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N. 21 - Settembre 2009 (LII)

SCHEHERAZADE, TELL ME A STORY
Un film sulla violenza domestica contro le donne

di Leila Tavi

 

Alla 66° Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia è stato presentato nella sezione Fuori Concorso Ehky ya Schahrazad (Sheherazade, tell me a story), del regista egiziano Yousry Nasrallah, con Mona Zakki, Mahmoud Hemeda, Hassan El Raddad, Sawsan Badr.

Il film affronta il problema della violenza sulle donne consumata tra le pareti domestiche nei paesi mediorientali, ma ha una chiave di lettura universale. Al centro della storia il dilemma delle donne che, raggiunta una posizione sociale dopo una faticosa e lunga battaglia di emancipazione, devono fare i conti con le esigenze degli uomini che sono loro accanto e con il loro cieco egoismo.

Il film è ambientato nella Cairo dei nostri giorni. Hebba è la giovane e bella presentatrice di un famoso talk show serale, un’equivalente della nostra Gabanelli, ma con un look sempre alla moda e provocante. Karim, suo marito, lavora come giornalista nella redazione di un quotidiano nazionale e aspira alla carica di direttore cercando i giusti appoggi politici, ma le indagini che conduce sua moglie sui diplomatici corrotti “disturbano” la sua ascesa al potere.
Hebba si trova presto di fronte a una difficile scelta: continuare a lavorare ai suoi reportage “scottanti”, così seguiti dal pubblico a casa, o assecondare le mire politiche del marito, mettendosi, quindi, in secondo piano?

La giornalista, per amore, ma anche su suggerimento della sua migliore amica, che la mette in guardia sul pericolo di una reputazione compromessa in caso di un secondo divorzio, decide di abbandonare i reportage politici per raccontare al pubblico delle storie vere, di gente comune.

In ogni puntata ospite di Hebba è una donna dal passato difficile che, come Sheherazade che raccontava al suo sultano una storia ogni notte per non dover morire, accetta coraggiosamente il giudizio della società mettendo a nudo la sua vita.

Pian piano Hebba scopre un popolo che non aveva avuto l’opportunità di conoscere fino a quel momento, intrappolata in una gabbia dorata fatta di fitness, abiti di Chanel e cene in ristoranti di lusso. I suoi valori sono messi in crisi, la sua vita di coppia vacilla e, soprattutto, Hebba si rende conto che il marito ha la sindrome di Bel Ami: è solo uno spietato arrivista.

Il taglio scelto dal regista è diverso rispetto ad altri film che lo hanno preceduto, primo tra tutti Dayereh (Il cerchio) di Jafar Panahi del 2000. Nasrallah gioca con i cliché delle soap-opera, fa assaporare alle spettatrici un certo melò da primo pomeriggio televisivo, quando i sogni sembrano far evadere dalla realtà tante donne immerse nel quotidiano della loro casa.

Poi arriva il finale tragico di ogni storia, dove la protagonista femminile, seguendo il classico schema di McKee, nel momento risolutivo si ribella allo schema imposto della superficiale e vuota happy end, o meglio della insipida non-fine intrisa di banalità e luoghi comuni. A quel punto il regista svela la brutalità della reazione dell’alterego maschile, che è o irrazionale e violenta o cinica e anaffettiva.

Sembrerebbe quasi che Nasrallah voglia mostrare un lato oscuro dell’emancipazione femminile in Egitto; un’emancipazione che ha scimmiottato e preso solo gli aspetti negativi dal modello occidentale.

Una donna al Cairo può occupare posizioni di prestigio nella società, avere un’indipendenza economica, che la può addirittura porre in posizione predominante rispetto all’uomo. Una donna al Cairo può mostrare senza paura il suo corpo, senza doverlo mortificare dietro un velo ma, come dice la protagonista di una delle storie raccontate davanti alle telecamere, in realtà in Egitto esiste ancora un velo, un velo che copre la mente.

Questo velo impedisce alle donne di realizzarsi al pieno delle loro capacità. Non importa quanto la donna sia potente, famosa, colta, ricca, le esigenze degli uomini vengono sempre prima; tra la carriera piena di compromessi con uomini politici corrotti di Karim e il tentativo sincero di fare un giornalismo investigativo di Hebba, sembra prevalere il predominio maschile, schiacciante, protagonista incontrastato della politica e del potere in Egitto.

Una donna che rompe questo schema è considerata una pazza, una persona da internare, da condannare.

Il linguaggio televisivo è utilizzato dal regista in modo intelligente e fuori dagli schemi; parallelamente alla scelta di un taglio che, a volte, sembra quello di un video pubblicitario e che non cambia regime fino alla fine di ognuna delle tre storie raccontate all’interno del film, la narrazione diventa, invece, tragica e ogni protagonista, a turno, si trova sola davanti al pubblico, come il singolo attore delle tragedie di Eschilo.

A commentare le storie presentate da Hebba non c’è un coro, però, ma la claque di un talk-show. Il pubblico è lì a decretare se colei che la società ha considerato un outsider possa essere reintegrata, espiata la sua colpa.

Attraverso un pericoloso gioco, che avvicinerà il destino di un potente politico, protagonista dell’ultima storia raccontata, a quello di Hebba, la presentatrice stessa si troverà, alla fine, a essere ospite e testimone di una storia di violenza nel suo stesso programma.


 

 

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