N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
I
funamboli della neve
La centenaria storia
dello sci alpino
di Simone Valtieri
È il 1897. Nella
gelida località francese di Chamonix, tra le Alpi Graie,
un ragazzino inglese di appena dieci anni, Arnold Lunn,
assapora per la prima volta nella sua vita il clima
dell’alta montagna. La fresca aria respirata e gli
splendidi paesaggi visibili dagli oltre quattromila
metri delle vette alpine affascinano Arnold ed entrano
nel suo immaginario così profondamente da condizionarne
l’intera esistenza.
Figlio del reverendo
metodista Henry Simpson Lunn, fondatore dell’omonima
agenzia “Lunn” che si occupava di viaggi e di turismo
tra le Alpi, nasce lontano dalla patria Inghilterra,
nella città indiana di Madras, il 18 aprile 1888. Dopo
le prime escursioni alpine con il padre in tenerissima
età, si appassiona a un particolare aspetto della
montagna ancora non del tutto esplorato: la discesa
mediante l’uso di sci, utilizzati fino ad allora
principalmente per le discipline nobili dello sci di
fondo.
Prima di parlare
ulteriormente di Lunn bisogna però fare un piccolo salto
indietro di qualche decennio per conoscere i progressi
di uno scultore austriaco, e un altro balzo, un po’ più
lontano, di ventimila anni.
Le origini dell’arte sciistica con mezzi simili a quelli
odierni è datata circa 2500 anni prima di Cristo. In
alcune incisioni rupestri in Lapponia e Norvegia vi è
però testimonianza dell’uso di strumenti fatti per
scivolare sul ghiaccio risalenti addirittura a venti
secoli prima dell’anno zero. Lo sci destro era il più
lungo mentre il sinistro, più corto, coperto di pelle di
foca, serviva a darsi la spinta sulla neve senza
scivolare. Si trattava di rudimentali attrezzi
realizzati per di più in legno di frassino e con lacci
di cuoio per fissarli all’arto.
Preziosi riferimenti
all’uso degli sci si possono trovare in Erodoto e
nell’Eneide di Virgilio, nonché negli scritti del
prelato Francesco Negri che effettuò un viaggio in
Lapponia nel 1663, descrivendo questi attrezzi come un
normale mezzo di locomozione per gli abitanti della
zona.
Tuttavia è tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo
che si inizia a pensare allo sci come mezzo di svago e
di competizione. Lo scultore e pittore austriaco, o
meglio sarebbe dire austroungarico, Mathias Zdarsky fu
il primo ad avere l’intuizione giusta: lo sci si può
utilizzare per scendere e non solo per salire i pendii,
a patto di servirsi però di un mezzo più corto rispetto
a quelli in uso, 1,80 metri rispetto ai 3 abituali.
Con l’aumento del pendio
da affrontare, si pone però il problema degli allacci,
per cui due stringhe di cuoio iniziano a diventare
pericolose. Lo stesso Zdarsky ha la premura di studiare
un nuovo tipo di aggancio, chiamato Lilienfelder dal
nome di una cittadina austriaca, con la funzione di
ancorare il piede allo sci mediante una talloniera per
evitare slittamenti laterali all’arto. L’invenzione è
rivoluzionaria e contemporanea alla nascita delle prime
società sciistiche come lo Sci Club “Christiania”
(l’odierna Oslo) in Norvegia e lo Ski Club des Alpes a
Grenoble, nel 1883.
La precedente tecnica di discesa con tallone libero, il
telemark, utilizzata per i pendii meno ripidi e
sperimentata dal falegname norvegese Sondre Norheim, uno
dei padri dello sci nordico, risultava essere sempre
meno adatta man mano che l’inclinazione della discesa
aumentava. Il problema viene iniziato a risolvere sempre
da Zdarsky, che con gli sci da lui ideati può
permettersi una nuova tecnica di discesa, da lui stesso
chiamata “voltata d’appoggio” e oggi nota come
“spazzaneve”, che consiste nello scendere con le
ginocchia piegate e gli sci convergenti a V.
Naturale evoluzione è
quella di curvare aprendo gli sci verso una posizione
parallela. Il primo a sperimentare tale metodo è
l’ufficiale dell’esercito austroungarico Georg Bilgeri,
che si serve di due bastoncini per equilibrare il corpo
in apertura e chiusura di curva. La tecnica si chiamerà
Stemmbogen e sarà perfezionata da Johannes Schneider,
che influenzato anche dalle originarie tecniche
nordiche, inventerà un nuovo modo di impostare le curve.
Lo sci inizia a prendere piede anche in Italia agli
albori del nuovo secolo con la fondazione di alcuni Sci
Club, come quello di Ponte Nossa (1900) e di Torino
(1901), e con la nascita dell’Unione Ski Club italiani
nel 1908.
Il 19 marzo 1905, intanto,
si era svolta a Muckenkogel, nei pressi della cittadina
di Lilienfeld, la prima competizione di sci alpino. Ad
organizzarla, il luogo è già un indizio, sembra sia
stato proprio Mathias Zdarsky, che su un dislivello di
800 metri aveva fatto mettere 40 porte, delimitate
ognuna da due paletti, in cui era d’obbligo passare per
arrivare al traguardo. La prima gara di discesa libera,
ossia non delimitata da porte strette, è invece del 7
gennaio 1911 sulle nevi di Crans Montana in Svizzera, e
prende il nome di “Challenge Robert of Kandahar”.
Anche qui il nome della
gara è un indizio: “Robert di Kandahar” fu un generale
che occupò per conto della Regina la città afgana;
l’inglese e dunque connazionale di Arnold Lunn, che gli
intitolò la manifestazione e la aprì a giovani
dilettanti britannici. A soli venti anni Lunn fonda
l’Alpine Ski Club e si batte, tra lo scetticismo
generale, per promuovere la diffusione della disciplina
tra i suoi connazionali.
Nel dopoguerra trasforma
il Challenge Kandahar in competizione internazionale
aperta a tutti, che prende il nome di “Arlberg-Kandahar”
e dura, con l’alone del mito, fino al 1986.
Il 1924 è un anno chiave per lo sci. Il 30 gennaio Lunn
fonda il Kandahar Ski Club, che promuove le nuove
discipline alpine di discesa e slalom tra le porte,
nonché una gara su entrambe le specialità, chiamata
combinata. Neanche tre giorni più tardi, il 2 febbraio a
Chamonix, durante la “Settimana internazionale degli
sport invernali”, quella che più tardi sarà riconosciuta
ufficialmente dal CIO come prima edizione dei Giochi
olimpici invernali, nasce la FIS: Federazione
Internazionale dello Sci.
Voluta principalmente dai
paesi scandinavi, aveva una vocazione più
tradizionalista atta a rafforzare il primato del nobile
sci di fondo e del salto dal trampolino, sul giovane e
spericolato sci alpino, che veniva sì riconosciuto come
disciplina, ma non ammesso alle prime grandi
competizioni come i giochi olimpici.
Lo sci alpino continua comunque inesorabile la sua
diffusione. Nel 1928 viene organizzata la già citata
Arlberg-Kandahar, una gara internazionale da disputare
su due manche, una di slalom e una di discesa, la cui
somma dei tempi dava poi il vincitore finale. La prima
edizione fu organizzata tra le nevi austriache di Sankt
Anton am Arlberg e a vincere furono due atleti di casa,
Benno Leubner tra gli uomini e Lisbeth Polland tra le
donne. Il primo costruì la sua vittoria tra i pali
stretti dello slalom, mentre la seconda tra le larghe
porte della discesa.
La gara riscosse un
interesse clamoroso e venne ripetuta l’anno successivo,
e quello successivo ancora, fino a diventare il più
prestigioso appuntamento per gli appassionati di questa
giovane disciplina. Nel 1931, sempre su spinta di Lunn,
la federazione accetta di organizzare il primo “Concorso
internazionale FIS” di Sci Alpino, una sorta di genitore
dei moderni campionati mondiali. A Mürren, in Svizzera,
si disputano due prove di discesa e una di slalom, sia
maschile che femminile, con un ottimo risultato per gli
sciatori britannici.
Il “Concorso internazionale FIS” viene ripetuto per
altre cinque stagioni, fino al 1936, anno in cui, a
causa del grande successo riscosso tra il pubblico, e al
sempre crescente numero di atleti partecipanti, la FIS
accetta di inserire lo sci alpino nel programma dei
giochi Olimpici. A Garmisch Partenkirchen, in Germania,
la giovane disciplina esordisce con due prove di
combinata, vinte entrambe da atleti tedeschi, Franz
Pfnur e Christel Cranz.
Nel 1937 è poi la volta
dei primi, veri e propri, Campionati mondiali di sci
alpino, che si disputano a Chamonix sulle tre prove
classiche di discesa, slalom e combinata. Sono gli anni
dei primi pionieristici campioni, come il francese Emile
Allais che si aggiudica tutte le prove maschili di
quell’edizione, e della già citata tedesca Christel
Cranz, che fa l’en plein nelle prove femminili e rimane
dominatrice incontrastata di un po’ tutte le discipline
fino ai primi anni quaranta, collezionando a fine
carriera il record, ancora imbattuto, di 10 medaglie
d’oro mondiali.
Ormai riconosciuto a tutti gli effetti come sport
invernale di primo piano, lo sci alpino ha davanti a sé
una strada in… discesa. Le edizioni dei mondiali,
nonostante l’interruzione per il secondo conflitto, si
susseguono una volta ogni quattro anni fino al 1974,
dando così lustro a una competizione che ogni
quadriennio si incarica di consegnare alla storia i nomi
degli atleti vincitori nelle varie discipline.
A proposito di discipline,
nell’immediato dopoguerra fa il suo esordio ai mondiali
di Aspen del 1950, in Colorado, una nuova specialità: lo
slalom gigante. Rispetto allo slalom già esistente, che
prenderà il nome di “speciale”, il “gigante” ha porte
più larghe e permette raggi di curvatura più ampi e
morbidi. La nuova disciplina rappresenta un terreno
neutro di sfida tra gli atleti abituati ad andar forte
tra i pali stretti e gli specialisti delle discese.
I nomi più luminosi dello sci alpino di quel periodo
sono vari e disparati. Si parte dall’austriaco Toni
Sailer, capace di vincere tre ori mondiali su quattro
discipline ad Are, in Svezia nel 1954, e di fare incetta
di ori a Cortina, durante le Olimpiadi del 1956, dove
però non era in programma la prova di combinata.
Vanno forte anche i
francesi, con James Couttet e Henri Orellier che si
spartiscono ori olimpici e mondiali, e spunta anche il
nome del discesista italiano Zeno Colò, oro a Oslo nel
1952, e vincitore di tre medaglie, due ori e un argento,
ai mondiali di Aspen del 1950. Tra le donne eccellono le
svizzere, le tedesche, le austriache e le americane, ma
non è ancora tempo di trovare l’erede di Christel Cranz.
Nel 1966 nasce, su idea di un giornalista, una nuova
competizione, volta a portare le gare di sci alpino in
giro per il mondo, come un circo itinerante della durata
di tutta la stagione invernale: il circo bianco della
Coppa del Mondo di sci. Il 5 gennaio 1967 si parte da
Berchtesgaden, in Germania, con uno slalom speciale
maschile dove vince l’austriaco Heini Messner.
Sarà un fuoco di paglia,
perché già a partire dalla terza gara si affermerà come
dominatore incontrastato il francese Jean Claude Killy,
capace di vincere ben 12 prove di coppa su 17,
trionfando in tutte le discipline e in quasi tutte le
località toccate: Adelboden e Wengen in Svizzera,
Kitsbuehel in Austria, Megeve in Francia, Sestriere in
Italia, Franconia, Vail e Jackson Hole negli Stati
Uniti.
La breve ma folgorante
carriera del francese si interrompe a soli 25 anni,
forse per mancanza di stimoli, non prima però di aver
eguagliato l’austriaco Sailer, vincendo alle Olimpiadi
di Grenoble nel ’68 tre ori olimpici, e chiudendo con 15
vittorie di coppa all’attivo e le prime due classifiche
assolute. Killy prenderà altre strade e parteciperà con
ottimi risultati a prestigiose corse automobilistiche in
giro per il mondo, vincendo una Targa Florio, arrivando
secondo in una Mille Miglia e partecipando a tre
Parigi-Dakar.
In campo femminile
l’alter-ego di Killy è la canadese Nancy Greene, che si
aggiudica le prime due edizioni della coppa dopo
battaglie all’ultima porta contro le rappresentanti
dello scatenato squadrone francese, composto da atlete
di talento assoluto come Marielle e Christine Goitschel,
che in due portano in famiglia anche sei ori tra
olimpici e mondiali, Christine Beranger, Annie Famose e
Isabelle Mir.
Negli anni Settanta lo sci alpino è in uno dei suoi
periodi più effervescenti. I nomi di rilievo sono quelli
dell’austriaco Karl Schranz, degli italiani Gustavo
Thoeni e Piero Gros e dell’irraggiungibile svedese
Ingemar Stenmark in campo maschile, mentre per quanto
riguarda il settore femminile la regina incontrastata è
la campionessa austriaca Annemarie Moser-Proell.
I primi anni del decennio
sono appannaggio della cosiddetta “valanga azzurra”.
Thoeni e Gros iscriveranno l’Italia tra le nazioni di
rilievo dello sci alpino, collezionando in due 36
vittorie di coppa, e vincendo cinque coppe del mondo
assolute (quattro Gustavo ed una “Pierino”). I due
arricchiranno il loro palmares con un oro olimpico a
testa, a cui Thoeni aggiungerà anche due ori mondiali.
Numeri grandissimi ma che sembrano insignificanti se
confrontati con quelli di Ingemar Stenmark, lo sciatore
più vincente di tutti i tempi. Specialista delle
discipline più tecniche, fa suo l’impressionante numero
di 86 gare di coppa (46 slalom giganti e 40 speciali)
dominando il panorama delle due discipline per oltre un
quindicennio fino al 1989. Il campione di Tarnaby,
piccolo paesino svedese che gli diede i natali il 18
ottobre del 1956, conquista però “soltanto” tre coppe
del mondo assolute, in quanto altri avversari si
dilettavano anche nelle discipline veloci guadagnando
più punti, ma chiuderà la carriera con ben 16 coppe di
specialità equamente divise tra gli slalom, tre ori
mondiali e 2 ori olimpici a Lake Placid nel 1980. In
campo femminile Annemarie Moser-Proell è di poco
inferiore in termine di risultati ma vanta una
poliedricità che le consente di conquistare vittorie in
tutte le discipline presenti: 62 saranno al termine
della carriera le affermazioni in coppa dell’austriaca
di Kleinart, cui vanno aggiunti tre ori mondiali e un
trionfo olimpico in discesa nel 1980.
All’ombra dei due grandi campioni, c’è una sfilza
interminabile di sciatori altrettanto bravi e dal
carniere invidiabile, che scrivono il loro nome negli
albi d’oro e nella storia dello sci: i due fratelli
Andreas e Hanni Wenzel ad esempio, portano alla ribalta
il nome del piccolo principato alpino del Liechtenstein,
vincendo in due 47 gare di coppa, due ori mondiali, due
olimpici e tre coppe del mondo assolute, o ancora
splendidi atleti come la tedesca occidentale Rosi
Mittermaier e la svizzera Lise Marie Morerod o il
grandissimo discesista austriaco Franz Klammer, che ebbe
poca fortuna in coppa del mondo, non vincendone neanche
una nonostante un carniere di 27 successi di coppa e due
medaglie d’oro tra olimpiadi e mondiali.
Lo sci alpino, ormai disciplina matura, vive in questi
anni una rapida evoluzione. La tecnologia approda in
misura sempre più larga nel mondo del circo bianco. Il
tempo si misura in centesimi di secondo, grazie a
sofisticati sistemi di cronometraggio con fotocellule
sparse lungo il percorso per far conoscere ai
telespettatori la situazione di uno sciatore in tempo
reale. Gli sci diventano sempre più veloci e soprattutto
leggeri, evolvendo verso materiali sempre più elastici,
e anche i paletti degli slalom non sono più rigidi ma
snodati, in modo da permettere agli atleti traiettorie
sempre più strette. Viene introdotta una nuova
disciplina chiamata Super Gigante, in pratica una via di
mezzo tra gigante e discesa libera, cha acquista subito
nobiltà olimpica, e i mondiali vengono disputati non più
una volta ogni quattro anni, ma ogni due.
Sul piano agonistico gli anni Ottanta sono quelli delle
fortissime atlete svizzere in campo femminile e del boom
mediatico e televisivo dello sci, con un pubblico sempre
più ampio che si interessa alle gare grazie anche alle
imprese, in pista e fuori, di un vero e proprio
funambolo della neve: Alberto Tomba.
Bisogna però andare con
ordine, perché l’atleta italiano farà la sua comparsa
sulle piste di coppa solo dopo metà decennio, mentre nei
primi anni era un ragazzino che vedeva dominare lo
statunitense Phil Mahre, vincitore di tre coppe del
mondo consecutive, ed era soprattutto testimone delle
prime grandissime sfide tra due campionissimi: Pirmin
Zurbriggen e Marc Girardelli. Svizzero il primo,
lussemburghese (ma austriaco di nascita) il secondo, i
due si danno battaglia fino agli inizi degli anni
Novanta a colpi di vittorie in ogni disciplina e in ogni
competizione.
Il raffronto tra i due è
da capogiro: 5 coppe assolute a 4 per Girardelli, 43
vittorie di coppa contro 40 sempre per il
lussemburghese, 7 coppe di specialità a 5 per Zurbriggen,
poi ancora un bilancio pressoché in parità per quanto
riguarda i mondiali, con quattro titoli ciascuno e 11
podi a 9 per Girardelli e ancora un oro a zero alle
Olimpiadi per Pirmin Zurbriggen, unica casella vuota
nella carriera di Marc. Incredibile.
Come accennato, il settore femminile è dominio delle
svizzere. Anche qui i numeri si sprecano. In ordine
cronologico Marie Therese Nadig, Erika Hess, Micaelea
Figini, Maria Walliser e Vreni Schneider dominano il
circo bianco per tutti gli anni Ottanta con la sola
eccezione dell’americana McKinney nel 1983. Oltre 160
successi si contano nel carniere delle cinque atlete,
più votate alla velocità Nadig, Figini e Walliser,
imbattibili sui terreni tecnici la Hess, che vanta anche
sei titoli mondiali assoluti, seconda solo a Christel
Cranz, e Vreni Schneider, che in carriera vince tre
coppe del mondo assolute gareggiando anche per buona
parte del decennio successivo.
E siamo ad Alberto Tomba. Il ragazzone bolognese merita
un capitolo a parte: si fa notare da giovanissimo per
come aggredisce gli spazi stretti e per la potenza che
sprigiona ad ogni cambio di direzione, ma anche per il
suo carattere guascone e spensierato. Quando scia
Alberto non sposta la neve, la demolisce, e a 19 anni,
nel 1985, fa il suo esordio in coppa del mondo. Vincerà
la prima gara nel 1987 ed esploderà alle olimpiadi di
Calgary dove otterrà gli ori di gigante e slalom. Di lui
si ricorderanno i successi impossibili, le rimonte ancor
più impossibili durante le seconde manche e soprattutto
l’interesse che ha saputo destare, non solo in Italia ma
in tutto il mondo, per lo sci alpino. Tomba sarà “il”
personaggio dello sci a cavallo tra gli “Ottanta” e i
“Novanta”, quello che fa notizia non soltanto per ciò
che raccoglie sulle piste, ma anche fuori, con la sua
vita privata, i suoi flirt, le sue scazzottate e le sue
controversie.
Nonostante un numero
inferiore di vittorie rispetto a Stenmark, è
considerato, da molti, il più forte slalomista di tutti
i tempi. Chiuderà la carriera con un’unica affermazione
nella classifica assoluta di coppa del mondo, datata
1994-95, con otto coppe di specialità, tre ori olimpici,
due mondiali e 50 vittorie di coppa in totale, l’ultima
delle quali, a Crans Montana nel ’98, quando, in
un’immagine che è sintesi del suo carattere e della sua
voglia di divertire il pubblico, scenderà in mutandoni
gialli e canottiera la sua ultima discesa.
Per l’Italia gli anni Novanta non sono però proprietà
esclusiva di Tomba. In campo femminile si fa notare,
soprattutto negli appuntamenti che contano (olimpiadi e
mondiali), un’altra sciatrice: Deborah Compagnoni. Anche
“Debby” inizia giovanissima, a 17 anni, e i suoi numeri
non rendono giustizia alla sua classe. Dietro le sue 16
vittorie di coppa del mondo, si nascondono distacchi
abissali inflitti alle avversarie e lampi di classe
assoluta. La Compagnoni nasce velocista e si specializza
nel gigante, dove conquisterà le vittorie più
importanti. Quello che fa impressione è la sua
precisione nel programmare e raggiungere gli obiettivi e
le gare su cui si concentra: ad Albertville ’92 sarà oro
in SuperG, a Lillehammer ‘94 e Nagano ’98 oro in
gigante, ai mondiali di Sierra Nevada ‘96 ancora oro in
gigante ed al Sestriere nel ’97 farà doppietta vincendo
entrambe gli slalom. Chiuderà la sua carriera ancora
ventinovenne nel ’99 lasciando spazio alla giovane
connazionale Isolde Kostner, discesista, che conquisterà
15 vittorie di coppa in carriera andando a sfiorare il
primato italiano di Deborah.
Gli anni Novanta sono comunque ricchi di grandissime
battaglie. Dalle austriache Petra Kronberger, che fa sue
tre coppe del mondo, e Anita Wachter, alle tedesche
Katja Seizinger e Martina Ertl, dalla slalomista svedese
Pernilla Wyberg, alla già citata Vreni Schneider fino al
dominio delle grandi discesiste austriache
Goetschel-Dorfmeister-Meissnitzer. Tutte atlete
specializzate, chi nel veloce, chi nel tecnico, che si
alternano negli albi d’oro di coppa, olimpici e
mondiali, misurandosi in sfide entusiasmanti sul filo
del centesimo di secondo.
In campo maschile si
affacciano prepotentemente gli atleti norvegesi, ormai
non più dediti soltanto alle discipline nordiche, ma
ormai inseriti a pieno titolo nel gotha dello sci alpino
mondiale. Lasse Kjus e Kjetil Andre Aamodt fanno incetta
di coppe, titoli e medaglie di ogni tipo.
Con l’avvento del nuovo millennio non è più tempo di
numeri, in quanto i nomi che seguono sono già nella
leggenda, ma quasi tutti ancora lì a buttarsi da pendii
sempre più ripidi per aggiornare i loro palmares. Quel
“quasi” sta per Stephan Eberharter e Janica Kostelic,
austriaco il primo e specialista della velocità con due
coppe del mondo assolute nel carniere, croata la seconda
e forse il più grande talento inespresso dello sci
alpino femminile di tutti i tempi. Janica infatti
conclude giovanissima la sua presenza in coppa del mondo
a causa di ripetuti infortuni ad una schiena che ha
condizionato continuamente la sua attività ma che non è
riuscita ad impedirle di conquistare tre coppe del mondo
assolute, cinque ori mondiali e quattro olimpici.
Gli altri sono tutti lì: il roccioso austriaco Hermann
“Herminator” Maier, specialista del SuperG e splendido
interprete di digante e discesa con tre coppe del mondo
all’attivo e un pauroso incidente alle spalle che ha
rischiato di inchiodarlo su una sedia a rotelle; il
funambolo statunitense Bode Miller, sempre al massimo in
ogni specialità, e per questo sempre a rischio di
cadute, autore di impossibili recuperi degni del più
atletico felino; il polivalente austriaco Benjamin Raich,
un computer capace di vincere oltre trenta gare di coppa
del mondo in gigante, slalom e combinata.
Tra le donne siamo
nell’era della polivalenza, dove le più brave (su tutte
svedese Anja Paerson e l’americana Lindsay Kildow-Vonn)
sono in grado di andare forte in ogni disciplina. Dietro
di loro, ma in molte gare davanti a loro, sia in campo
maschile che in campo femminile, un nutrito nugolo di
avversari tra cui molti ottimi italiani.
Lo sci alpino è diventato, al compimento di un secolo di
vita, lo sport invernale per eccellenza. E’ doveroso
tuttavia ricordare che la disciplina è rischiosa, e
molti bravi atleti hanno sacrificato la loro vita alla
montagna, non riuscendo a sopravvivere a drammatici
incidenti. In ogni caso è giusto anche dire che gli
atleti stessi hanno oggi voce in capitolo su questioni
riguardanti la sicurezza e che gli equipaggiamenti e le
protezioni lungo le discese sono sempre più
perfezionati, permettendo loro, nella maggior parte dei
casi, di cavarsela anche dopo terribili cadute.
L’aspetto più affascinante
della disciplina è comunque che in cento anni, i
cambiamenti e gli accorgimenti per rendere più sicure le
piste non le hanno snaturate, e i luoghi dove si
misuravano i grandi sciatori del passato sono gli stessi
dove si buttano oggi, in alcuni casi ad oltre 150
chilometri all’ora, quelli odierni.
Gare come le discese sulla
pista Straif di Kitzbuehel o quella sul Lauberhorn di
Wengen, conservano ancora un sapore antico e quel
seducente fascino del rischio che in poche discipline è
presente. Viene da sorridere a pensare che probabilmente
Alfred Lunn con la sua intuizione aveva visto molto
lontano: in montagna non serve combattere contro la
forza di gravità, basta assecondarla. |