N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
a proposito di sciascia
parte i - lo spazio immobile, lo spazio del potere
di Giuseppe Tramontana
Che Leonardo Sciascia sia uno dei maggiori scrittori italiani
e,
probabilmente,
uno
dei
pochi
a
livello
europeo,
è
fuori
discussione.
Tuttavia, per iniziare ad avvicinarsi a questa complessa
figura
di
intellettuale
occorre
partire
da
almeno
tre
elementi
essenziali
alla
comprensione
dell’uomo
dello
scrittore:
le
sue
radici
siciliane,
la
denuncia
del
potere
mafioso,
e
l’indagine
storica
–
che
presto
diventerà
denuncia
–
del
potere
in
quanto
tale.
Il primo punto, quello concernente le radici siciliane,
viene
da
lui
da
lui
indagato
soprattutto
nei
saggi
sulla
cultura
e
sugli
scrittori
siciliani.
Nelle pagine della raccolta di saggi La corda pazza.
Scrittori
e
cose
della
Sicilia,
mette
a
fuoco
il
concetto
di
sicilitudine,
fornendo
una
veste
teorica
a
quell’atteggiamento
nel
quale
confluiscono
idee,
cultura,
attese
esistenziali,
senso
della
vita
di
un
intero
popolo,
quello
siciliano,
tutte
cose
però,
e
ovviamente,
rintracciabili
in
quella
che
possiamo
chiamare
letteratura
siciliana,
da
Argisto
Giuffredi
ad
Antonio
Veneziano,
da
Verga
a
Pirandello,
da
Brancati
a
Borgese
e
oltre.
Scrive Sciascia nel primo saggio de La corda pazza,
intitolato
Sicilia
e
similitudine:
“I siciliani – dice il Castro – generalmente sono più astuti
che
prudenti,
più
acuti
che
sinceri,
amano
le
novità,
sono
litigiosi,
adulatori
e
per
natura
invidiosi;
sottili
critici
delle
azioni
dei
governanti,
ritengono
sia
facile
realizzare
tutto
quello
che
loro
dicono
farebbero
se
fossero
al
posto
dei
governanti.
(…)
La
loro
natura
è
fatta
di
due
estremi:
sono
sommamente
timidi
e
sommamente
temerari.
Timidi
quando
trattano
i
loro
affari,
poiché
sono
molto
attaccati
ai
propri
interessi
e
per
portarli
a
buon
fine
si
trasformano
come
tanti
Protei,
si
sottomettono
a
chiunque
può
agevolarli
e
diventano
a
tal
punto
servili
che
sembrano
appunto
nati
per
servire.
Ma
sono
d’incredibile
temerarietà
quando
maneggiano
la
cosa
pubblica,
e
allora
agiscono
in
tutt’altro
modo…
(…)
Una
terra
difficile
da
governare
perché
difficile
da
capire”.
Questa è un’eredità antica, com’è ben noto, sedimentata
nelle
e
dalle
invasioni,
nelle
e
dalle
condizioni
di
colonia
in
cui
l’isola
venne
tenuta
per
secoli.
E si
manifesta
in
una
sorta
di
paura,
di
diffidenza
nei
confronti
del
potere,
di
controllo
della
ragione
contro
i
facili
trionfalismi
positivistici
e la
tentazione
di
divenire
una
delle
tanti
voci
plaudenti
del
coro.
La storia ha dimostrato che è meglio essere prudenti, non
lasciarsi
travolgere
dagli
entusiasmi,
ché
come
si
dice
in
siciliano
“nun
si
mangi
meli
senza
muschi”,
non
si
mangia
miele
senza
mosche
cioè
accanto
ad
una
cosa
positiva,
ne
arriva
o se
ne
aggiunge
o ne
è
pronta
una
negativa.
In due passi distinti, tratti da La Sicilia come metafora,
la
famosa
intervista
alla
giornalista
francese
Marcelle
Padovani,
così
si
esprime
Sciascia:
“Sì, ci credo. Nella ragione, nella libertà e nella giustizia
che
sono,
insieme,
ragione
(ma
guai
a
separarle).
Credo
si
possa
realizzare,
anche
se
non
perfettamente,
un
mondo
di
libertà
e di
giustizia.
Ma
la
storia
siciliana
è
tutta
una
storia
di
sconfitte:
sconfitte
della
ragione,
sconfitte
degli
uomini
ragionevoli.
Anche
la
mia
storia
è
una
storia
di
sconfitte.
O,
più
dimessamente,
di
delusioni.
Da
ciò
lo
scetticismo:
che
non
è,
in
effetti,
,
l’accettazione
della
sconfitta,
ma
il
margine
di
sicurezza,
di
elasticità,
per
cui
la
sconfitta
–
già
prevista,
già
‘ragionata’
–
non
diventa
definitiva
e
mortale.
Lo
scetticismo
è
salutare.
È il
migliore
antidoto
per
il
fanatismo.
Impedisce
cioè
di
assumere
idee,
credenze
e
speranze
con
quella
certezza
che
finisce
con
l’uccidere
l’altrui
libertà
e la
nostra”.
E, in un altro passo della stessa opera-intervista, sottolinea:
“La particolarissima viscosità della storia siciliana la si
deve
anche
al
fatto
che
qui
si è
sempre
sperato
in
cambiamenti
che
venivano
dal
di
fuori
e
dall’alto:
ogni
volta
che
un
viceré
lasciava
Palermo,
in
tutti
i
quartieri
della
città
si
faceva
festa,
perché
si
pensava
che
il
nuovo
sarebbe
stato
migliore
del
precedente
e
che
avrebbe
finalmente
apportato
il
cambiamento.
Nessuno
tuttavia
pensava
a
rovesciare
l’istituzione,
le
plebi
essendo
perfettamente
avvezze
a
quest’idea
del
mutamento
che
scende
dall’alto.
(…)
La
roba,
che
può
essere
terra,
casa,
stoviglie,
biancheria,
animali,
provviste,
sembra
sia
solo
casualmente
fonte
di
reddito;
non
la
si
utilizza,
la
si
lascia
dopo
morti:
è
legata
ai
sentimenti
che
si
nutrono
per
la
famiglia,
al
timore
per
il
futuro
della
famiglia
e
alla
presenza
della
morte.
Più
aumenta
la
ricchezza,
più
aumenta
la
quantità
di
quel
che
lasceremo
alla
nostra
morte,
e
più
la
nostra
stessa
morte
aumenta
e si
amplifica…
Il
ritmo
dell’accumulo
come
ritmo
di
morte…
(…)
La
terra
sotto
il
sole
non
è
mai
sicura,
le
disgrazie,
o il
vicino,
possono
portartela
via,
bisogna
vigilare
fino
all’allucinazione,
così
come
è,
meglio
vigilare
sui
membri
della
famiglia
tenendoli
sotto
la
propria
ala.
Che
cosa
può
capitare
in
realtà
a
qualcuno
che
lascia,
anche
provvisoriamente,
la
sua
casa?
Può
venire
derubato,
rapinato,
oltraggiato,
può
perdere
l’onore,
la
vita.
Il
siciliano
vive
tutti
insieme
questi
sentimenti
sotto
la
tonalità
ossessiva
del
timore”.
Elemento caratterizzante e conseguente a questo approccio è
il
fatto
che
(e
Sciascia
è
consapevole
di
ciò)
la
stessa
sicilitudine,
della
quale
lui
stesso
è
naturalmente
imbevuto,
essendo
siciliano
proprio
come
il
mondo
che
indaga,
non
gli
consente
di
formulare
speranze
per
il
futuro,
progetti,
utopie.
Egli si arresta all’hic et nunc, all’analisi. Sciascia,
in
tutta
la
sua
opera,
non
propone
fughe,
soluzioni,
ma
seziona
e
analizza
ciò
che
c’è
per
farne
emergere
contraddizioni
e
irrazionalità
e,
da
qui,
come
in
un
gioco
di
specchi,
farne
baluginare
e
riflettere
le
potenzialità
positive
di
cui
quegli
stessi
elementi
negativi
potrebbero
(se
solo
venissero
letti
nella
giusta
e
razionale
dimensione)
essere
carichi.
Che io sappia, solo in un passo molto particolare de Il
giorno
della
civetta
(il
passo
immediatamente
precedente
al
famoso
dialogo
tra
Bellodi
e
don
Mariano
sulla
graduatoria
degli
uomini,
che
poi
leggeremo),
solo
in
passo,
dicevo,
è
presente
uno
scatto
in
avanti,
con
una
proposta
per
risolvere
il
problema-mafia.
Ma
lo
vedremo.
Altro elemento verso il quale si concentra l’attenzione di
Sciascia
è
l’analisi
e la
denuncia
del
potere
mafioso
e,
soprattutto,
politico-mafioso.
E
qui
un
ruolo
essenziale,
in
questo
approccio,
ce
l’ha
la
fedeltà
di
Sciascia
alla
ragione
illuministica
ì,
modellata
dal
rapporto
privilegiato
con
l’Illuminismo
francese
in
quanto
corrente
letteraria
e
filosofica
e
con
la
Francia
degli
amati
Montaigne,
Pascal,
Stendhal,
Courier,
Voltaire,
Diderot.
Sono loro che gli insegneranno la critica del potere, del
suo
linguaggio,
delle
sue
attrazioni
e
delle
sue
sirene.
E,
per
un
siciliano,
questa
critica
del
potere
è in
primis
(ma
non
esclusivamente)
critica
del
potere
mafioso.
Dalla
scrittura
di
romanzi
alla
partecipazione
assidua
al
maxi-processo
di
Palermo
del
1986.
Già nella prima opera, Le parrocchie di Regalpetra,
qua
e
là,
si
intravedono
delle
figure
di
galantuomini
che
sono
dei
veri
e
propri
mafiosi.
Ma,
com’è
noto,
è
con
il
Giorno
della
civetta
e
A
ciascuno
il
suo
che
comincia
ad
essere
raccontata
la
mafia
degli
anni
Sessanta,
anni
particolari,
anni
di
crescita
economica
(anche
per
l’organizzazione
mafiosa),
anni
in
cui
Cosa
Nostra
si
evolve
e da
meramente
agraria
diventa
edilizia
o
imprenditoriale.
Non è ovviamente la mafia di oggi, dei traffici internazionali
di
droga,
delle
stragi,
delle
partecipazioni
azionarie,
ma
senza
quella
degli
anni
‘60
e la
sua
accumulazione
originaria
di
capitale
mafioso,
questa
non
ci
sarebbe
stata,
non
sarebbe
stata
possibile.
Il fenomeno mafioso è più circoscritto, all’epoca. L’opinione
pubblica
italiana
lo
vede
come
un
fenomeno
folcloristico,
tipicamente
siciliano:
poca
informazione,
pochi
ragguagli,
molta
confusione
e,
soprattutto,
tantissimi
tentativi
di
minimizzarne
– da
parte
delle
istituzioni,
della
chiesa
e
della
politica
–
l’importanza
e
quindi
la
pericolosità.
C’è pertanto una giusta rivendicazione nelle parole che
Sciascia
pronunciò
nel
1965
nel
corso
di
un
dibattito
a
Palermo:
“Indubbiamente – dice lo scrittore – la mafia è un problema
nostro.
Io
ne
ho
fatto
un’esemplificazione
narrativa;
fino
a
quel
momento
sulla
mafia
esistevano
degli
studi,
studi
molto
interessanti,
classici
addirittura;
esisteva
una
commedia
di
un
autore
siciliano
che
era
un’apologia
della
mafia,
e
nessuno
che
avesse
messo
l’accento
su
questo
problema
in
un’opera
narrativa
di
largo
consumo.
Io
l’ho
fatto”.
C’è un terzo aspetto dell’atteggiamento intellettuale e
morale
di
Sciascia:
l’attenzione
a
non
ricadere
in
giudizi
assoluti,
definitivi.
Per
questo
uno
dei
temi
più
frequenti
nelle
sue
opere
è
l’indagine
di
una
verità
che
la
storia
ha
oscurato,una
verità
difficile
da
raggiungere.
Sciascia sa che in questi casi indagare e giudicare è decisamente
arduo,
se
non
proprio
impossibile,
e
così
porta
con
sé –
come
dire?
–
una
buona
scorta
di
dubbio,
oltre
che
un’attenzione
sempre
desta
per
evidenziare,
far
risaltare
le
contraddizioni.
Non
a
caso,
e
non
certo
per
sterile
spirito
di
polemica,
che
Sciascia
intervenne
a
più
riprese
sulle
questioni
riguardanti
la
giustizia
nel
nostro
Paese,
tema
classicamente
scottante
e
ricco
di
risvolti
contraddittori,
dove,
tra
le
pieghe
del
giudizio,m
si
può
nascondere
l’abuso
del
potere,
la
vendetta
sociale,
la
ricerca
dell’uguaglianza
e
della
libertà
politiche,
l’uso
strumentale,
il
nobile
sentimento
e il
basso
interesse.
La vita, pirandellianamente, la si vive o la si scrive:
Sciascia
ha
fatto
entrambe
le
cose.
Ha
attinto
alla
realtà
per
farne
opere,
nel
risultato,
non
di
totale
fantasia,
di
pura
rappresentazione,
ma
di
verità.
La
letteratura
deve
poter
servire,
non
è
solo
puro
divertimento.
In una canzone, Velazquez, Roberto Vecchioni afferma
che
“bisogna
sempre
scrivere
e
lottare”.
Si
tratta
di
un
bellissimo
accostamento.
L’accostamento
di
due
sintagmi,
di
due
concetti
squisitamente
umani,
troppo
umani.
Scrivere
e
lottare.
A parte, l’amare, cos’altro rende l’uomo uomo? E anche per
Sciascia,
la
scrittura
non
è
mai
orpello,
belletto,
ma
strumento
di
conoscenza,
di
lotta
appunto,
di
redenzione
se
si
vuole.
È arma ‘ppi luttari li puntenti’, arma con la quale combattere
ingiustizie,
sopraffazioni,
imposture:
e
pazienza
se a
qualche
lettore
difetterà
il
divertimento!
Sciascia attinge da Manzoni un modo peculiare di concepire
la
scrittura,
la
letteratura:
in
esse
si
trasferisce
il
modo
di
essere
dello
scrittore,
il
suo
modo
di
affrontare
la
vita.
Ed ecco allora, la famosa frase di Sciascia, secondo cui
“lo
scrittore
è un
uomo
che
vive
e fa
vivere
la
verità…”,
anche
quando
la
verità
–
quella
vera,
assoluta,
oggettiva
– si
trova
“in
fondo
ad
un
pozzo”,
come
dice
don
Mariano.
Ovvio, allora, come lo strumento a cui Sciascia affida la
ricerca
della
verità
sia
la
narrativa
e
non
il
saggio.
È
nella
narrativa
che
trovano
posto
le
varie
articolazioni
della
verità.
Ed è
sempre
per
lo
stesso
motivo
che
sceglie
la
forma
del
romanzo
giallo
o,
meglio,
del
suo
rovesciamento,
per
parlarne.
Ma le verità sono tante, si articolano appunto, sono sfuggenti,
prismatiche:
ecco
il
rovesciamento
del
giallo
classico.
Sciascia
ama
Durrenmatt,
il
Gadda
del
Pasticciaccio,
Agatha
Christie
e
Raymond
Chandler,
Soldati,
Simenon,
Greene,
Edgar
Allan
Poe,
Savinio…
Se alla base di ogni romanzo poliziesco c’è un mistero da
risolvere,
alla
base
della
riflessione
di
ogni
uomo
di
pensiero
c’è
il
Mistero
dei
Misteri:
l’esistenza
di
Dio.
Così è anche per Sciascia, uomo di pensiero e scrittore di
gialli.
Occorre
allora
capire
in
che
modo
lui
affronti
il
problema
della
metafisica
–
come
ha
suggerito
Gesualdo
Bufalino.
Il suo è un poliziotto metafisico e quindi eretico, che
indaga
tra
le
pieghe
della
coscienza
rarefatta
e
delle
posizioni
politico-ideologiche
consolidate
e
stratificate
da
abitudini,
opportunismi
o
incrostazioni
culturali
(vedi
il
ruolo
della
Chiesa
o
dei
partiti
dominanti,
DC
per
prima).
E questo poliziotto è eretico in quanto, oltre ai suoi compiti
–
diciamo
-
intratestuali,
viola
le
regole
canoniche
su
cui
il
romanzo
giallo
tradizionale
si
regge:
i
gialli
di
Sciascia
presentano
‘trappole’
per
il
narratore
(es.
Todo
modo,
con
l’illustre
precedente
dell’Agatha
Christie
di
Assassinio
di
Roger
Ackoyd,
per
cui
Sciascia
scrisse
anche
una
prefazione);
una
scoperta
del
colpevole
che
può
essere,
come
in
Una
storia
semplice,
anche
casuale;
il
fatto
che
il
colpevole
non
opera
mai
solo,
isolato
anzi,
ma
sempre
all’interno
di
una
fitta
trama
di
complicità;
la
preferenza
del
detective
per
le
deduzioni
à
la Maigret piuttosto che per le
intuizioni
astratte
à la
Sherlock
Holmes;
la
mancata
punizione
del
colpevole:
forse
la
più
nota
ed
eclatante
violazione
del
canone
giallistico.
A volte, poi, il colpevole (come nella Storia semplice)
può
essere
anche
punito
(non
dalla
giustizia
ufficiale,
ma
da
una,
per
cos’
dire,
privata),
ma
comunque
resta
inesplorata
e
sfuggente
alle
maglie
della
giustizia
la
trama
criminale
in
cui
è
inserito
e
per
conto
della
quale
ha
agito.
L’altro genere che Sciascia predilige, dicevamo, è il racconto-inchiesta
su
un
fatto
del
passato
sul
quale
si è
espressa
la
giustizia.
Il
modello
dichiarato
è
La
storia
della
colonna
infame
di
Manzoni,
dalla
quale
lo
scrittore
di
Racalmuto
riprende
l’uso
del
documento
inserito
e
analizzato
nel
contesto
narrativo.
Ciò che affascina l’autore è proprio l’interrogazione al
documento,
il
confronto
con
esso,
la
testimonianza
senza
preconcetti,
con
la
predisposizione
ad
accogliere
verità
diverse
da
quelle
di
partenza
o
meramente
ufficiali.
Dello
stesso
tenore
anche
i
pamphlets
su
temi
d’attualità,
anch’essi
costruiti
letterariamente
attingendo
a
volte
alla
parodia,
al
paradosso,
a
volte
strettamente
legati
all’analisi
documentaria.
Si
tratta
di
testi
che
si
addensano
soprattutto
negli
ultimi
anni
della
sua
produzione
e
che
lasciano
intravedere
la
persistenza
del
valore
della
ragione,
la
sua
fiducia
nella
ricerca
della
verità.
Lo spazio di libertà che la letteratura offre, che invece è
molto
meno
tollerata
nel
saggio,
gli
permette
di
mostrare
quelle
verità
non
provate
che
smascherano
gli
inganni
delle
fedi
ideologiche
e
sfuggono
ad
ogni
presa
di
posizione
precostituita.
Qui
si
collocano
pamphlets
come
L’affaire
Moro,
La
scomparsa
di
Majorana,
Fatti
diversi
di
storia
letteraria
e
civile,
La
corda
pazza.
Sulla stessa lunghezza d’onda si situa anche l’ultimo contributo
sciasciano,
confezionato
dallo
scrittore
poco
prima
di
morire.
È la
raccolta
di
articoli
pubblicati
su
quotidiani
e
riviste
tra
il
1979
e il
1983.
Decise
di
intitolarla
A
futura
memoria
(se
la
memoria
ha
un
futuro),
quasi
a
sottintendere
il
valore
di
verità
che
i
suoi
articoli
hanno
avuto,
benché
tale
valore,
con
ogni
probabilità,
sia
destinato
a
manifestarsi
col
tempo.
Parlare, in Sciascia, dello spazio vuol dire parlare dello
spazio
politico.
Anzi,
no:
dello
spazio
del
potere.
Potere
sotto
varie,
proteiche,
ma
pour
sempre
inquietanti
forme.
È il potere – mafioso, della Chiesa o dello Stato – che si
fa
autoritarismo.
Non
l’astratto
autoritarismo
identificato
e
raccontato
anche
dalla
pubblicistica
ufficiale,
ma
quello
bieco
e
quindi
più
tragico,
angoscioso
a
livello
patologico,
continuamente
premente,
insinuante,
dal
volto
accattivante,
mellifluo,
ma
ubiquo,
strisciante,
onnipotente
e
onnivoro.
Oltre
che
pervasivo,
occhiuto
e
terribile:
Ogni potere durevolmente stabilito – scrive Wolfgang Sofsky
–
tende
a
organizzare
lo
spazio
e il
tempo.
Le
strutture
così
create
non
sono
condizioni
marginali
della
socialità,
ma
forme
costitutive
dell’interazione
fra
gli
individui.
Gli
ordinamenti
temporali
e
spaziali
orientano
i
comportamenti
e i
rapporti
sociali.
Connessa alla questione del potere c’è, e non può non esserci,
la
questione
della
giustizia.
Chi la esercita? Chi la vuole? E, soprattutto, cos’è? Il
tema
della
giustizia
è
uno
dei
fili
rossi
continui
che
attraversano
tutta
la
produzione
di
Sciascia.
Una
giustizia
che
è
giusta
solo
in
quanto
esercitata
dal
potere,
non
in
sé.
Ma è
vera
giustizia?
E
non
si
riduce
a
mero
instumentum
regni?
E,
se
sì,
a
beneficio
di
chi,
a
coprire
cosa?
Ecco allora delinearsi due prospettive nell’estrinsecazione
e
nell’esercizio
del
potere:
una
prospettiva,
per
così
dire,
orizzontale
(Hic
sunt
leones)
ed
una
orizzontale,
dall’alto
in
basso
(Superior
stabat
lupus).
Vedremo
di
analizzarli.
Hic sunt leones
Il
giorno
della
civetta,
pubblicato
nel
1961,
è
ispirato
all’omicidio
del
sindaco
socialista
di
Sciacca
Accursio
Miraglia,
ucciso
il 4
gennaio
1948.
Molti
i
riferimenti
all’Italia
ed
alla
Sicilia
di
quegli
anni.
A
cominciare
dall’alto
prelato
anonimo
che
nega
l’esistenza
della
mafia
e
che
è
facilmente
identificabile
nell’allora
arcivescovo
di
Palermo
Mons.
Ernesto
Ruffini.
Il romanzo si apre così:
“L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi
raschi
e
singulti.
La
piazza
era
silenziosa
nel
grigio
dell’alba,
sfilacce
di
nebbia
ai
campanili
della
Matrice:
solo
il
rombo
dell’autobus
e la
voce
del
venditore
di
panelle,
panelle
calde
panelle,
implorante
ed
ironica.
Il
bigliettaio
chiuse
lo
sportello,
l’autobus
si
mosse
con
un
rumore
di
sfasciume.
L’ultima
occhiata
che
il
bigliettaio
girò
sulla
piazza,
colse
l’uomo
vestito
di
scuro
che
veniva
correndo;
il
bigliettaio
disse
all’autista
– un
momento
– e
aprì
lo
sportello
mentre
l’autobus
ancora
si
muoveva.
Si
sentirono
due
colpi
squarcianti:
l’uomo
vestito
di
scuro,
che
stava
per
saltare
sul
predellino,
restò
per
un
attimo
sospeso,
come
tirato
su
per
i
capelli
da
una
mano
invisibile;
gli
cadde
la
cartella
di
mano
e
sulla
cartella
lentamente
si
afflosciò.
Il bigliettaio bestemmiò: la faccia gli era diventata colore
di
zolfo,
tremava.
Il
venditore
di
panelle,
che
era
a
tre
metri
dall’uomo
caduto,
muovendosi
come
un
granchio
cominciò
ad
allontanarsi
verso
la
porta
della
chiesa.
Nell’autobus
nessuno
si
mosse,
l’autista
era
come
impietrito,
la
destra
sulla
leva
del
freno
e la
sinistra
sul
volante.
Il
bigliettaio
guardò
tutte
quelle
facce
che
sembravano
face
di
ciechi,
senza
sguardo;
disse
–
l’anno
ammazzato
– si
levò
il
berretto
e
freneticamente
cominciò
a
passarsi
la
mano
tra
i
capelli;
bestemmiò
ancora.
I carabinieri – disse l’autista – bisogna chiamare i carabinieri.
Si alzò ed aprì l’altro sportello – ci vado – disse al bigliettaio.
Il bigliettaio guardava il morto e poi i viaggiatori. C’erano
anche
donne
sull’autobus,
vecchie
che
ogni
mattina
portavano
sacchi
di
tela
bianca,
pesantissimi,
e
ceste
piene
di
uova;
le
loro
vesti
stingevano
odore
di
trigonella,
di
stallatico,
di
legna
bruciata;
di
solito
la
stimavano
e
imprecavano,
ora
stavano
in
silenzio,
le
facce
come
dissepolte
da
un
silenzio
di
secoli.
Chi è? – domandò il bigliettaio indicando il morto.
Nessuno rispose. Il bigliettaio bestemmiò, era un bestemmiatore
di
fama
tra
i
viaggiatori
di
quella
autolinea,
bestemmiava
con
estro:
già
gli
avevano
minacciato
il
licenziamento,
ché
tale
era
il
suo
vizio
alla
bestemmia
da
non
far
caso
alla
presenza
di
preti
e
monache
sull’autobus.
Era
della
provincia
di
Siracusa,
in
fatto
di
morti
ammazzati
aveva
poca
pratica;
una
stupida
provincia,
quella
di
Siracusa;
perciò
con
più
furore
del
solito
bestemmiava.
Vennero i carabinieri, il maresciallo nero di barba e di
sonno.
L’apparire
dei
carabinieri
squillò
come
allarme
nel
letargo
dei
viaggiatori:
e
dietro
al
bigliettaio,
dall’altro
sportello
che
l’autista
aveva
lasciato
aperto,
cominciarono
a
scendere.
In
apparente
indolenza,
voltandosi
indietro
come
a
cercare
la
distanza
giusta
per
ammirare
i
campanili,
si
allontanavano
verso
i
margini
della
piazza
e,
dopo
un
ultimo
sguardo,
svicolavano.
Di
quella
lenta
raggera
di
fuga
il
maresciallo
e i
carabinieri
non
si
accorgevano.
Intorno
al
morto
stavano
ora
una
cinquantina
di
persone,
gli
operai
di
un
cantiere-scuola
ai
quali
non
pareva
vero
di
aver
trovato
un
argo,mento
così
grosso
da
trascinare
nell’ozio
delle
otto
ore.
Il
maresciallo
ordinò
ai
carabinieri
di
fare
sgomberare
la
piazza
e di
far
risalire
i
viaggiatori
sull’autobus:
e i
carabinieri
cominciarono
a
spingere
i
curiosi
verso
le
strade
che
intorno
alla
piazza
si
aprivano,
spingevano
e
chiedevano
ai
viaggiatori
di
andare
a
riprendere
il
loro
posto
sull’autobus.
Quando
la
piazza
fu
vuota,
vuoto
era
anche
l’autobus;
solo
l’autista
e il
bigliettaio
restavano”.
L’omicidio, come si riscontra facilmente, avviene in piazza,
cioè
in
uno
spazio
pubblico.
Cioè
nello
spazio
in
cui,
da
che
mondo
è
mondo,
si
esercita
e
manifesta
il
potere,
in
cui
il
potere
fa
la
sua
epifania,
potremmo
aggiungere.
Un potere che, in determinati momenti storici – es. i totalitarismi
–
può
anche
pervadere
l’ambito
privato,
ma
che
trova
come
massimo
luogo
di
estrinsecazione
del
proprio
dominio
la
sfera
pubblica,
da
sottoporre
a
controllo,
inquadrare,
modellare,
riempiere
di
simboli
e da
cui
trarre
consenso.
L’omicidio
avviene
in
uno
spazio
pubblico,
quindi.
E,
conseguentemente,
deve
essere
inquadrato
nelle
sue
relazioni
con
lo
spazio
del
potere
e
dell’esercizio
del
potere.
Perché avviene in uno spazio pubblico? Semplice, la risposta:
deve
poter
essere
visto
da
tutti,
tutti
devono
constatare.
Perché?
Per
affermare
l’autorità,
ovvio.
Affermarla
e
ribadirla
agli
occhi
di
quelli
che
in
dottrina
politica
si
chiamano
‘i
consociati’.
Ma chi l’afferma quest’autorità? L’autorità di chi, insomma?
Beh,
di
coloro
che
hanno
perpetrato
l’omicidio
cioè
dei
mafiosi!
Solo
così
i
mafiosi
possono
ribadire
il
loro
dominio
sulla
cittadina,
sulla
sua
gente
e
dare
un
messaggio
a
coloro
che,
come
il
morto,
avevano
tentato
di
intraprendere
delle
vie
autonome
(il
rifiuto
della
‘guardiania’,
del
pizzo,
come
scopriremo
cammin
facendo
dentro
il
romanzo)
rispetto
a
quelle
indicate
dai
mafiosi.
Con
quest’atto,
la
mafia
si
atteggia
chiaramente
a
Stato
o ad
‘anti-Stato’
che
non
teme
lo
Stato
ufficiale
ed
anzi
lo
sfida,
se
partiamo
dal
presupposto
storico
ed
extraromazesco
che
uno
Stato
ci
sia.
Collegata a tutto ciò c’è, come sopra anticipato, anche la
questione
del
consenso.
La
gente,
come
si è
potuto
notare
dalla
lettura,
sfugge,
si
defila:
per
paura,
perché
pensa
che
non
siano
affari
suoi,
per
indifferenza
quindi.
Ma
soprattutto
per
non
avere
nulla
da
spartire
con
lo
Stato,
con
quello
Stato
che
in
Sicilia
è
visto
come
un
rapace,
uno
stato
presente
solo
sotto
forma
di
divise
di
carabinieri
(la
legge,
si
dice
normalmente,
parlando
dei
carabinieri)
o
per
legittimare
le
ingiustizie
della
leva,
delle
tasse,
delle
autorizzazioni.
Questa lontananza dello Stato - presunta o reale, ma fortemente
percepita
in
ogni
caso
–
crea,
è
consenso
–
passivo,
inerte,
ma
straordinariamente
efficace
–
per
la
mafia,
che
ama
manifestarsi
come
potere
e
potenza,
ma
si
defila,
di
nasconde,
si
dilegua
persino,
per
meglio
penetrare,
insinuarsi
nello
Stato
vero
(esempi
ne
sono
i
personaggi
che
ritroviamo
a
Roma,
compreso
il
deputato
che
siede
in
Parlamento
che
i
due
amici
vanno
a
trovare…)
Come sappiamo, il potere mafioso, nella cittadina di Sciascia,
è
rappresentato
dal
capo
mafia
don
Mariano
Arena,
mentre
quello
dello
Stato
dal
capitano
Bellodi,
emiliano
di
Parma,
ex
partigiano,
uomo
che
sa
dire
no
ed
ha
detto
no.
Uomo
che
si
attira
diffidenze,
rispetto
e
odio.
E
questi
sentimenti
non
glieli
concedono
-
come
ci
si
potrebbe
aspettare
e
come
sarebbe
d’altronde
logico
– i
politici
(rispetto)
e i
mafiosi
(diffidenza
e
odio),
ma
esattamente
l’opposto.
Sarà
don
Mariano
a
confessare
il
suo
rispetto
per
il
capitano,
mentre
nel
capoluogo,
nell’ambiente
ecclesiastico
ed a
Roma
cresceranno
la
diffidenza
e
l’odio
nei
suoi
confronti.
Lo spazio, dicevamo. Lo spazio pubblico. Lo spazio dominato.
Da
un
potere
che
si
incarna
in
figure.
Nel
Giorno
della
civetta
è la
mafia,
don
Mariano,
una
mafia
che
tenta
il
salto
alla
conquista
del
mondo
edilizio,
una
mafia
modernizzata,
attualizzata
anche
grazie
alle
connivenze
in
alto
loco,
una
mafia
che
è
mafia
perché
–
come
dirà
Sciascia
–
non
sta
contro
lo
Stato,
ma
permea
e si
sostituisce
a
tratti
allo
Stato,
lo
controlla
dall’interno,
almeno
in
Sicilia,
ed
almeno
all’epoca.
Bene, in Todo modo – unico romanzo di Sciascia narrato
in
prima
persona,
pubblicato
nel
1974
– il
potere
è
incarnato
da
un
prete,
da
un
diabolico,
freddo,
coltissimo
e
spregiudicato
prete,
don
Gaetano
(eccezionale
il
particolare
dei
suoi
occhiali
a
pince-nez
simili
al
diavolo
de
Le
tentazioni
di
Sant’Antonio
di
Rutilio
Manetti).
Don
Gaetano
uno
che
“ha
letto
tutti
i
libri
del
mondo”
e
che
rimanda
a
quella
frase
(“la
cultura
è
una
bella
cosa”)
messa
in
bocca
al
colto
mafioso
che
disquisisce
dell’origine
della
parola
‘mafia’
nel
racconto
Filologia,
contenuto
in
Il
mare
colore
del
vino.
Lo spazio, dicevamo. L’ambientazione del romanzo è un eremo,
un
eremo-albergo
a
dire
il
vero,
rifatto,
riadattato,
sberciato
a
tratti
dalle
mani
di
architetti
moderni.
È
qui
che
immediatamente
si
esercita
il
potere
di
don
Gaetano.
Vediamo come lo descrive lo scrittore-narratore:
“L’eremo è luogo di solitudine; e non di quella solitudine
oggettiva,
di
natura,
che
meglio
si
scopre
e
più
si
apprezza
quando
si è
in
compagnia:
un
bel
posto
solitario,
come
si
suol
dire;
ma
di
quella
solitudine
che
ne
ha
specchiato
altra
umana
e si
è
intrisa
di
sentimento,
di
meditazione,
magari
di
follia.
E in
quanto
a
Zafer:
un
santone
musulmano
o
cristiano?
Ed
era
a
tre
chilometri:
soltanto,
esattamente
e
giustamente.
Feci
la
breve
manovra
per
entrare
nella
stradetta
asfaltata
(e
l’asfalto
avrebbe
dovuto
mettermi
in
guardia)
e mi
avventai
alla
salita.
Querce
da
sughero
e
castagni
facevano
galleria,
l’aria
profumava
di
tardive
ginestre.
E
improvvisamente
un
vastissimo
spiazzo
anch’esso
asfaltato,
un
lato
chiuso
da
un
casermone
di
cemento
orridamente
bucato
da
finestre
strette
e
oblunghe.
Mi
fermai,
deluso
e
arrabbiato:
poiché
non
si
vedeva
che
la
strada
potesse
continuare,
e
dunque
l’eremo
era
ormai
quella
mostruosa
costruzione.
Un
albergo,
con
tutta
probabilità”.
Il luogo della pubblicità ovviamente è l’eremo, o meglio il
suo
esterno,
il
cortile-spiazzo.
È
questo
il
luogo
della
‘pubblicità’,
il
luogo
in
cui
gli
interessi
economici
e
politici,
si
incontrano,
si
plasmano,
trovano
copertura
in
un’ideologia
religiosa:
quella
cattolica.
Si
tratta
di
un
quadrato
–
quindi
con
i
lati
uguali
-,
ma,
quasi
a
simboleggiare
l’ambiguità
del
potere,
per
metà
in
zona
di
luce,
per
metà
e
anche
più
immerso
nell’oscurità.
Ci si riunisce dopo cena, dopo aver rifocillato il corpo:
primum
vivere,
deinde
Dei
laudari,
prima
il
corpo
e
poi
l’anima.
Una successione – anche temporale e cronologica – più da
mondo
laico
e
profano
che
da
ambiente
religioso:
“Finita la refezione e man mano che i commensali uscivano
all’aperto,
vidi
che
tutti
andavano
raccogliendosi
intorno
a
don
Gaetano:
non
casualmente,
ma
come
per
un’adunata
stabilita,
prescritta.
E il
mio
malumore
si
dissolse
nella
curiosità.
Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero
di
essere
tutti
presenti,
il
cerchio
si
scompose
e
prese
forma
di
quadrato.
Don
Gaetano,
che
era
stato
al
centro
del
cerchio,
si
trovò
nel
mezzo
della
prima
fila
del
quadrato.
Così
ordinati,
stettero
un
momento
fermi
e in
silenzio:
poi
si
alzò
la
voce
di
don
Gaetano
–
Nel
nome
del
Padre,
del
Figlio
e
dello
Spirito
santo.
Amen
– e
il
quadrato
si
mosse.
Lo
spiazzale,
come
ho
detto,
era
vasto;
e
ancora
più
vasto
lo
rendeva
il
fatto
che
le
luci
vi
erano
state
quasi
tutte
spente.
Il
quadrato
marciò
dalla
porta
dell’albergo
al
margine
opposto.
Arrivandoci,
mi
parve
si
aggrumasse
in
confusione
e
stentasse
a
ricomporsi,
mentre
in
coro
recitavano
il
Padrenostro.
Ricomposto,
venne
verso
l’albergo
con
l’Avemaria:
e
alla
luce
che
veniva
dalla
porta
e
dalla
finestra
del
pianterreno,
vidi
che
in
prima
fila,
con
don
Gaetano
sempre
nel
mezzo,
non
c’erano
gli
stessi
di
poco
prima.
E mi
accorsi
che
il
movimento
era
in
effetti
più
ordinato
di
quanto
mi
era
parso
da
lontano:
fermandosi
un
po’
prima
del
dietrofronte,
don
Gaetano
lasciava
che
il
quadrato
si
aprisse
al
suo
star
fermo
e
andasse
avanti,
ricongiungendosi,
finché
lui
non
si
fosse
trovato,
al
momento
del
dietrofronte,
al
centro
dell’ultima
fila,
che
diventava
la
prima.
Certo,
qualcuno
si
confondeva:
ma
la
recitazione
del
Rosario
non
perdeva
ritmo.
(…) E c’era di che. Quell’andare su e giù nello spiazzale
quasi
buio,
non
come
in
un
quieto
passeggio
ma a
passo
svelto,
appunto
come
chi
ha
paura
del
buio
e si
affretta
a
raggiungere
la
zona
di
luce
(che
era
quella
dell’ingresso
dell’albergo:
e lì
infatti
il
loro
passo
si
faceva
più
lento,
a
indugiarvi
prima
di
riaffrontare
il
cammino
verso
la
parte
più
buia);
quelle
loro
voci
che
si
levavano
nel
Padrenostro,
nell’Avemaria,
nel
Gloria
con
un
che
di
atterrito
e di
isterico;
la
voce
di
don
Gaetano,
che
succedeva
alle
loro,
distante
e
fredda:
e da
quella
voce
espressioni
come
‘misterioso
messaggio’,
‘mistero
della
salvezza’,
‘
antico
serpente’,
‘spada
che
trafiggerà
l’anima’
si
intridevano
di
un
senso
tutto
fisico,
non
più
metafore
ma
eventi
che
stavano
realizzandosi,
che
si
realizzavano,
in
quel
posto
al
confine
del
mondo,
al
confine
dell’inferno,
che
era
l’hotel
di
Zafer”.
Qui si ha lo sdoppiamento tra il momento della descrizione-decrittazione
dello
spazio
e il
momento
della
consumazione
del
delitto.
Ma
la
valenza
attribuibile
allo
spazio
non
muta.
Il
delitto,
infatti,
non
può
che
consumarsi
in
questo
spazio
pubblico.
Il perché è ovvio: è anch’esso un delitto politico (cioè
pubblico),
da
mostrare,
da
far
vedere:
è un
messaggio,
è
una
manifestazione
di
potere,
è un
avvertimento
ai
titubanti,
ai
troppo
indifferenti
o,
viceversa,
ai
troppo
curiosi,
ai
troppo
interessati.
È il
potere
che
secerne
e
trita
se
stesso.
Per
vivere,
per
riabilitarsi,
per
rinvigorirsi.
La morte dell’on. Michelozzi è descritta come un temporaneo
rimescolamento
dell’ordine
spaziale
(il
quadrato
vivente
che
viene
‘centrifugato’):
il
tutto
sotto
gli
occhi
di
due
spettatori,
il
pittore-narratore
e il
cuoco.
Spettatori proprio come i passeggeri del bus, il venditore
di
panelle
e
gli
altri
frequentatori
della
pizza
al
momento
dell’uccisione
di
Colasberna
ne
Il
giorno
della
civetta:
“Il quadrato era al margine dello spiazzale, nel punto più
lontano
dell’ingresso
dell’albergo
e da
dove
il
cuoco
ed
io
sedevamo.
Si
era
appena
ricomposto
nel
dietrofronte:
ed
ecco
che
tra
la
porta
del
cielo
e il
prega
per
noi
quel
colpo
lo
fermò
e
sospese
per
un
attimo;
e
subito
dopo
lo
scompose,
lo
centrifugò.
(…)
Mi
ci
volle
una
trentina
di
secondi,
credo,
perché
quella
massa
prendesse
la
forma
di
un
uomo
caduto;
(…)
era
l’ex
senatore
(Michelozzi,
ndc),
presidente
di
quel
grosso
ente
di
Stato,
che
durante
il
pranzo
aveva
giocato
alle
citazioni
con
don
Gaetano”.
Ma non tutte le morti sono degne di palcoscenico, non tutte
le
morti
sono
pubbliche.
In
quanto,
ad
esempio,
non
tutte
hanno
messaggi
da
trasmettere
e,
se
ce
l’hanno,
non
sono
messaggi
forti
del
potere,
che
servono
all’estrinsecazione
del
potere,
al
suo
controllo
sociale.
Ci sono morti che conviene siano occultate, segrete. E non
perché,
se
fossero
pubbliche
creerebbero
scandalo
o
reazioni
civili,
ma
perché
è
superfluo
che
siano
pubbliche.
Sono
morti
che
si
consumano
ai
margini,
ai
margini
dello
spazio
pubblico,
ai
margini
del
consorzio
civile.
Che
non
hanno
autonomia
di
per
sé,
ma
ne
assumono
in
quanto
riverbero,
collegamento
con
altri
morti
pubbliche.
Sono
insomma
funzionali.
È questo il caso della morte di Nicolosi. Nicolosi, nel
Giorno
della
civetta,
viene
ucciso
perché
riconosce
accidentalmente
uno
dei
killer
di
Colasberna.
Il
destino
ha
complottato
contro
di
lui:
ha
riconosciuto,
uscendo
di
casa
la
mattina
del
16
gennaio,
nel
killer
di
Colasberna
Diego
Marchica
detto
Zicchinetta,
suo
compaesano
di
B.,
un
paese
vicino
a
quello
in
cui
si
consuma
l’omicidio
Colasberna,
che
è
Sciascia.
Va da sé che Nicolosi è stato ucciso per questo, per necessità,
non
perché
servisse
davvero.
Il
suo
omicidio
non
ha
nulla
da
dire,
non
è
politico,
non
è
messaggio
di
potere,
è
solo
frutto
del
caso
e
della
necessità
per
i
mafiosi
di
far
tacere
un
testimone.
È
appunto
un
omicidio
funzionale
al
primo,
il
più
importante
e
quello
attorno
a
cui
gira
il
romanzo.
Conseguentemente, il corpo di Nicolosi viene ritrovato fuori
paese,
in
un
luogo
desolato,
pieno
di
grotte
e
foibe,
di
tane
di
animali
selvatici
e di
nidi
per
gli
uccelli
notturni:
il
chiarchiaro:
“La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva sorgere
dal
verde
tenue
dei
seminati,
dalle
rocce
e
dagli
alberi
madidi:
e
impercettibilmente
salire
verso
il
cielo
cieco.
Il
chiarchiaro
di
Gràmoli,
incongruo
ed
assurdo
nella
pianura
verdeggiante,
pareva
una
enorme
spugna,
nera
di
buchi,
che
veniva
inzuppandosi
della
luce
che
sulla
campagna
cresceva.
Il
capitano
Bellodi,
che
era
arrivato
al
limite
in
cui
stanchezza
e
sonno
si
fanno
lucida
febbre,
come
se
da
sé
si
consumassero
per
dar
luogo
a un
ardente
specchio
di
immagini
(e
così
è
della
fame.,
che
ad
un
certo
punto,
ad
una
certa
intensità,
si
assottiglia
in
lucida
inedia
che
respinge
la
visione
del
cibo),
il
capitano
pensava
–
Dio
qui
ha
gettato
la
spugna
– in
analogia
alla
visione
del
chiarchiaro
ponendo
la
lotta
e la
sconfitta
di
Dio
nel
cuore
umano.
Un po’ scherzando, e perché sapeva il capitano curioso di
certe
espressioni
popolari,
il
brigadiere
disse:
E
lu
cuccu
ci
dissi
a li
cuccuotti:/a
lu
chiarchiaru
nni
vidiemmu
tutti
–
e
subito
incuriosito
il
capitano
gli
chiese
il
significato.
Il
brigadiere
tradusse:
- Ed
il
cucco
disse
ai
propri
figli:
al
chiarchiaro
ci
incontreremo
tutti
– ed
aggiunse
che
forse
voleva
dire
che
ci
incontreremo
tutti
nella
morte,
l’immagine
del
chiarchiaro,
chi
sa
perché,
diventata
idea
della
morte.
Il
capitano
capiva
benissimo
il
perché:
e
febbrilmente
ebbe
visione
di
un
fitto
raduno
di
uccelli
notturni
nel
chiarchiaro,
un
cieco
sbattere
di
voli
nell’opaca
luce
dell’ora;
e
gli
pareva
che
il
senso
della
morte
non
si
potesse
dare
in
immagine
più
di
questa
paurosa”.
Nello stesso modo e in luoghi similari gli assassini si
liberano
sia
del
dottor
Roscio
e
del
farmacista
Manno
che
del
professor
Laurana,
in
A
ciascuno
il
suo,
romanzo
del
1966,
ispirato,
anche
in
questo
caso
ad
un
fatto
di
cronaca:
l’omicidio
del
commissario
Cataldo
Tandoy,
avvenuto
nel
1960
ad
Agrigento.
Roscio e Manno – o meglio, il solo Roscio, giacché Manno,
nonostante
la
lettera
anonima,
è
una
sorta
di
‘morto
di
complemento’-
vengono
uccisi,
ma
il
loro
omicidio
non
è
quello
che
appare
(persino
la
vittima
non
è
quella
che
dovrebbe
essere
in
base
alla
lettera
anonima).
Secondo la versione ufficiale, Roscio verrà ucciso per motivi
passionali
e
non
mafiosi
(che
è
l’esatto
opposto
di
quanto
avviene
in
molti
gialli
di
Camilleri,
es.
Il
campo
del
vasaio).
Per
questioni
private
e
non
pubbliche.
Solo
Laurana
si è
avvicinato
alla
verità,
l’ha
persino
sfiorata.
Ha
sfiorato
con
mano
gli
intrecci
politico-mafiosi,
ha
conosciuto
in
che
modo
si
eserciti
il
potere
tramite
collusioni
politico-affaristiche
alle
quali
non
sono
estranei
gli
uomini
di
chiesa.
Però, invaghitosi della bella vedova Roscio, è caduto però
nella
sua
tela.
Viene
sequestrato
ed
eliminato:
lupara
bianca,
diremmo
oggi.
Il
suo
corpo
scaricato
in
una
zolfara
abbandonata,
fuori
dal
consorzio
umano:
“Ma il professore giaceva sotto grave mora di rosticci, in
una
zolfara
abbandonata,
a
metà
strada,
in
linea
d’aria,
tra
il
suo
paese
e il
capoluogo”.
Quello di Laurana è un omicidio, oltre che annunciato, anche
inutile
perché
frutto
di
una
passione
intellettuale
(lui
non
è un
poliziotto
o un
detective):
vuole
conoscere
le
cose
e
scoprire
l’assassino
di
Manno
e
Roscio
solo
per
piacere
e
curiosità.
La sua è la morte di un uomo solo, di un uomo ingenuo (‘un
cretino’
lo
apostroferanno
gli
amici
del
Circolo
alla
fine
del
romanzo),
di
un
uomo
che,
più
che
imprudente,
si è
mostrato
inadeguato
all’ambiente
che
lo
circondava:
inadeguato
e
disinteressato.
Ai margini degli spazi ‘ufficiali’ avvengono anche gli altri
due
omicidi
–
dopo
quello
di
Michelozzi
– di
Todo
modo.
Il
primo
a
morire
è
Voltrano:
“Era accaduto che l’avvocato Voltrano, volando, si credeva,
dalla
finestra
della
sua
camera,
all’ottavo
piano,
era
andato
a
spiaccicarsi
su
un
mucchio
di
mattoni
e
tegole:
dietro
l’angolo,
dalla
parte
in
cui
stavano
le
cucine.”
Don Gaetano viene trovato morto nel bosco:
“Qualcuno aveva trovato morto don Gaetano: ma non si sapeva
se
nella
sua
camera
o
nel
suo
studio
o
nella
cappella
o
nel
bosco.
Finalmente
da
fuori
uno
gridò
–
Nel
bosco,
al
vecchio
mulino
– e
la
mandria
uscì
nello
spiazzale,
si
sparpagliò,
di
nuovo
si
serrò,
ad
imbuto,
verso
il
sentiero
che
portava
al
vecchio
mulino
(…)
Era
stato
ucciso.
Al
vecchio
mulino,
che
era
poi
quello
di
cui
restava
la
mola
di
pietra.
E la
mola,
da
cui
era
scivolato,
gli
faceva
da
spalliera”.
Che differenza hanno con la morte di Michelozzi, il primo
caduto?
Voltrano muore per lo stesso motivo di Michelozzi – questioni
di
potere
– ma
la
morte
del
primo
la
‘copre’:
non
è
necessario
mostrarla
in
pubblico.
Muore
cadendo
dall’ottavo
piano,
ma
dalla
parte
retrostante
dell’albergo-eremo,
dalla
parte
delle
cucine.
Il
messaggio
‘pubblico’
è
già
stato
esplicitato
con
la
prima
morte.
Voltrano
muore
non
tanto
perché
la
sua
morte
sia
manifestazione
di
potere,
quanto
perché
serve
per
perpetuare
il
potere
e,
soprattutto,
mette
a
posto
alcuni
rapporti
interni
al
potere
stesso
o –
come
nel
caso
di
Nicolosi
–
perché
ha
visto
e
quindi
deve
tacere
per
sempre.
Dal
punto
di
vista
dell’esercizio
esterno
del
potere
è
una
morte
superflua.
Anche don Gaetano muore – ucciso dal pittore-narratore come
sostiene
la
maggioranza
dei
critici
e
come
fa
pensare
la
citazione
tratta
da
Gide
-
per
vendetta
contro
il
potere,
per
ribellione,
la
ribellione
di
un
uomo
solo,
disgustato
da
quell’uomo
diabolico
che
teneva
in
pugno
persino
le
anime
dei
convitati.
Se
non
è
una
vendetta
privata,
ci
si
avvicina
molto.
È
una
vendetta
personale.
Di
rigurgito,
quasi.
È palese che la Sicilia è il fulcro attorno a cui gira la
narrativa
sciasciana.
È
persino
superfluo
ricordarlo.
Ma,
non
è
superfluo
ricordare
che
la
Sicilia
esiste,
in
Sciascia,
prima
di
tutto
come
una
costellazione
di
istituti
giuridici,
di
privilegi,
di
immunità
che,
scomparsi
ormai
da
anni,
sopravvivono
ben
radicati
nelle
concezioni
e
nel
comportamento
dei
siciliani.
Quella famosa ‘sicilitudine’ altro non è che l’elaborazione
o
rielaborazione
di
idee
e
immagini
con
forza
di
mito.
La
mafia,
la
sicilitudine
esistono,
‘così
che
–
dirà
Enzo
Siciliano
– il
mare
che
circonda
la
regione
acquista
un
significato
ben
più
ampio
di
quello
geografico’.
Ma
la
sicilitudine
di
cui
parla
Sciascia
e
che,
come
confessa
in
varie
occasioni,
si
porta
dentro,
è
sorretta
da
una
vita
e da
una
morale
che,
nel
suo
dipanarsi
a
livello
di
rapporti
sociali,
mostra,
in
senso
meno
rarefatto
e
più
pragmatico,
i
tratti
della
complessità,
della
negatività,
della
tragedia
del
potere.
Il siciliano – come ricorderà a più riprese Sciascia, rifacendosi
ai
citati
Avvertimenti
di
Scipio
di
Castro,
alle
raccomandazioni
del
Vicerè
Caracciolo
ed
alle
istruzione
ai
figli
da
parte
del
poeta
semisconosciuto
Argisto
Giuffredi
(citato
in
Porte
aperte
soprattutto
per
la
sua
posizione
avanzata
sulla
pena
di
morte)
–
ama
le
novità,
è
litigioso,
è
leguelo,
adulatore
e
invidioso,
critico
sottile
delle
azioni
dei
governanti,
ma
pronto
ad
usare
gli
stessi
governanti
per
raggiungere
i
suoi
scopi,
attaccato
alla
roba
più
che
alla
religione
–
anzi
la
sua
è la
religione
della
roba,
timido
(cioè
riservato)
nella
gestione
degli
affari,
ma
temerario
negli
affari
pubblici.
E,
grande
sofisticatore
della
morale
sessuale.
Sofisticatore è una parola con cui Sciascia intende più
cose.
Anzitutto,
il
fatto
che
gli
intrallazzi
e le
relazioni
sessuali
e
personali
servono
spesso
a
coprire
delitti
e
vicende
che
di
sessuale
hanno
ben
poco.
Inoltre,
tende
a
sottolineare
come
la
morale
sessuale,
in
Sicilia,
non
abbia
una
rilevanza
solo
privata
(quasi
da
nessuna
parte
lo
è) o
meramente
pubblica,
ma
diventa
un
modo
di
vedere
i
rapporti
sociali
e
politici.
Ad esempio, la donna è il desiderio fisso dei siciliani. Ma
non
la
donna-moglie,
bensì
la
donna-altra,
come
la
chiama
Sciascia
nell’intervista
a
Marcelle
Padovani.
Il siciliano, insomma, desidera la donna che rappresenta un
altro
mondo
(il
caso
della
continentale
de
L’aria
del
continente
di
Nino
Martoglio,
che
poi
si
rivelerà
siciliana
di
Caropepe
e, a
rivelazione
avvenuta,
anche
l’amore
morirà)
o
che
è di
un
altro
uomo
o
anche
di
nessuno.
È in lei che si concentra il ‘gallismo’ di cui parlava Brancati.
Non
sulla
moglie.
Ecco,
allora,
che
la
donna,
in
quanto
sempre
appartenente
a
qualcuno
(padre
o
marito
o
persino
fratello)
è
portatrice
dell’onore
della
famiglia
di
provenienza.
Di
per
sé
non
ha
un
onore,
ma
ha
quello
del
padre
o
del
marito,
il
quale
dovrà
vigilare
affinché
lei
non
lo
leda,
non
tradisca.
Dunque, chi non è capace di tutelare il proprio onore –
insidiato
naturalmente
dagli
altri
uomini
-
non
può
avere
considerazione
sociale,
perché
non
ha
onore,
non
ha
dignità:
il
cornuto
perde
anche
l’onore
pubblico,
l’onorabilità
e
quindi
diventa
incapace
di
comportarsi
da
uomo
e di
seguire
le
regole
della
normale
comunità
maschile.
Chi è cornuto o è fesso o – se sa di esserlo e non agisce –
è
impotente.
L’essere
cornuto
assume
quindi
una
valenza
sociale,
ma,
ancor
di
più,
diventa
una
chiave
interpretativa
dei
medesimi
rapporti
sociali
poiché
chi
non
sa
farsi
rispettare
non
può
chiedere
rispetto.
È
una
regola
che
la
società
siciliana
ha
fatto
sua
e
che,
ancor
di
più,
la
mafia
ha
fatto
sua
per
poi
restituirla
amplificata
alla
stessa
società
di
provenienza:
“Don Ciccio – disse il maresciallo – esclude in modo assoluto
che
nel
paese
ci
sia
uno
che
abbia
questo
cognome
o
ingiuria
(Zicchinetta,
ndc):
e
per
queste
cose,
don
Ciccio
è
cassazione…
E se
dice
che
il
povero
Nicolosi
era
cornuto,
possiamo
metterci
sopra
bollo
e
sigillo
che
le
corna
ci
sono”.
Ma, questa concezione legata alla cosiddetta ‘sofisticazione
sessuale’,
lentamente
assume
connotati
particolari.
Si dipana in due direzioni diverse: all’indietro, verso
il
passato,
investendo
la
storia
della
Sicilia,
e
in
avanti,
verso
il
futuro
più
o
meno
prossimo
, a
tratteggiare
il
possibile
sviluppo-viluppo
dell’Italia
tutta
intera.