosa costruzione. Un albergo, con tutta probabilità”.

 

Il luogo della pubblicità ovviamente è l’eremo, o meglio il suo esterno, il cortile-spiazzo. È questo il luogo della ‘pubblicità’, il luogo in cui gli interessi economici e politici, si incontrano, si plasmano, trovano copertura in un’ideologia religiosa: quella cattolica. Si tratta di un quadrato – quindi con i lati uguali -, ma, quasi a simboleggiare l’ambiguità del potere, per metà in zona di luce, per metà e anche più immerso nell’oscurità.

 

Ci si riunisce dopo cena, dopo aver rifocillato il corpo: primum vivere, deinde Dei laudari, prima il corpo e poi l’anima.

 

Una successione – anche temporale e cronologica – più da mondo laico e profano che da ambiente religioso:

“Finita la refezione e man mano che i commensali uscivano all’aperto, vidi che tutti andavano raccogliendosi intorno a don Gaetano: non casualmente, ma come per un’adunata stabilita, prescritta. E il mio malumore si dissolse nella curiosità.

Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero di essere tutti presenti, il cerchio si scompose e prese forma di quadrato. Don Gaetano, che era stato al centro del cerchio, si trovò nel mezzo della prima fila del quadrato. Così ordinati, stettero un momento fermi e in silenzio: poi si alzò la voce di don Gaetano – Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Amen – e il quadrato si mosse. Lo spiazzale, come ho detto, era vasto; e ancora più vasto lo rendeva il fatto che le luci vi erano state quasi tutte spente. Il quadrato marciò dalla porta dell’albergo al margine opposto. Arrivandoci, mi parve si aggrumasse in confusione e stentasse a ricomporsi, mentre in coro recitavano il Padrenostro. Ricomposto, venne verso l’albergo con l’Avemaria: e alla luce che veniva dalla porta e dalla finestra del pianterreno, vidi che in prima fila, con don Gaetano sempre nel mezzo, non c’erano gli stessi di poco prima. E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui non si fosse trovato, al momento del dietrofronte, al centro dell’ultima fila, che diventava la prima. Certo, qualcuno si confondeva: ma la recitazione del Rosario non perdeva ritmo.

(…) E c’era di che. Quell’andare su e giù nello spiazzale quasi buio, non come in un quieto passeggio ma a passo svelto, appunto come chi ha paura del buio e si affretta a raggiungere la zona di luce (che era quella dell’ingresso dell’albergo: e lì infatti il loro passo si faceva più lento, a indugiarvi prima di riaffrontare il cammino verso la parte più buia); quelle loro voci che si levavano nel Padrenostro, nell’Avemaria, nel Gloria con un che di atterrito e di isterico; la voce di don Gaetano, che succedeva alle loro, distante e fredda: e da quella voce espressioni come ‘misterioso messaggio’, ‘mistero della salvezza’, ‘ antico serpente’, ‘spada che trafiggerà l’anima’ si intridevano di un senso tutto fisico, non più metafore ma eventi che stavano realizzandosi, che si realizzavano, in quel posto al confine del mondo, al confine dell’inferno, che era l’hotel di Zafer”.

 

Qui si ha lo sdoppiamento tra il momento della descrizione-decrittazione dello spazio e il momento della consumazione del delitto. Ma la valenza attribuibile allo spazio non muta. Il delitto, infatti, non può che consumarsi in questo spazio pubblico.

 

Il perché è ovvio: è anch’esso un delitto politico (cioè pubblico), da mostrare, da far vedere: è un messaggio, è una manifestazione di potere, è un avvertimento ai titubanti, ai troppo indifferenti o, viceversa, ai troppo curiosi, ai troppo interessati. È il potere che secerne e trita se stesso. Per vivere, per riabilitarsi, per rinvigorirsi.

 

La morte dell’on. Michelozzi è descritta come un temporaneo rimescolamento dell’ordine spaziale (il quadrato vivente che viene ‘centrifugato’): il tutto sotto gli occhi di due spettatori, il pittore-narratore e il cuoco.

 

Spettatori proprio come i passeggeri del bus, il venditore di panelle e gli altri frequentatori della pizza al momento dell’uccisione di Colasberna ne Il giorno della civetta:

 

“Il quadrato era al margine dello spiazzale, nel punto più lontano dell’ingresso dell’albergo e da dove il cuoco ed io sedevamo. Si era appena ricomposto nel dietrofronte: ed ecco che tra la porta del cielo e il prega per noi quel colpo lo fermò e sospese per un attimo; e subito dopo lo scompose, lo centrifugò. (…) Mi ci volle una trentina di secondi, credo, perché quella massa prendesse la forma di un uomo caduto; (…) era l’ex senatore (Michelozzi, ndc), presidente di quel grosso ente di Stato, che durante il pranzo aveva giocato alle citazioni con don Gaetano”.

 

Ma non tutte le morti sono degne di palcoscenico, non tutte le morti sono pubbliche. In quanto, ad esempio, non tutte hanno messaggi da trasmettere e, se ce l’hanno, non sono messaggi forti del potere, che servono all’estrinsecazione del potere, al suo controllo sociale.

 

Ci sono morti che conviene siano occultate, segrete. E non perché, se fossero pubbliche creerebbero scandalo o reazioni civili, ma perché è superfluo che siano pubbliche. Sono morti che si consumano ai margini, ai margini dello spazio pubblico, ai margini del consorzio civile. Che non hanno autonomia di per sé, ma ne assumono in quanto riverbero, collegamento con altri morti pubbliche. Sono insomma funzionali.

 

È questo il caso della morte di Nicolosi. Nicolosi, nel Giorno della civetta, viene ucciso perché riconosce accidentalmente uno dei killer di Colasberna. Il destino ha complottato contro di lui: ha riconosciuto, uscendo di casa la mattina del 16 gennaio, nel killer di Colasberna Diego Marchica detto Zicchinetta, suo compaesano di B., un paese vicino a quello in cui si consuma l’omicidio Colasberna, che è Sciascia.

 

Va da sé che Nicolosi è stato ucciso per questo, per necessità, non perché servisse davvero. Il suo omicidio non ha nulla da dire, non è politico, non è messaggio di potere, è solo frutto del caso e della necessità per i mafiosi di far tacere un testimone. È appunto un omicidio funzionale al primo, il più importante e quello attorno a cui gira il romanzo.

 

Conseguentemente, il corpo di Nicolosi viene ritrovato fuori paese, in un luogo desolato, pieno di grotte e foibe, di tane di animali selvatici e di nidi per gli uccelli notturni: il chiarchiaro:

 

“La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva sorgere dal verde tenue dei seminati, dalle rocce e dagli alberi madidi: e impercettibilmente salire verso il cielo cieco. Il chiarchiaro di Gràmoli, incongruo ed assurdo nella pianura verdeggiante, pareva una enorme spugna, nera di buchi, che veniva inzuppandosi della luce che sulla campagna cresceva. Il capitano Bellodi, che era arrivato al limite in cui stanchezza e sonno si fanno lucida febbre, come se da sé si consumassero per dar luogo a un ardente specchio di immagini (e così è della fame., che ad un certo punto, ad una certa intensità, si assottiglia in lucida inedia che respinge la visione del cibo), il capitano pensava – Dio qui ha gettato la spugna – in analogia alla visione del chiarchiaro ponendo la lotta e la sconfitta di Dio nel cuore umano.

Un po’ scherzando, e perché sapeva il capitano curioso di certe espressioni popolari, il brigadiere disse: E lu cuccu ci dissi a li cuccuotti:/a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti – e subito incuriosito il capitano gli chiese il significato. Il brigadiere tradusse: - Ed il cucco disse ai propri figli: al chiarchiaro ci incontreremo tutti – ed aggiunse che forse voleva dire che ci incontreremo tutti nella morte, l’immagine del chiarchiaro, chi sa perché, diventata idea della morte. Il capitano capiva benissimo il perché: e febbrilmente ebbe visione di un fitto raduno di uccelli notturni nel chiarchiaro, un cieco sbattere di voli nell’opaca luce dell’ora; e gli pareva che il senso della morte non si potesse dare in immagine più di questa paurosa”.

 

Nello stesso modo e in luoghi similari gli assassini si liberano sia del dottor Roscio e del farmacista Manno che del professor Laurana, in A ciascuno il suo, romanzo del 1966, ispirato, anche in questo caso ad un fatto di cronaca: l’omicidio del commissario Cataldo Tandoy, avvenuto nel 1960 ad Agrigento.

 

Roscio e Manno – o meglio, il solo Roscio, giacché Manno, nonostante la lettera anonima, è una sorta di ‘morto di complemento’- vengono uccisi, ma il loro omicidio non è quello che appare (persino la vittima non è quella che dovrebbe essere in base alla lettera anonima).

 

Secondo la versione ufficiale, Roscio verrà ucciso per motivi passionali e non mafiosi (che è l’esatto opposto di quanto avviene in molti gialli di Camilleri, es. Il campo del vasaio). Per questioni private e non pubbliche. Solo Laurana si è avvicinato alla verità, l’ha persino sfiorata. Ha sfiorato con mano gli intrecci politico-mafiosi, ha conosciuto in che modo si eserciti il potere tramite collusioni politico-affaristiche alle quali non sono estranei gli uomini di chiesa.

 

Però, invaghitosi della bella vedova Roscio, è caduto però nella sua tela. Viene sequestrato ed eliminato: lupara bianca, diremmo oggi. Il suo corpo scaricato in una zolfara abbandonata, fuori dal consorzio umano:

 

“Ma il professore giaceva sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d’aria, tra il suo paese e il capoluogo”.

 

Quello di Laurana è un omicidio, oltre che annunciato, anche inutile perché frutto di una passione intellettuale (lui non è un poliziotto o un detective): vuole conoscere le cose e scoprire l’assassino di Manno e Roscio solo per piacere e curiosità.

 

La sua è la morte di un uomo solo, di un uomo ingenuo (‘un cretino’ lo apostroferanno gli amici del Circolo alla fine del romanzo), di un uomo che, più che imprudente, si è mostrato inadeguato all’ambiente che lo circondava: inadeguato e disinteressato.

 

Ai margini degli spazi ‘ufficiali’ avvengono anche gli altri due omicidi – dopo quello di Michelozzi – di Todo modo. Il primo a morire è Voltrano:

 

“Era accaduto che l’avvocato Voltrano, volando, si credeva, dalla finestra della sua camera, all’ottavo piano, era andato a spiaccicarsi su un mucchio di mattoni e tegole: dietro l’angolo, dalla parte in cui stavano le cucine.”

 

Don Gaetano viene trovato morto nel bosco:

 

“Qualcuno aveva trovato morto don Gaetano: ma non si sapeva se nella sua camera o nel suo studio o nella cappella o nel bosco. Finalmente da fuori uno gridò – Nel bosco, al vecchio mulino – e la mandria uscì nello spiazzale, si sparpagliò, di nuovo si serrò, ad imbuto, verso il sentiero che portava al vecchio mulino (…) Era stato ucciso. Al vecchio mulino, che era poi quello di cui restava la mola di pietra. E la mola, da cui era scivolato, gli faceva da spalliera”.

 

Che differenza hanno con la morte di Michelozzi, il primo caduto?

 

Voltrano muore per lo stesso motivo di Michelozzi – questioni di potere – ma la morte del primo la ‘copre’: non è necessario mostrarla in pubblico. Muore cadendo dall’ottavo piano, ma dalla parte retrostante dell’albergo-eremo, dalla parte delle cucine. Il messaggio ‘pubblico’ è già stato esplicitato con la prima morte. Voltrano muore non tanto perché la sua morte sia manifestazione di potere, quanto perché serve per perpetuare il potere e, soprattutto, mette a posto alcuni rapporti interni al potere stesso o – come nel caso di Nicolosi – perché ha visto e quindi deve tacere per sempre. Dal punto di vista dell’esercizio esterno del potere è una morte superflua.

 

Anche don Gaetano muore – ucciso dal pittore-narratore come sostiene la maggioranza dei critici e come fa pensare la citazione tratta da Gide - per vendetta contro il potere, per ribellione, la ribellione di un uomo solo, disgustato da quell’uomo diabolico che teneva in pugno persino le anime dei convitati. Se non è una vendetta privata, ci si avvicina molto. È una vendetta personale. Di rigurgito, quasi.

 

È palese che la Sicilia è il fulcro attorno a cui gira la narrativa sciasciana. È persino superfluo ricordarlo. Ma, non è superfluo ricordare che la Sicilia esiste, in Sciascia, prima di tutto come una costellazione di istituti giuridici, di privilegi, di immunità che, scomparsi ormai da anni, sopravvivono ben radicati nelle concezioni e nel comportamento dei siciliani.

 

Quella famosa ‘sicilitudine’ altro non è che l’elaborazione o rielaborazione di idee e immagini con forza di mito. La mafia, la sicilitudine esistono, ‘così che – dirà Enzo Siciliano – il mare che circonda la regione acquista un significato ben più ampio di quello geografico’. Ma la sicilitudine di cui parla Sciascia e che, come confessa in varie occasioni, si porta dentro, è sorretta da una vita e da una morale che, nel suo dipanarsi a livello di rapporti sociali, mostra, in senso meno rarefatto e più pragmatico, i tratti della complessità, della negatività, della tragedia del potere.

 

Il siciliano – come ricorderà a più riprese Sciascia, rifacendosi ai citati Avvertimenti di Scipio di Castro, alle raccomandazioni del Vicerè Caracciolo ed alle istruzione ai figli da parte del poeta semisconosciuto Argisto Giuffredi (citato in Porte aperte soprattutto per la sua posizione avanzata sulla pena di morte) – ama le novità, è litigioso, è leguelo, adulatore e invidioso, critico sottile delle azioni dei governanti, ma pronto ad usare gli stessi governanti per raggiungere i suoi scopi, attaccato alla roba più che alla religione – anzi la sua è la religione della roba, timido (cioè riservato) nella gestione degli affari, ma temerario negli affari pubblici. E, grande sofisticatore della morale sessuale.

 

Sofisticatore è una parola con cui Sciascia intende più cose. Anzitutto, il fatto che gli intrallazzi e le relazioni sessuali e personali servono spesso a coprire delitti e vicende che di sessuale hanno ben poco. Inoltre, tende a sottolineare come la morale sessuale, in Sicilia, non abbia una rilevanza solo privata (quasi da nessuna parte lo è) o meramente pubblica, ma diventa un modo di vedere i rapporti sociali e politici.

 

Ad esempio, la donna è il desiderio fisso dei siciliani. Ma non la donna-moglie, bensì la donna-altra, come la chiama Sciascia nell’intervista a Marcelle Padovani.

 

Il siciliano, insomma, desidera la donna che rappresenta un altro mondo (il caso della continentale de L’aria del continente di Nino Martoglio, che poi si rivelerà siciliana di Caropepe e, a rivelazione avvenuta, anche l’amore morirà) o che è di un altro uomo o anche di nessuno.

 

È in lei che si concentra il ‘gallismo’ di cui parlava Brancati. Non sulla moglie. Ecco, allora, che la donna, in quanto sempre appartenente a qualcuno (padre o marito o persino fratello) è portatrice dell’onore della famiglia di provenienza. Di per sé non ha un onore, ma ha quello del padre o del marito, il quale dovrà vigilare affinché lei non lo leda, non tradisca.

 

Dunque, chi non è capace di tutelare il proprio onore – insidiato naturalmente dagli altri uomini - non può avere considerazione sociale, perché non ha onore, non ha dignità: il cornuto perde anche l’onore pubblico, l’onorabilità e quindi diventa incapace di comportarsi da uomo e di seguire le regole della normale comunità maschile.

 

Chi è cornuto o è fesso o – se sa di esserlo e non agisce – è impotente. L’essere cornuto assume quindi una valenza sociale, ma, ancor di più, diventa una chiave interpretativa dei medesimi rapporti sociali poiché chi non sa farsi rispettare non può chiedere rispetto. È una regola che la società siciliana ha fatto sua e che, ancor di più, la mafia ha fatto sua per poi restituirla amplificata alla stessa società di provenienza:

 

“Don Ciccio – disse il maresciallo – esclude in modo assoluto che nel paese ci sia uno che abbia questo cognome o ingiuria (Zicchinetta, ndc): e per queste cose, don Ciccio è cassazione… E se dice che il povero Nicolosi era cornuto, possiamo metterci sopra bollo e sigillo che le corna ci sono”.

 

Ma, questa concezione legata alla cosiddetta ‘sofisticazione sessuale’, lentamente assume connotati particolari.

 

Si dipana in due direzioni diverse: all’indietro, verso il passato, investendo la storia della Sicilia, e in avanti, verso il futuro più o meno prossimo , a tratteggiare il possibile sviluppo-viluppo dell’Italia tutta intera.



 

 

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