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N. 70 - Ottobre 2013 (CI)

I militari meridionali “sbandati” dopo l’8 settembre 1943

Il caso DI ANTONINO Siligato
di Salvatore Ragonesi

 

La risposta alla storiografia tradizionale, che ha tentato di occultare la partecipazione meridionale alla guerra di liberazione per motivi ideologici ispirati prevalentemente al “Vento del Nord”, viene data da quei militari “sbandati” delle varie armi e delle diverse regioni del Sud che con l’8 settembre 1943 non hanno potuto raggiungere le loro case e che sono stati costretti a sopravvivere lungo la fascia delle Alpi e degli Appennini.

 

Per costoro l’andare alla macchia diventava la via più facile, e il salire in montagna la più naturale giacché negli anfratti del terreno si potevano rinvenire i mezzi di sopravvivenza fisica e i nascondigli più adatti a evitare sguardi indiscreti, quando tutti attorno cominciavano ad osservare con molta curiosità ed i reparti tedeschi calavano velocemente e ferocemente dai valichi alpini e appenninici ad occupare tutto il territorio italiano disponibile dopo la fuga del re, di Badoglio e degli alti comandi in plaghe più rassicuranti, dalle parti della Puglia meridionale già raggiunta dagli anglo-americani.

 

Nel caos generale provocato da un armistizio di incerta lettura e decriptazione, i soldati si allontanavano dalle caserme: i più vicini andavano a casa, ma gli altri, ed erano in maggioranza meridionali, non potevano raggiungere le loro lontane abitazioni e si aggiravano come ladri per le vie laterali meno frequentate.

 

Alcuni militari preferirono aderire alla Repubblica Sociale di Salò per trovare cibo, soldi, rifugio e perfino una certa sicurezza psicologica ed una continuità ideologica.

 

Questa era la realtà, e questa situazione di fuga generale o di nuovo accasamento nell’immediata dissoluzione dell’esercito regolare creò le premesse per lo scontro fratricida tra repubblichini e “banditi” e determinò quindi la formazione dei primi nuclei partigiani dislocati in tutte le regioni centro-settentrionali.

 

La fuga dei soldati è stata più decisiva di quella dei loro comandanti, e delle alte gerarchie militari e politiche, ai fini della formazione del partigianato nelle montagne.

 

Finiva così la compattezza delle forze regolari e delle istituzioni unitarie e sorgeva il movimento partigiano con la massiccia partecipazione dei militari meridionali in cerca di nuove “dimore” ormai sciolti dal vincolo di fedeltà alla monarchia ed al regime totalitario.

 

La guerra proclamata dallo Stato fascista, quella iniziata nel giugno 1940 con l’aggressione della Francia, terminava qui, l’8 settembre 1943, e da qui cominciava ufficialmente il movimento resistenziale, sostenuto più fortemente da quei militari lontani dalle loro abitazioni e dai loro paesi che sono stati costretti ad un’esistenza fuori sede, in mezzo ai disagi estremi, perché non intendevano aderire alla Repubblica Sociale Italiana, né mettersi a disposizione dei tedeschi, dopo averne conosciuto e sofferto gli impulsi inaccettabili di prepotenza e superiorità razziale.

 

Si abbandonarono dunque velocemente le caserme e si cercarono le montagne, prima come rifugio e poi come luogo dal quale ripartire per dare l’assalto ai nemici nazifascisti e per la riorganizzazione del nuovo movimento nazionale.

 

Per merito personale o, piuttosto, per necessità di aver salva la vita, furono pertanto i soldati meridionali i più presenti e attivi nelle prime bande partigiane ed i più decisi a raccogliere munizioni, mitragliatrici, bombe a mano e strumenti bellici, ed a combattere il nazifascismo. Allo stato attuale della documentazione non si possono tentare precise e decisive quantificazioni, ma è certo che la loro presenza nelle formazioni fu notevole, come sosteneva del resto il famoso scrittore e umanista torinese Augusto Monti alla fine della guerra in una sorta di resoconto statistico “ad occhio”.

 

Le ricerche negli archivi storici hanno dato risultati interessanti, sia pure non ancora definitivi, di una presenza quantitativamente apprezzabile di ex soldati meridionali “sbandati” a capo di bande partigiane, o all’interno delle stesse con vari compiti, in Liguria, in Piemonte, in Lombardia, in Veneto, in Friuli-Venezia Giulia, in Emilia Romagna, in Toscana, nelle Marche.

 

L’impossibile ritorno a casa creò insomma le condizioni per una ripresa imprevedibile della guerra con ben diverse finalità, anche se non venne meno l’incrostazione spontaneistica in parecchi di quei soldati del Sud affamati, laceri e dotati spesso di buona cultura. Per molti di loro prevalse poi la disciplina e in alcuni lo spirito costruttivo della direzione politico-strategica.

 

Le parole di Giaime Pintor sembrano rivolte proprio a loro:“I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto;ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa, il senso delle offese inflitte e subìte, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti […] non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti” (G. Pintor, Il sangue d’Europa, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi 1965, pp. 180-181).

 

I vinti in tal modo si trasformavano, strada facendo, in vincitori morali, talvolta in comandanti partigiani;e furono loro che organizzarono le prime bande, liberarono le grandi città del nord o perirono negli orribili eccidi nazifascisti.

 

La liberazione di Torino fornisce un’idea adeguata dell’attiva e massiccia presenza di meridionali “sbandati”, come la forniscono per tutto il Piemonte i tanti nomi degli ex soldati di leva meridionali che si immolarono per la libertà e la democrazia e che resistettero con onore, come il siciliano di Caltanissetta, già tenente di cavalleria a Pinerolo, Pompeo Colajanni detto Nicola Barbato, il leggendario protagonista dei fasci siciliani di fine Ottocento.

 

Per la Resistenza in Liguria, invece, emergono i nomi gloriosi di Antonio Rossi di Cardeto, di Salvatore Rizzo di Amantea e di Vincenzo Errico di Verbicaro in provincia di Cosenza caduto l’8 luglio 1944 a Grifola di Borgotaro in provincia di Parma, combattendo valorosamente contro reparti tedeschi.

 

E così per i militari lucani, pugliesi e sardi;e per i siciliani organizzatori di bande e morti per la difesa della Patria: Giacomo Crollalanza di Modica, già capitano dell’esercito, caduto in combattimento nel Bosco di Corniglio sull’Appennino tosco-emiliano il 17 ottobre 1944; Raimondo Saverino (detto Severino) di Licata, fucilato nella piazza di Borgonasca nei pressi di Chiavari il 21 maggio 1944; Giuseppe Ricca di Acireale, fucilato a Napoli il 13 settembre 1943 assieme a Giovanni Russo di Messina; Nunzio Barbagallo di Bronte, caduto l’8 settembre 1943 a Cremona; e tanti altri siciliani, calabresi, sardi, campani, abruzzes e molisani, la cui fine è incisa quasi nascostamente e con tanto pudore nelle lapidi di città e nei cippi di montagna sparsi per tutto il Centro-Nord, e poco nota e mai celebrata nei loro stessi paesi.

 

E dei tanti ragazzi siciliani ricoperti di gloria la memoria è oggi affidata ai lunghi elenchi compilati con passione da Carmela Zangara dell’Istituto della Resistenza di Catania. 

 

La vita sulle montagne e nei luoghi impervi di questi ex militari meridionali non è stata sempre facile. Solo la vulgata resistenziale ha potuto parlare di una grande socializzazione, se non proprio di una fraternizzazione, tra tutti i partigiani e le popolazioni locali. Non è stato sempre così per i partigiani estranei all’ambiente.

 

Lo dimostrano sufficientemente alcuni episodi da me illustrati in altra sede, come per esempio il “caso Facio”, e lo conferma autorevolmente la dichiarazione di Giorgio Agosti: “Conviene premettere che in genere l’atteggiamento della popolazione nei confronti delle formazioni partigiane è andato peggiorando [Il contadino] odia il fascista, ma non esita a denunciare il partigiano e in generale-come al tempo delle guerre di ventura-si preoccupa soltanto di tener lontano e l’uno [il fascista] e l’altro [il partigiano]. [...] Le campagne che in un primo momento il moto partigiano aveva tratto dal torpore, oggi sono allarmate, domani potranno diventare decisamente ostili. Il contadino che qualche mese fa si arruolava nella banda partigiana, oggi preferisce restare a custodire il suo campo armato del fucile da caccia e costituisce con altri compagni piccole squadre di difesa” (in Renzo De Felice, La guerra civile. 1943-1945, Einaudi, Torino1997, p. 319).

 

Bisogna dire onestamente che spesso l’arruolamento contadino avveniva sulla base di antiche e consolidate amicizie con il comandante del gruppo, e ciò si comprende facilmente. Di fronte alle umane simpatie, agli stati d’animo immediati e alla vita locale di relazione riescono più facili le intese e più sopportabili le privazioni, le fatiche ed i pericoli.

 

Prendendo le mosse da questi sentimenti, si può ancora cogliere tutto il dramma vissuto sui monti e nelle valli del Piemonte o della Liguria o del Veneto dal partigiano di estrazione meridionale.

 

Nelle sue Memorie Raffaele Cadorna sembra riferirsi a questa difficoltà scrivendo con acume:“Che le popolazioni siano state, nel loro complesso, favorevoli alla lotta partigiana, non v’ha dubbio.

 

Né poteva essere altrimenti, dato l’odio suscitato dai crudeli sistemi adottati dai tedeschi e dal disprezzo verso la reincarnazione del fascismo nella Repubblica Sociale, ma soprattutto il fatto che, la maggioranza dei partigiani essendo reclutati nella zona, non poteva mancare la solidarietà delle famiglie verso i loro figlioli” (in R. De Felice, La guerra civile. 1943-1945, p. 330).

 

Si tratta di un documento interessante che mette in luce, in tempi in cui certe indagini storiografiche non erano neppure immaginabili, data la visione astrattamente e ingenuamente apologetica della Resistenza, la rischiosa presenza del partigiano meridionale catapultato in luoghi a lui poco noti, se non ostili. E quindi egli è degno di una speciale citazione commemorativa, senza tuttavia farne a tutti i costi un eroe.

 

Il sentimento di antipatia verso il partigianato di qualsiasi genere ed estrazione politica e geografica da parte delle popolazioni locali veniva esasperato nei momenti di maggiore pressione e crudeltà delle forze nazifasciste, specie in occasione dei rastrellamenti condotti in grande stile.

 

Quando la rappresaglia diveniva più dura, allora anche le relazioni tra i partigiani e le popolazioni locali si facevano più conflittuali. La ferocia nazifascista faceva aumentare la paura dei contadini e poteva fare scattare la delazione contro il povero partigiano meridionale o settentrionale con tutte le conseguenze del caso.

 

Molti fattori potevano indisporre, e in effetti indisponevano il mondo contadino verso il partigianato:le requisizioni più o meno prolungate, il disordine che veniva provocato nelle famiglie, il saccheggio più o meno truffaldino, le molestie, gli abusi, gli atti di prepotenza, ecc.

 

Il contadino forniva spesso ai partigiani un’ospitalità forzata, priva di grande entusiasmo, e si sentiva sollevato quando il gruppo partiva.

 

Questa situazione è stata affrontata in letteratura, ed evitata con molta cura dalla storiografia, ma ciò darebbe un’immagina più vera della Resistenza, che non può essere privata di atteggiamenti e sentimenti poco favorevoli. E tutto ciò incrementa d’altra parte i meriti dei partigiani capaci di resistere non solo al freddo ed alla fame, ma anche alla mancanza di ospitalità calda, generosa e solidale.

 

“I contadini li ricevevano solo con un cenno ed un sospiro, indicavano il posto e la paglia-non prestavano più coperte-poi salivano al piano sovrano per rincuorare le loro donne prese da attacchi di cuore” (B. Fenoglio, Il partigiano Jonny, Einaudi 1992, p. 295).

 

E doppiamente meritevole d’attenzione favorevole doveva essere il partigiano meridionale “sbandato” che aveva abbandonato la sua caserma e aveva scelto la strada più remota e faticosa. Anche questa situazione rientra in modo problematico e tragico nella storia vera di una Resistenza reale e non immaginaria, in Toscana, in Liguria o nel Veneto.

 

Gli istituti storici regionali della Resistenza potranno restituirci forse un giorno i nomi dei tanti meridionali che hanno partecipato attivamente alla guerra di liberazione nelle regioni del centro-nord, ma non ci daranno sicuramente la loro condizione esistenziale e la loro forza morale e ideale.

 

A loro la storiografia, a cominciare da Federico Chabod nelle famose lezioni parigine del 1950 ne L’Italia contemporanea (1918-1948), tradotte a cura di Simona Martini Vigezzi e Sergio Caprioglio e pubblicate da Einaudi nel 1961, ha voluto negare finora l’onore di una partecipazione, giocando con la divisione dell’Italia in due o tre pezzi e togliendo al Sud, tranne Napoli, la fredda e lontana partecipazione alla guerra di liberazione.

 

Persino Giampiero Carocci ha voluto insistere con l’affettamento dell’Italia:“Il Mezzogiorno quasi non conobbe il dominio tedesco né la Resistenza.

 

L’unico episodio di rilievo fu l’insurrezione antitedesca di Napoli del 27 settembre – primo ottobre 1943. Poiché invece nelle regioni del centro e soprattutto in quelle del nord la Resistenza durò a lungo, mentre le armate alleate avanzavano lentamente lungo la Penisola si ripropose con forza accresciuta l’antica divisione tra il sud e il nord.

 

Questa volta la divisione non fu determinata dall’economia, fra l’arretratezza del sud e lo sviluppo del nord, ma fu piuttosto determinata dalla politica, fra il sud monarchico che praticamente quasi non conobbe la Resistenza e il nord repubblicano e antifascista” (G. Carocci, Storia dell’Italia moderna. Dal 1861 ai nostri giorni, Newton Compton Editori, Roma 1995, pp. 59-60).

 

Abbiamo visto quanta sia non esatto l’assunto. Solo Roberto Battaglia e Giuseppe Garritano si erano accorti della genesi militare del moto resistenziale armato, con il primo sorgere del movimento partigiano a Boves in provincia di Cuneo, a Bosco Martese nel Teramano, a Colle S. Marco sopra Ascoli Piceno, nel Bellunese, nel Trevigiano, nel Vicentino, in Liguria, in Emilia, in Toscana, ecc. (cfr. R. Battaglia-G. Garritano, Breve storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1955, pp. 67-71).

 

Ma essi non seppero approfondire il tema della provenienza regionale dei militari “sbandati” perché avrebbero dovuto rompere l’apologetica resistenziale e discutere criticamente della crisi politica e civile causata dal trauma dell’8 settembre in terra, in mare e negli spazi extraterritoriali come a Cefalonia, a Corfù, in Slovenia, in Croazia, nel Montenegro, nell’Istria, ecc.

 

Erano nella sostanza delicati atteggiamenti culturali e psicologici che bisognava raccogliere e portare alla tematizzazione storiografica, e determinare le ragioni della scelta di campo da parte dei combattenti là dove essa si poteva verificare senza trionfalismi, e con realismo problematico, come nel caso del marinaio siciliano Antonino Siligato che non sapeva inizialmente cosa fare ed a quale entità istituzionale aderire, se alla Repubblica Sociale Italiana o al Regno del Sud, se allo schieramento nazifascista o a quello democratico.

 

Ridurre gli atteggiamenti umani a cavallo dell’8 settembre alla netta contrapposizione tra fascismo e antifascismo e tra monarchia e repubblica, e alla lotta armata tra repubblichini e partigiani, non è sufficiente e certamente non è soddisfacente in sede storiografica, almeno nel maggior numero dei casi in cui la coscienza democratica e costituzionale è maturata più lentamente nel corso della guerra e con il crollo del regime mussoliniano.

 

Prima di approdare alla definitiva scelta resistenziale e prendere parte consapevolmente alla lotta armata per la liberazione del territorio nazionale dai tedeschi, con il successivo conseguimento, alla memoria, di medaglia d’oro al valor militare, il marinaio Antonino Siligato, detto Nino, nato a Limina in provincia di Messina il 30 dicembre 1920 e morto a Codolo di Zeri in provincia di Apuania (oggi Massa-Carrara) si era arruolato l’8 settembre con i repubblichini nella Decima MAS di Junio Valerio Borghese, di stanza a La Spezia, che abbandonò soltanto dopo quattro mesi per aderire alla Resistenza in Val di Taro nell’Appennino ligure-tosco-emiliano.

 

E qui si distinse subito per generosità, coraggio e competenza tattica, tanto che gli è stato affidato il comando della compagnia esploratori della Brigata “Cento Croci” che operava tra la Val di Taro e la Val di Vara nei monti sopra La Spezia.

 

Le imprese militari davvero eccezionali di Siligato, assieme alla sua naturale personalità ed ai tratti generosi della sua prassi, si trovano nella descrizione di don Luigi Canessa, il cappellano delle formazioni partigiane, nel suo libro Sedici mesi di guerriglia sugli Appennini liguri-emiliani.

 

Siligato era un bravo marinaio, aveva partecipato, sull’incrociatore “Eugenio di Savoia” il 14-15 giugno 1942, alla battaglia di Pantelleria contro gli inglesi, a seguito della quale aveva conseguito la Croce di guerra, era diventato sergente e venne assegnato al deposito di La Spezia, dove rimase fino all’armistizio dell’8 settembre.

 

Poi, nel caos generale della fuga, la sua prima scelta repubblichina, sulla quale non si può fare scendere dall’alto nessun tipo di drastico giudizio negativo, ma solo un atto di comprensione di una opzione avvertita e vissuta inizialmente come patriottica ed in continuità con la precedente attività militare.

 

La nuova medaglia al valore resistenziale è stata ben meritata e risulta coerente con la precedente benemerenza che gli era stata attribuita.

 

Nel cippo di Codolo è stata incisa la seguente motivazione: “Dopo l’8 settembre 1943 fu tra i primi ad intraprendere la lotta partigiana divenendo combattente di terra come lo era stato sul mare. Assunto il comando di un plotone partigiano, trascinò i suoi uomini in epiche gesta che cinsero la sua fronte con l’aureola dell’eroismo. Prescelto per un’audace azione di collaborazione con paracadutisti alleati, la portava a termine senza esitazione benché febbricitante e, mentre con i suoi compagni era sulla via del ritorno, veniva attaccato di sorpresa da forze nazifasciste. Cadeva mortalmente colpito […] Codolo di Pontremoli, 20 gennaio 1944”.

 

Un piccolo errore cronologico per eccesso di apologetica non impedisce di usare la testimonianza in modo utile, come l’altro errore geografico di Codolo fatto rientrare nel Comune di Pontremoli anziché in quello di Zeri in Alta Lunigiana non impedisce la precisa localizzazione dell’evento.

 

Non mi soffermo su altri particolari relativi alle imprese eroiche di Siligato, aggiungo soltanto che per fare una buona storiografia, oggi, non basta spingere il pedale dell’apologia.

 

L’analisi critica della documentazione deve procedere di pari passo con la narrazione, e questa non può allontanarsi dalla spiegazione degli eventi e delle azioni umane. Io ho solo cercato di dimostrare criticamente, come ho fatto in altre occasioni (v. soprattutto S. Ragonesi, La Resistenza del Sud e l’unità nazionale, in “Nuova Secondaria” di Brescia, n. 9, maggio 2013), che il Meridione ha conosciuto molto da vicino la Resistenza e che non è buona storiografia quella che vuole escluderlo dal movimento resistenziale con argomenti artificiosi.

 

Non si può proporre ormai l’antica vulgata storiografica di un Sud passivo e inerte nella lotta contro il nazifascismo. Questa consapevolezza critica dovrebbe spingere a nuove interpretazioni più approfondite e meglio verificabili, senza più le ingiustificate mitologie.

 

Se la mia ricostruzione ha un senso, questo deve essere rintracciato nell’individuazione di un fattore realistico del processo di formazione e aggregazione nazionale.



 

 

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