N. 70 - Ottobre 2013
(CI)
I militari meridionali “sbandati” dopo l’8 settembre 1943
Il caso DI ANTONINO Siligato
di Salvatore Ragonesi
La
risposta
alla
storiografia
tradizionale,
che
ha
tentato
di
occultare
la
partecipazione
meridionale
alla
guerra
di
liberazione
per
motivi
ideologici
ispirati
prevalentemente
al
“Vento
del
Nord”,
viene
data
da
quei
militari
“sbandati”
delle
varie
armi
e
delle
diverse
regioni
del
Sud
che
con
l’8
settembre
1943
non
hanno
potuto
raggiungere
le
loro
case
e
che
sono
stati
costretti
a
sopravvivere
lungo
la
fascia
delle
Alpi
e
degli
Appennini.
Per
costoro
l’andare
alla
macchia
diventava
la
via
più
facile,
e il
salire
in
montagna
la
più
naturale
giacché
negli
anfratti
del
terreno
si
potevano
rinvenire
i
mezzi
di
sopravvivenza
fisica
e i
nascondigli
più
adatti
a
evitare
sguardi
indiscreti,
quando
tutti
attorno
cominciavano
ad
osservare
con
molta
curiosità
ed i
reparti
tedeschi
calavano
velocemente
e
ferocemente
dai
valichi
alpini
e
appenninici
ad
occupare
tutto
il
territorio
italiano
disponibile
dopo
la
fuga
del
re,
di
Badoglio
e
degli
alti
comandi
in
plaghe
più
rassicuranti,
dalle
parti
della
Puglia
meridionale
già
raggiunta
dagli
anglo-americani.
Nel
caos
generale
provocato
da
un
armistizio
di
incerta
lettura
e
decriptazione,
i
soldati
si
allontanavano
dalle
caserme:
i
più
vicini
andavano
a
casa,
ma
gli
altri,
ed
erano
in
maggioranza
meridionali,
non
potevano
raggiungere
le
loro
lontane
abitazioni
e si
aggiravano
come
ladri
per
le
vie
laterali
meno
frequentate.
Alcuni
militari
preferirono
aderire
alla
Repubblica
Sociale
di
Salò
per
trovare
cibo,
soldi,
rifugio
e
perfino
una
certa
sicurezza
psicologica
ed
una
continuità
ideologica.
Questa
era
la
realtà,
e
questa
situazione
di
fuga
generale
o di
nuovo
accasamento
nell’immediata
dissoluzione
dell’esercito
regolare
creò
le
premesse
per
lo
scontro
fratricida
tra
repubblichini
e
“banditi”
e
determinò
quindi
la
formazione
dei
primi
nuclei
partigiani
dislocati
in
tutte
le
regioni
centro-settentrionali.
La
fuga
dei
soldati
è
stata
più
decisiva
di
quella
dei
loro
comandanti,
e
delle
alte
gerarchie
militari
e
politiche,
ai
fini
della
formazione
del
partigianato
nelle
montagne.
Finiva
così
la
compattezza
delle
forze
regolari
e
delle
istituzioni
unitarie
e
sorgeva
il
movimento
partigiano
con
la
massiccia
partecipazione
dei
militari
meridionali
in
cerca
di
nuove
“dimore”
ormai
sciolti
dal
vincolo
di
fedeltà
alla
monarchia
ed
al
regime
totalitario.
La
guerra
proclamata
dallo
Stato
fascista,
quella
iniziata
nel
giugno
1940
con
l’aggressione
della
Francia,
terminava
qui,
l’8
settembre
1943,
e da
qui
cominciava
ufficialmente
il
movimento
resistenziale,
sostenuto
più
fortemente
da
quei
militari
lontani
dalle
loro
abitazioni
e
dai
loro
paesi
che
sono
stati
costretti
ad
un’esistenza
fuori
sede,
in
mezzo
ai
disagi
estremi,
perché
non
intendevano
aderire
alla
Repubblica
Sociale
Italiana,
né
mettersi
a
disposizione
dei
tedeschi,
dopo
averne
conosciuto
e
sofferto
gli
impulsi
inaccettabili
di
prepotenza
e
superiorità
razziale.
Si
abbandonarono
dunque
velocemente
le
caserme
e si
cercarono
le
montagne,
prima
come
rifugio
e
poi
come
luogo
dal
quale
ripartire
per
dare
l’assalto
ai
nemici
nazifascisti
e
per
la
riorganizzazione
del
nuovo
movimento
nazionale.
Per
merito
personale
o,
piuttosto,
per
necessità
di
aver
salva
la
vita,
furono
pertanto
i
soldati
meridionali
i
più
presenti
e
attivi
nelle
prime
bande
partigiane
ed i
più
decisi
a
raccogliere
munizioni,
mitragliatrici,
bombe
a
mano
e
strumenti
bellici,
ed a
combattere
il
nazifascismo.
Allo
stato
attuale
della
documentazione
non
si
possono
tentare
precise
e
decisive
quantificazioni,
ma è
certo
che
la
loro
presenza
nelle
formazioni
fu
notevole,
come
sosteneva
del
resto
il
famoso
scrittore
e
umanista
torinese
Augusto
Monti
alla
fine
della
guerra
in
una
sorta
di
resoconto
statistico
“ad
occhio”.
Le
ricerche
negli
archivi
storici
hanno
dato
risultati
interessanti,
sia
pure
non
ancora
definitivi,
di
una
presenza
quantitativamente
apprezzabile
di
ex
soldati
meridionali
“sbandati”
a
capo
di
bande
partigiane,
o
all’interno
delle
stesse
con
vari
compiti,
in
Liguria,
in
Piemonte,
in
Lombardia,
in
Veneto,
in
Friuli-Venezia
Giulia,
in
Emilia
Romagna,
in
Toscana,
nelle
Marche.
L’impossibile
ritorno
a
casa
creò
insomma
le
condizioni
per
una
ripresa
imprevedibile
della
guerra
con
ben
diverse
finalità,
anche
se
non
venne
meno
l’incrostazione
spontaneistica
in
parecchi
di
quei
soldati
del
Sud
affamati,
laceri
e
dotati
spesso
di
buona
cultura.
Per
molti
di
loro
prevalse
poi
la
disciplina
e in
alcuni
lo
spirito
costruttivo
della
direzione
politico-strategica.
Le
parole
di
Giaime
Pintor
sembrano
rivolte
proprio
a
loro:“I
soldati
che
nel
settembre
scorso
traversavano
l’Italia
affamati
e
seminudi,
volevano
soprattutto
tornare
a
casa,
non
sentire
più
parlare
di
guerra
e di
fatiche.
Erano
un
popolo
vinto;ma
portavano
dentro
di
sé
il
germe
di
un’oscura
ripresa,
il
senso
delle
offese
inflitte
e
subìte,
il
disgusto
per
l’ingiustizia
in
cui
erano
vissuti.
Ma
coloro
che
per
anni
li
avevano
comandati
e
diretti
[…]
non
erano
solo
dei
vinti,
erano
un
popolo
di
morti”
(G.
Pintor,
Il
sangue
d’Europa,
a
cura
di
Valentino
Gerratana,
Einaudi
1965,
pp.
180-181).
I
vinti
in
tal
modo
si
trasformavano,
strada
facendo,
in
vincitori
morali,
talvolta
in
comandanti
partigiani;e
furono
loro
che
organizzarono
le
prime
bande,
liberarono
le
grandi
città
del
nord
o
perirono
negli
orribili
eccidi
nazifascisti.
La
liberazione
di
Torino
fornisce
un’idea
adeguata
dell’attiva
e
massiccia
presenza
di
meridionali
“sbandati”,
come
la
forniscono
per
tutto
il
Piemonte
i
tanti
nomi
degli
ex
soldati
di
leva
meridionali
che
si
immolarono
per
la
libertà
e la
democrazia
e
che
resistettero
con
onore,
come
il
siciliano
di
Caltanissetta,
già
tenente
di
cavalleria
a
Pinerolo,
Pompeo
Colajanni
detto
Nicola
Barbato,
il
leggendario
protagonista
dei
fasci
siciliani
di
fine
Ottocento.
Per
la
Resistenza
in
Liguria,
invece,
emergono
i
nomi
gloriosi
di
Antonio
Rossi
di
Cardeto,
di
Salvatore
Rizzo
di
Amantea
e di
Vincenzo
Errico
di
Verbicaro
in
provincia
di
Cosenza
caduto
l’8
luglio
1944
a
Grifola
di
Borgotaro
in
provincia
di
Parma,
combattendo
valorosamente
contro
reparti
tedeschi.
E
così
per
i
militari
lucani,
pugliesi
e
sardi;e
per
i
siciliani
organizzatori
di
bande
e
morti
per
la
difesa
della
Patria:
Giacomo
Crollalanza
di
Modica,
già
capitano
dell’esercito,
caduto
in
combattimento
nel
Bosco
di
Corniglio
sull’Appennino
tosco-emiliano
il
17
ottobre
1944;
Raimondo
Saverino
(detto
Severino)
di
Licata,
fucilato
nella
piazza
di
Borgonasca
nei
pressi
di
Chiavari
il
21
maggio
1944;
Giuseppe
Ricca
di
Acireale,
fucilato
a
Napoli
il
13
settembre
1943
assieme
a
Giovanni
Russo
di
Messina;
Nunzio
Barbagallo
di
Bronte,
caduto
l’8
settembre
1943
a
Cremona;
e
tanti
altri
siciliani,
calabresi,
sardi,
campani,
abruzzes
e
molisani,
la
cui
fine
è
incisa
quasi
nascostamente
e
con
tanto
pudore
nelle
lapidi
di
città
e
nei
cippi
di
montagna
sparsi
per
tutto
il
Centro-Nord,
e
poco
nota
e
mai
celebrata
nei
loro
stessi
paesi.
E
dei
tanti
ragazzi
siciliani
ricoperti
di
gloria
la
memoria
è
oggi
affidata
ai
lunghi
elenchi
compilati
con
passione
da
Carmela
Zangara
dell’Istituto
della
Resistenza
di
Catania.
La
vita
sulle
montagne
e
nei
luoghi
impervi
di
questi
ex
militari
meridionali
non
è
stata
sempre
facile.
Solo
la
vulgata
resistenziale
ha
potuto
parlare
di
una
grande
socializzazione,
se
non
proprio
di
una
fraternizzazione,
tra
tutti
i
partigiani
e le
popolazioni
locali.
Non
è
stato
sempre
così
per
i
partigiani
estranei
all’ambiente.
Lo
dimostrano
sufficientemente
alcuni
episodi
da
me
illustrati
in
altra
sede,
come
per
esempio
il
“caso
Facio”,
e lo
conferma
autorevolmente
la
dichiarazione
di
Giorgio
Agosti:
“Conviene
premettere
che
in
genere
l’atteggiamento
della
popolazione
nei
confronti
delle
formazioni
partigiane
è
andato
peggiorando
[Il
contadino]
odia
il
fascista,
ma
non
esita
a
denunciare
il
partigiano
e in
generale-come
al
tempo
delle
guerre
di
ventura-si
preoccupa
soltanto
di
tener
lontano
e
l’uno
[il
fascista]
e
l’altro
[il
partigiano].
[...]
Le
campagne
che
in
un
primo
momento
il
moto
partigiano
aveva
tratto
dal
torpore,
oggi
sono
allarmate,
domani
potranno
diventare
decisamente
ostili.
Il
contadino
che
qualche
mese
fa
si
arruolava
nella
banda
partigiana,
oggi
preferisce
restare
a
custodire
il
suo
campo
armato
del
fucile
da
caccia
e
costituisce
con
altri
compagni
piccole
squadre
di
difesa”
(in
Renzo
De
Felice,
La
guerra
civile.
1943-1945,
Einaudi,
Torino1997,
p.
319).
Bisogna
dire
onestamente
che
spesso
l’arruolamento
contadino
avveniva
sulla
base
di
antiche
e
consolidate
amicizie
con
il
comandante
del
gruppo,
e
ciò
si
comprende
facilmente.
Di
fronte
alle
umane
simpatie,
agli
stati
d’animo
immediati
e
alla
vita
locale
di
relazione
riescono
più
facili
le
intese
e
più
sopportabili
le
privazioni,
le
fatiche
ed i
pericoli.
Prendendo
le
mosse
da
questi
sentimenti,
si
può
ancora
cogliere
tutto
il
dramma
vissuto
sui
monti
e
nelle
valli
del
Piemonte
o
della
Liguria
o
del
Veneto
dal
partigiano
di
estrazione
meridionale.
Nelle
sue
Memorie
Raffaele
Cadorna
sembra
riferirsi
a
questa
difficoltà
scrivendo
con
acume:“Che
le
popolazioni
siano
state,
nel
loro
complesso,
favorevoli
alla
lotta
partigiana,
non
v’ha
dubbio.
Né
poteva
essere
altrimenti,
dato
l’odio
suscitato
dai
crudeli
sistemi
adottati
dai
tedeschi
e
dal
disprezzo
verso
la
reincarnazione
del
fascismo
nella
Repubblica
Sociale,
ma
soprattutto
il
fatto
che,
la
maggioranza
dei
partigiani
essendo
reclutati
nella
zona,
non
poteva
mancare
la
solidarietà
delle
famiglie
verso
i
loro
figlioli”
(in
R.
De
Felice,
La
guerra
civile.
1943-1945,
p.
330).
Si
tratta
di
un
documento
interessante
che
mette
in
luce,
in
tempi
in
cui
certe
indagini
storiografiche
non
erano
neppure
immaginabili,
data
la
visione
astrattamente
e
ingenuamente
apologetica
della
Resistenza,
la
rischiosa
presenza
del
partigiano
meridionale
catapultato
in
luoghi
a
lui
poco
noti,
se
non
ostili.
E
quindi
egli
è
degno
di
una
speciale
citazione
commemorativa,
senza
tuttavia
farne
a
tutti
i
costi
un
eroe.
Il
sentimento
di
antipatia
verso
il
partigianato
di
qualsiasi
genere
ed
estrazione
politica
e
geografica
da
parte
delle
popolazioni
locali
veniva
esasperato
nei
momenti
di
maggiore
pressione
e
crudeltà
delle
forze
nazifasciste,
specie
in
occasione
dei
rastrellamenti
condotti
in
grande
stile.
Quando
la
rappresaglia
diveniva
più
dura,
allora
anche
le
relazioni
tra
i
partigiani
e le
popolazioni
locali
si
facevano
più
conflittuali.
La
ferocia
nazifascista
faceva
aumentare
la
paura
dei
contadini
e
poteva
fare
scattare
la
delazione
contro
il
povero
partigiano
meridionale
o
settentrionale
con
tutte
le
conseguenze
del
caso.
Molti
fattori
potevano
indisporre,
e in
effetti
indisponevano
il
mondo
contadino
verso
il
partigianato:le
requisizioni
più
o
meno
prolungate,
il
disordine
che
veniva
provocato
nelle
famiglie,
il
saccheggio
più
o
meno
truffaldino,
le
molestie,
gli
abusi,
gli
atti
di
prepotenza,
ecc.
Il
contadino
forniva
spesso
ai
partigiani
un’ospitalità
forzata,
priva
di
grande
entusiasmo,
e si
sentiva
sollevato
quando
il
gruppo
partiva.
Questa
situazione
è
stata
affrontata
in
letteratura,
ed
evitata
con
molta
cura
dalla
storiografia,
ma
ciò
darebbe
un’immagina
più
vera
della
Resistenza,
che
non
può
essere
privata
di
atteggiamenti
e
sentimenti
poco
favorevoli.
E
tutto
ciò
incrementa
d’altra
parte
i
meriti
dei
partigiani
capaci
di
resistere
non
solo
al
freddo
ed
alla
fame,
ma
anche
alla
mancanza
di
ospitalità
calda,
generosa
e
solidale.
“I
contadini
li
ricevevano
solo
con
un
cenno
ed
un
sospiro,
indicavano
il
posto
e la
paglia-non
prestavano
più
coperte-poi
salivano
al
piano
sovrano
per
rincuorare
le
loro
donne
prese
da
attacchi
di
cuore”
(B.
Fenoglio,
Il
partigiano
Jonny,
Einaudi
1992,
p.
295).
E
doppiamente
meritevole
d’attenzione
favorevole
doveva
essere
il
partigiano
meridionale
“sbandato”
che
aveva
abbandonato
la
sua
caserma
e
aveva
scelto
la
strada
più
remota
e
faticosa.
Anche
questa
situazione
rientra
in
modo
problematico
e
tragico
nella
storia
vera
di
una
Resistenza
reale
e
non
immaginaria,
in
Toscana,
in
Liguria
o
nel
Veneto.
Gli
istituti
storici
regionali
della
Resistenza
potranno
restituirci
forse
un
giorno
i
nomi
dei
tanti
meridionali
che
hanno
partecipato
attivamente
alla
guerra
di
liberazione
nelle
regioni
del
centro-nord,
ma
non
ci
daranno
sicuramente
la
loro
condizione
esistenziale
e la
loro
forza
morale
e
ideale.
A
loro
la
storiografia,
a
cominciare
da
Federico
Chabod
nelle
famose
lezioni
parigine
del
1950
ne
L’Italia
contemporanea
(1918-1948),
tradotte
a
cura
di
Simona
Martini
Vigezzi
e
Sergio
Caprioglio
e
pubblicate
da
Einaudi
nel
1961,
ha
voluto
negare
finora
l’onore
di
una
partecipazione,
giocando
con
la
divisione
dell’Italia
in
due
o
tre
pezzi
e
togliendo
al
Sud,
tranne
Napoli,
la
fredda
e
lontana
partecipazione
alla
guerra
di
liberazione.
Persino
Giampiero
Carocci
ha
voluto
insistere
con
l’affettamento
dell’Italia:“Il
Mezzogiorno
quasi
non
conobbe
il
dominio
tedesco
né
la
Resistenza.
L’unico
episodio
di
rilievo
fu
l’insurrezione
antitedesca
di
Napoli
del
27
settembre
–
primo
ottobre
1943.
Poiché
invece
nelle
regioni
del
centro
e
soprattutto
in
quelle
del
nord
la
Resistenza
durò
a
lungo,
mentre
le
armate
alleate
avanzavano
lentamente
lungo
la
Penisola
si
ripropose
con
forza
accresciuta
l’antica
divisione
tra
il
sud
e il
nord.
Questa
volta
la
divisione
non
fu
determinata
dall’economia,
fra
l’arretratezza
del
sud
e lo
sviluppo
del
nord,
ma
fu
piuttosto
determinata
dalla
politica,
fra
il
sud
monarchico
che
praticamente
quasi
non
conobbe
la
Resistenza
e il
nord
repubblicano
e
antifascista”
(G.
Carocci,
Storia
dell’Italia
moderna.
Dal
1861
ai
nostri
giorni,
Newton
Compton
Editori,
Roma
1995,
pp.
59-60).
Abbiamo
visto
quanta
sia
non
esatto
l’assunto.
Solo
Roberto
Battaglia
e
Giuseppe
Garritano
si
erano
accorti
della
genesi
militare
del
moto
resistenziale
armato,
con
il
primo
sorgere
del
movimento
partigiano
a
Boves
in
provincia
di
Cuneo,
a
Bosco
Martese
nel
Teramano,
a
Colle
S.
Marco
sopra
Ascoli
Piceno,
nel
Bellunese,
nel
Trevigiano,
nel
Vicentino,
in
Liguria,
in
Emilia,
in
Toscana,
ecc.
(cfr.
R.
Battaglia-G.
Garritano,
Breve
storia
della
Resistenza
italiana,
Einaudi,
Torino
1955,
pp.
67-71).
Ma
essi
non
seppero
approfondire
il
tema
della
provenienza
regionale
dei
militari
“sbandati”
perché
avrebbero
dovuto
rompere
l’apologetica
resistenziale
e
discutere
criticamente
della
crisi
politica
e
civile
causata
dal
trauma
dell’8
settembre
in
terra,
in
mare
e
negli
spazi
extraterritoriali
come
a
Cefalonia,
a
Corfù,
in
Slovenia,
in
Croazia,
nel
Montenegro,
nell’Istria,
ecc.
Erano
nella
sostanza
delicati
atteggiamenti
culturali
e
psicologici
che
bisognava
raccogliere
e
portare
alla
tematizzazione
storiografica,
e
determinare
le
ragioni
della
scelta
di
campo
da
parte
dei
combattenti
là
dove
essa
si
poteva
verificare
senza
trionfalismi,
e
con
realismo
problematico,
come
nel
caso
del
marinaio
siciliano
Antonino
Siligato
che
non
sapeva
inizialmente
cosa
fare
ed a
quale
entità
istituzionale
aderire,
se
alla
Repubblica
Sociale
Italiana
o al
Regno
del
Sud,
se
allo
schieramento
nazifascista
o a
quello
democratico.
Ridurre
gli
atteggiamenti
umani
a
cavallo
dell’8
settembre
alla
netta
contrapposizione
tra
fascismo
e
antifascismo
e
tra
monarchia
e
repubblica,
e
alla
lotta
armata
tra
repubblichini
e
partigiani,
non
è
sufficiente
e
certamente
non
è
soddisfacente
in
sede
storiografica,
almeno
nel
maggior
numero
dei
casi
in
cui
la
coscienza
democratica
e
costituzionale
è
maturata
più
lentamente
nel
corso
della
guerra
e
con
il
crollo
del
regime
mussoliniano.
Prima
di
approdare
alla
definitiva
scelta
resistenziale
e
prendere
parte
consapevolmente
alla
lotta
armata
per
la
liberazione
del
territorio
nazionale
dai
tedeschi,
con
il
successivo
conseguimento,
alla
memoria,
di
medaglia
d’oro
al
valor
militare,
il
marinaio
Antonino
Siligato,
detto
Nino,
nato
a
Limina
in
provincia
di
Messina
il
30
dicembre
1920
e
morto
a
Codolo
di
Zeri
in
provincia
di
Apuania
(oggi
Massa-Carrara)
si
era
arruolato
l’8
settembre
con
i
repubblichini
nella
Decima
MAS
di
Junio
Valerio
Borghese,
di
stanza
a La
Spezia,
che
abbandonò
soltanto
dopo
quattro
mesi
per
aderire
alla
Resistenza
in
Val
di
Taro
nell’Appennino
ligure-tosco-emiliano.
E
qui
si
distinse
subito
per
generosità,
coraggio
e
competenza
tattica,
tanto
che
gli
è
stato
affidato
il
comando
della
compagnia
esploratori
della
Brigata
“Cento
Croci”
che
operava
tra
la
Val
di
Taro
e la
Val
di
Vara
nei
monti
sopra
La
Spezia.
Le
imprese
militari
davvero
eccezionali
di
Siligato,
assieme
alla
sua
naturale
personalità
ed
ai
tratti
generosi
della
sua
prassi,
si
trovano
nella
descrizione
di
don
Luigi
Canessa,
il
cappellano
delle
formazioni
partigiane,
nel
suo
libro
Sedici
mesi
di
guerriglia
sugli
Appennini
liguri-emiliani.
Siligato
era
un
bravo
marinaio,
aveva
partecipato,
sull’incrociatore
“Eugenio
di
Savoia”
il
14-15
giugno
1942,
alla
battaglia
di
Pantelleria
contro
gli
inglesi,
a
seguito
della
quale
aveva
conseguito
la
Croce
di
guerra,
era
diventato
sergente
e
venne
assegnato
al
deposito
di
La
Spezia,
dove
rimase
fino
all’armistizio
dell’8
settembre.
Poi,
nel
caos
generale
della
fuga,
la
sua
prima
scelta
repubblichina,
sulla
quale
non
si
può
fare
scendere
dall’alto
nessun
tipo
di
drastico
giudizio
negativo,
ma
solo
un
atto
di
comprensione
di
una
opzione
avvertita
e
vissuta
inizialmente
come
patriottica
ed
in
continuità
con
la
precedente
attività
militare.
La
nuova
medaglia
al
valore
resistenziale
è
stata
ben
meritata
e
risulta
coerente
con
la
precedente
benemerenza
che
gli
era
stata
attribuita.
Nel
cippo
di
Codolo
è
stata
incisa
la
seguente
motivazione:
“Dopo
l’8
settembre
1943
fu
tra
i
primi
ad
intraprendere
la
lotta
partigiana
divenendo
combattente
di
terra
come
lo
era
stato
sul
mare.
Assunto
il
comando
di
un
plotone
partigiano,
trascinò
i
suoi
uomini
in
epiche
gesta
che
cinsero
la
sua
fronte
con
l’aureola
dell’eroismo.
Prescelto
per
un’audace
azione
di
collaborazione
con
paracadutisti
alleati,
la
portava
a
termine
senza
esitazione
benché
febbricitante
e,
mentre
con
i
suoi
compagni
era
sulla
via
del
ritorno,
veniva
attaccato
di
sorpresa
da
forze
nazifasciste.
Cadeva
mortalmente
colpito
[…]
Codolo
di
Pontremoli,
20
gennaio
1944”.
Un
piccolo
errore
cronologico
per
eccesso
di
apologetica
non
impedisce
di
usare
la
testimonianza
in
modo
utile,
come
l’altro
errore
geografico
di
Codolo
fatto
rientrare
nel
Comune
di
Pontremoli
anziché
in
quello
di
Zeri
in
Alta
Lunigiana
non
impedisce
la
precisa
localizzazione
dell’evento.
Non
mi
soffermo
su
altri
particolari
relativi
alle
imprese
eroiche
di
Siligato,
aggiungo
soltanto
che
per
fare
una
buona
storiografia,
oggi,
non
basta
spingere
il
pedale
dell’apologia.
L’analisi
critica
della
documentazione
deve
procedere
di
pari
passo
con
la
narrazione,
e
questa
non
può
allontanarsi
dalla
spiegazione
degli
eventi
e
delle
azioni
umane.
Io
ho
solo
cercato
di
dimostrare
criticamente,
come
ho
fatto
in
altre
occasioni
(v.
soprattutto
S.
Ragonesi,
La
Resistenza
del
Sud
e
l’unità
nazionale,
in
“Nuova
Secondaria”
di
Brescia,
n.
9,
maggio
2013),
che
il
Meridione
ha
conosciuto
molto
da
vicino
la
Resistenza
e
che
non
è
buona
storiografia
quella
che
vuole
escluderlo
dal
movimento
resistenziale
con
argomenti
artificiosi.
Non
si
può
proporre
ormai
l’antica
vulgata
storiografica
di
un
Sud
passivo
e
inerte
nella
lotta
contro
il
nazifascismo.
Questa
consapevolezza
critica
dovrebbe
spingere
a
nuove
interpretazioni
più
approfondite
e
meglio
verificabili,
senza
più
le
ingiustificate
mitologie.
Se
la
mia
ricostruzione
ha
un
senso,
questo
deve
essere
rintracciato
nell’individuazione
di
un
fattore
realistico
del
processo
di
formazione
e
aggregazione
nazionale.