N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
schiavi, redentori e corsari barbareschi
IL
MARE DI SICILIA FRA IL XVI E IL XIX SECOLO
di
Angelo
Ragusa
Il
fenomeno
corsaro,
spesso
caratterizzato
da
isolati
episodi
di
rapina,
legato
a
figure
leggendarie
o
ricondotto
a
semplici
testimonianze
individuali,
di
rado
ha
trovato
posto
nella
grande
Storia,
restando
confinato
nelle
cronache
locali,
sepolto
in
documenti
d’archivio
sparsi
e di
difficile
ricomposizione.
Tuttavia,
in
tempi
relativamente
recenti,
l’analisi
di
nuovi
materiali
archivistici
ci
ha
dato
la
possibilità
di
interpretare
il
sistema
corsaro
barbaresco
come
un’interessante
parte
della
storia
del Mediterraneo
e di
approfondire
alcuni
aspetti
sui
rapporti
secolari
fra
Islam
e
Cristianità.
Il
mare
Mediterraneo
è
uno
spazio
geografico
che
più
di
ogni
altro
fu
culla
delle
civiltà
antiche,
ma
anche
protagonista
di
profondi
travagli
politici,
umani
e
religiosi.
Dopo
la
scoperta
del
nuovo
mondo
e lo
spostamento
sull’oceano
Atlantico
dei
grandi
conflitti
internazionali,
nel
Mediterraneo
si
intensifica
una
confusa
lotta
fra
natanti
di
nazioni
diverse,
esercitata
in
prevalenza
dalle
potenti
città
marinare
italiane
ed
europee.
Si
tratta
di
una
vera
e
propria
guerra,
caratterizzata
da
alterne
vicende
e da
periodi
più
o
meno
lunghi
di
tregua
che,
soprattutto
dopo
la
battaglia
di
Lepanto
del
1571,
vedrà
contrapposti
il
mondo
cristiano
da
un
lato
e
quello
musulmano
dall’altro.
Da
quel
momento
i
litorali
e i
mari
siciliani,
come
le
coste
di
tutta
la
penisola
meridionale,
vennero
a
trovarsi
esposti
alle
aggressioni
moresche,
che
per
mezzo
di
rapide
azioni
militari
riuscivano
nella
cattura
di
interi
equipaggi,
o di
poveri
contadini
indifesi
nel
caso
delle
incursioni
di
terra.
In
queste
continue
scorrerie
primeggiarono
i
pirati
Barbareschi,
gli
eredi
dei
corsari
turchi
impiantati
nell’Africa
settentrionale
in
piccole
città
Stato,
fra
le
quali
spiccarono
per
forza
e
intraprendenza
Algeri,
Tunisi,
Tripoli
e Biserta.
Il
contrasto
alle
incursioni
barbaresche
da
parte
delle
autorità
siciliane
divenne
presto
inefficace
o di
difficile
attuazione
a
causa
delle
difficoltà
politiche
e
militari
in
cui
l’isola
venne
a
trovarsi
dopo
il
suo
assoggettamento
agli
interessi
dell’impero
spagnolo.
Inoltre
le
normali
difese
costiere,
le
torri
e i
castelli
di
mare,
detti
Colombaie,
non
sempre
costituirono
un
riparo
sicuro.
Per
coloro
che
vivevano
lontani
da
città
o
dai
castelli
fortificati,
l’unico
rimedio
era
la
fuga
scomposta
dalla
costa
verso
l’interno.
Il
parlamento
siciliano,
indotto
dal
turbamento
sociale
e
umano
che
le
incursioni
provocavano
alle
popolazioni
rivierasche,
nel
1585
chiese
a
Filippo II
di
istituire
un
ordine
convenevole
per
la
“Redenzione
de’
cattivi
cristiani
regnicoli
in
quel
medesimo
modo
che
si
osserva
in
Spagna”.
Il
re,
dunque,
concesse
la
“Redenzione
de’
Cattivi”
con
il
compito
di
coordinare
le
attività
per
il
riscatto
degli
schiavi
siciliani
in
mano
agli
infedeli.
La
nuova
istituzione
divenne
la
destinataria
esclusiva
di
tutte
le
facoltà
di
intervento,
in
essa
confluirono
i
male
ablata
che
già
dal
1398
erano
destinati
esclusivamente
al
riscatto
degli
schiavi,
ma
soprattutto
acquisì
lo
ius
proibitivo
che
vietava
a
qualsiasi
altra
opera
pia
la
raccolta
di
elemosine
da
destinare
alle
azioni
di
riscatto.
Nel
corso
di
lunghe
e
laboriose
ricognizioni
archivistiche,
nel
1978
fu
rinvenuto
presso
l’Ospedale
psichiatrico
di
Palermo
l’intero
archivio
della
“Redenzione
dei
cattivi”
o
parte
rilevante
di
esso.
La
scoperta
di
tale
documentazione,
sebbene
in
un
ambiente
inidoneo
alla
conservazione
di
così
importanti
beni
culturali,
venne
a
colmare
una
vasta
lacuna
storiografica
in
merito
alle
pubbliche
iniziative
nell’opera
di
riscatto.
Sulla
base
di
un
esame
diretto
dei
riveli,
dove
le
autorità
siciliane
avevano
fatto
confluire
tutte
le
informazioni
utili
per
dare
inizio
all’attività
di
redenzione,
siamo
in
grado
di
offrire
il
quadro
di
un
gran
numero
di
incursioni.
I
prospetti
compilati
ad
hoc,
comparsi
in
pubblicazioni
successive,
ci
consentono
una
visualizzazione
geografica
e
cronologica
completa
di
un
fenomeno
che
fino
ad
allora
era
disperso
in
mille
frammentarie
testimonianze.
Tale
documentazione
è
ora
conservata
all’Archivio
di
Stato
di
Palermo.
Sin
dalla
sua
fondazione
la
prima
esigenza
della
Redenzione
dei
Cattivi
fu
quella
di
conoscere
la
dimensione
del
problema;
non
solo
per
una
elementare
forma
di
ordine
amministrativo,
ma
perché
la
ricerca
di
schiavi
senza
le
informazioni
utili
alla
loro
identificazione
sarebbe
stato
impossibile.
Così
il
30
giugno
1596
il
marchese
di Geraci
spedisce
le
lettere
patenti
a
tutte
le
università
del
regno,
con
l’ordine
di
raccogliere
li
riveli
che
verranno
presentati,
ovvero
gli
atti
in
cui
vengono
registrate
le
dichiarazioni
di
schiavitù.
Il
censimento
consta
di
tre
volumi,
mentre
un
altro
gruppo
di
riveli,
dei
censimenti
operati
in
varie
università
del
regno
fra
il
1600
e il
1606,
è
trascritto
in
un
unico
volume.
Dalla
consultazione
dei
quattro
volumi
siamo
in
grado
di
conoscere
il
luogo
di
provenienza,
l’età
e lo
stato
di
famiglia
dei
634
schiavi
catturati
dal
1596
al
1606.
La
più
antica
incursione
barbaresca
registrata
dai
riveli
è
del
1570
in
località
“Feudo
di
San
Pietro”
sul
territorio
di
Sciacca.
In
quell’occasione
un
gruppo
di
turchi
si
spinse
verso
l’interno
catturando
diverse
persone
riducendole
in
schiavitù.
In
seguito,
dai
memoriali
presentati
dall’Arciconfraternita
della
Redenzione,
si
possono
documentare
138
incursioni
fino
al
1606,
dai
quali
si
colgono
anche
alcuni
aspetti
dei
complessi
rapporti
fra
turchi,
cittadini
del
regno
di
Sicilia
e le
altre
nazioni
europee.
Le
maggiori
notizie
sulle
incursioni
barbaresche
sono
state
desunte
principalmente
consultando
la
documentazione
riguardante
l’attività
di
riscatto
dei
redentori
siciliani.
Seguendo
la
compilazione
del
libro
di
verità,
dove
i
redentori
inserivano
tutte
le
operazioni
da
censire,
siamo
in
grado
di
rilevare
altre
149
incursioni
fra
il
1618
e il
1672,
ma
non
si
può
escludere
che
tali
incursioni,
considerando
i
periodi
non
censiti,
fossero
state
molto
più
numerose
e
frequenti.
Una
volta
stabilita
l’entità
e la
misura
del
fenomeno,
la
Redenzione
dei
Cattivi
si
accinse
a
procurarsi
le
somme
necessarie
all’attività
di
riscatto.
Dopo
venticinque
giorni
dalla
fondazione,
durante
il
consiglio
della
città,
il
sindaco
di
Palermo
lanciò
un
accorato
appello
per
la
raccolta
di
fondi
da
destinare
alla
nuova
istituzione,
che
i
cittadini
palermitani
raccolsero
nella
rilevante
misura
di
1200
onze.
Poco
più
tardi,
il
30
ottobre
del
1596,
il
marchese
di
Geraci
mandò
una
comunicazione
a
tutte
le
città
e
terre
di
Sicilia
affinché
si
provvedesse
al
reperimento
di
più
consistenti
disponibilità
per
iniziare
l’alto
compito
a
cui
era
chiamata
la
nuova
struttura.
A
distanza
di
qualche
mese
la
quasi
totalità
dei
centri
dell’isola
deliberò
di
stanziare
una
somma
di
denaro
in
favore
della
Redenzione
dei
Cattivi.
I
versamenti
da
parte
delle
città
siciliane
sarebbero
continuati
per
tutto
il
Seicento
e
per
la
prima
metà
del
Settecento.
Inoltre,
non
si
possono
ignorare
gli
innumerevoli
aiuti
confluiti
nel
tempo
alla
nuova
istituzione
da
parte
di
quei
cittadini
facoltosi
che
la
privilegiarono
nelle
loro
ultime
volontà.
L’Arciconfraternita,
con
tempi
e
modalità
diverse,
organizzò
numerose
missioni
di
redenzione
dirette
principalmente
a
Tunisi,
dove
si
concentrava
il
maggior
numero
di
schiavi
siciliani.
Ma
le
trattative
di
riscatto
furono
sempre
molto
lunghe
(anni,
il
più
delle
volte)
e
complicate
sia
dalle
arbitrarie
imposizioni
dei
funzionari
barbareschi,
sia
dai
difficili
adempimenti
derivanti
dai
contratti
di
riscatto
che
gli
emissari
erano
costretti
ad
osservare.
Per
queste
ragioni,
i
risultati
delle
spedizioni
diedero
spesso
risultati
deludenti.
In
verità,
nei
suoi
tre
secoli
di
attività,
la
Redenzione
non
trascurò
mai
le
finalità
istituzionali
che
si
era
data
alla
sua
fondazione,
facendosi
interlocutore
privilegiato
di
incessanti,
talvolta
estenuanti,
trattative
per
il
riscatto
del
maggior
numero
di
schiavi
possibile.
La
guerra
di
corsa
esprime
un
fenomeno
che,
con
alterne
vicende
e
intensità,
dominò
la
vita
del
Mediterraneo
per
circa
tre
secoli
(dalla
fine
del
Cinquecento
agli
inizi
dell’Ottocento)
causando
la
cattura
di
un
elevatissimo
numero
di
persone
e la
loro
deportazione
nei
paesi
del
Magreb.
Può
dirsi
conclusa
solo
a
partire
dal
1830,
con
l’inizio
della
conquista
di
Algeri
da
parte
dei
francesi
e
con
la
campagna
di
proselitismo
religioso
messa
in
atto
non
solo
in
Algeria,
ma
in
gran
parte
dell’Africa
settentrionale.
In
ogni
modo,
la
razzia
di
merce
umana
rappresenta
uno
dei
più
grandi
flagelli
che
l’Italia
centro-meridionale
abbia
mai
conosciuto.
Il
commercio
e la
pratica
del
riscatto
degli
schiavi
era
la
maggiore
fonte
di
guadagno
e di
sussistenza
delle
popolazioni
barbaresche
che,
sebbene
meno
evolute
e
numericamente
più
limitate
rispetto
al
popolo
cristiano,
riuscirono
a
sostenere
il
confronto
con
le
altre
nazioni
europee
grazie
alla
loro
audacia;
e
valendosi
anche
dei
migliori
tecnici
cristiani,
in
prevalenza
schiavi,
prigionieri
di
guerra,
o
soldati
rinnegati,
che
avevano
abiurato
la
loro
fede.
In
particolare
la
Sicilia,
per
la
sua
prossimità
alle
coste
del
Nord-Africa,
subì
in
misura
maggiore
gli
effetti
di
questa
confusa
guerra,
con
conseguenze
che
in
parte
si
rifletteranno
sulla
collocazione
geografica
degli
agglomerati
urbani
e
sulla
sostanziale
diffidenza,
chiusura
e
isolamento
delle
popolazioni
locali.
La
paura
per
le
continue
minacce
provenienti
dal
mare
divenne
un
fenomeno
endemico,
così
radicato
nella
memoria
popolare
da
considerare
la
pirateria
–
per
usare
le
parole
del
Braudel
–
“vecchia
quanto
la
storia”.
.
Riferimenti
bibliografici:
G.
Bonaffini,
Cattivi
e
redentori
nel
Mediterraneo, Ila-Palma,
Palermo
2003.
G.
Bonaffini,
Un
mare
di
paura.
Il
mediterraneo
in
età
moderna,
Sciascia,
Caltanissetta
-
Roma
1997.