N. 2 - Febbraio 2008
(XXXIII)
Sardegna.
Il tempio del SardUS patEr ad Antis
UN CROGIUOLO CULTURALE
- Parte II
di Antonio Montesanti
Il tempio di Sardus Pater in epoca Romana
Le rimanenze del tempio che oggi ammiriamo pare siano da
attribuirsi al periodo romano. Utilizziamo il termine
‘pare’ poiché vi sono tante interpretazioni sulla
possibilità di modifica delle strutture originarie, nel
tempo, di cui noi non possiamo essere a conoscenza. Per
lo meno una conoscenza diretta, ma indiretta e
soprattutto deduttiva è possibile.
Sappiamo che i restauri strutturali erano necessari
nell’antichità molto meno di quanto lo fossero adesso,
ma erano pur sempre frequenti e doverosi.
Secondo alcuni il tempio di Sid si mantenne almeno fino al
I secolo a.C. o Tarda Età Repubblicana nell’Epoca
Romana. Le fonti di conoscenza induttiva ci
riporterebbero ad un tale inquadramento cronologico: le
risultanze coronologiche derivate da un confronto tra
materiali e stratigrafia archeologica mettono in
relazione i livelli funzionali di appartenenza con il
più indicativo dei frammenti ceramici di questo periodo:
un frammento di ceramica a vernice nera con l'iscrizione
votiva neopunica graffita A(don) S(id).
La stratigrafia strutturale, invece, oltre a chiarire molte
prospettive consequenziali e cronologiche, pone invece
problematiche a livello architettonico: lo scavo interno
e quindi del sacellum ha rinvenuto nel livello inferiore
al cocciopesto della gradinata del rifacimento romano,
elementi architettonici riferibili ad un precedente
sacello punico. In pratica per sollevare il podio
interno del naos (sacello di culto) ed in particolar
modo la scalinata che portava ad esso venne rinvenuto
del materiale di ributto riferibile al periodo punico:
due capitelli ionici, un frammento di iscrizione
cartaginese, un frammento di vaso a pareti sottili (?)ed
un frammento di statuina di Musa in marmo che
cronolicamente si collocano tra il III ed il II sec.
a.C. Il riuso dei materiali come riempimento della
sostruzione templare indicano la loro perdita di
sacralità o funzionale: l’eidolon (Musa?), che
rappresenta l’elemento più tardo (seconda metà del II
secolo a.C.) è anche l’elemento che ci indica il
potenziale strappo temporale che separa l’infunzianabilità
dell’oggetto dal momento in cui questo venne rigettato
nella colmata al momento ricostruttivo.
Quindi dalla metà del II sec. a.C. gli studiosi brancolano
nel buio e la scientificità archeologica lascia spazio
alle interpretazioni ricostruttive. Da un passaggio
logico, tecnico ed altamente scientifico si passa ad
un’arbitraria deduzione della ricostruzione avvenuta in
epoca augustea, che vedrebbe non il restauro ma
addirittura una vera e propria edificazione ex novo del
tempio del Sardus Pater, le ipotesi propositive si
fondano sia sull'analisi strutturale dell’architettura e
decorativa, sia sulla campagna propagandistica del
primus imperator dettata da una ‘promozione’ del culto
della divinità locale.
Al termine del secondo triunvirato, 36 a.C. dopo la
battaglia di Nauloco, Ottaviano, il prossimo Augusto,
ottenne la Sardegna strappandola a Sesto Pompeo e solo
dopo questa data fece batte battere sul territorio sardo
e per la popolazione sarda, probabilmente in differenti
zecche dell’isola (Carales, Sulci, Neapolis), una moneta
bronzea che portava al D/ la testa a sin. di un
personaggio maschile con leggenda M•ATIVS•BALBVS•PR(aetor),
governatore (praetor) della Sardegna nel 59 a.C. e che
era anche suo bisnonno materno; il R/ legava
strettamente Ottavano al popolo sardo: una testa barbata
a des. con copricapo (piumato?) a cinque o sette razze,
in secondo piano dietro le spalle: punta di lancia,
leggenda: SARD(VS)•PATER. La collocazione cronologica
pone l’esemplare, per i valori ponderali (peso di 6,68
g.), di collocarlo all’interno del sistema quartunciale
usato dal triunviro ottaviano per il recupero di enormi
cifre di denaro che da lì a poco lo avrebbe condotto
allo scontro con Antonio. La data post quem della
riforma monetaria, che si conchiude tra il 39 ed il 15
a.C., deve essere ribassata per il nostro caso di almeno
due o tre anni, vista l’occupazione che avvenne
definitivamente nel 36 a.C. La moneta, attestata in
differenti varianti è presente sull’intero territorio
dell’Isola (Nora,Bithia, Sulci, Othoca, Tharros, Cornus,
Olbia, Arborea, Guasila, Tonara, Vallermosa, Antas,
Narbolia, Cabras, Arbus, Gonnosfanadiga, Samassi.) in
oltre duecento esemplari.
Il princeps che avrebbe considerato la comunità sarda come
entità di tipo semindipendente avrebbe avuto una duplice
funzione, da una parte propagandare la figura di un avo
che ‘ben aveva amministrato la Sardegna’ di cui lui era
il diretto successore e dall’altra rispettare ed onorare
il maggiore culto locale, che sarebbe stato ‘potenziato’
nella costruzione del nuovo tempio del Sardus Pater.
In realtà si tratta di un’ipotesi, poiché l’unico dato
‘scientifico’ sul restauro del luogo di culto è
costituito dai resti dell’iscrizione presente sull’epistilio
templare
IMP(eratori) [CAES(ari) M.] AVRELIO
ANTONINO. AVG(vsto) P(io) F(elici)
TEMP([l(vm) D]EI [Sa]RDI PATRIS BABAI
VETVSTATE c]ON[lapsvm] (?) [—] A[] RESTITVE[ndvm]
CVR[avit] Q (?) CO[el]IVS {CO[cce]IVS}
PROCVLVS
"Imperatori Caesari M. Aurelio Antonino. Augusto Pio Felici
templum dei Sardi Patris Babi vetustate conlapsum ... A
... restituendum curavit Q Coelius (Cocceius?) Proculus"
“In onore dell'Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino
Augusto, Pio Felice, il tempio del dio Sardus Pater Babi,
rovinato per l'antichità, fu restaurato a cura di Quinto
(?) Celio (o Cocceio) Proculo"
Il tempio dunque venne ricostruito, rifatto, restaurato da
Q. Celio (o Cocceio, le lacune non ci consentono di
essere più precisi) Procuro per conto dell’Imperatore,
allora in carica: M. Aurelio Antonino Pio, detto
Caracolla e si colloca tra il 213 – anno in cui la
titolatura ‘Felix’ è ufficialmente introdotta per quell’imperatore
– e l'aprile 217, anno della sua morte a Carre.
Le deviazioni dal modello ionico (evidenti anche nel fusto
liscio invece che scanalato) sembrano attribuibili ad un
profondo restauro del tempio promosso sotto Caracalla,
Simonetta Angiolillo ha comunque rilevato che la
riduzione dell'abaco e la tendenza alla eliminazione del
canale delle volute si riscontrano sin dal II secolo
d.C. in Africa.
La struttura
La struttura presenta agli occhi anche dei non esperti
delle particolarità che la differenziano dalle strutture
classiche non im maniera netta e distinta piuttosto come
una sorta di meravigliosa integrazione tra diverse anime
che sono rappresentate nella struttura in una
meravigliosa amalgama che al contempo rispetta le
peculiarità di ogni popolo che sia entrato a contatto
con la cultura sarda. Lo spirito autoctono è
rappresentato dalla scelta del luogo e dall’orientamento
che rappresentano il castone di un gioiello che brilla
in base all’angolo del tagli o su di esso scalfito. Gli
strali di luce che ne fuoriescono dalla perpendicolare
di ogni lato sono perfettamente orientati. Il tempio
sardo doveva sorgere su quella sacra roccia che si erge
al di sopra di un piccolo altopiano lievemente in
pendenza ed inserito in una corona montuosa.
L’aspetto punico è segnato dallo stile delle colonne che
contengono, in sé, aleno tre elementi: le colonne sono
tonde, lisce a rocchi brevi e rappresentano una
componente d’importazione culturale che è innegabile
anche nei frequenti rapporti che intercorsero cartagine
e l’egitto. Quelle stesse colonne che nel paese
d’origine avevano capitelli a ‘foglia di palma’ che
invece dal mediterraneo centrale vennero filtrati dalla
cultura fenicie e quindi punica (cartaginese). A sua
volta al momento della costruzione, che sarebbe avvenuta
intorno alla fine del VI sec. (almeno per l’anastilosi
delle colonne), un deciso influsso ionico dovette
nvestire gli architetti punici che innalzarono il
colonnato, mentre la particolare pianta ci riporta ad
ambienti mediotirrenici di questo periodo. L’influenza
etrusca o romana – che in questo periodo sono ancora la
stessa cosa, nonostante la monarchia etrusca sia stata
espulsa da poco – si ritrova nello stretto ma alto
crepidoma, opposto alla metodica greca che lo vuole
basso e largo, nell’alzato della pianta costituita, in
puro stile etrusco-italco, da una una fronte tetrastila
apera che prosegue sulle ali con due altre colonne (una
pper lato) che si consegnano nella parte posteriore ad
una cella inglobata a sua volata nella parte che fa da
opistodomo. Il naos (o cella, dove risiedeva la statua
del culto) non era, come quello greco, inserito al
centro del tempio, indipendente dal perimetro esterno
delle colonne, qui aveva doppia se non tripla funzione,
quella di sacello di culto, parte posteriore (adyon o
opistodomo) e a sua volta muro perimetrale di chiusura
del tempio stesso. Ancora. La cella è l’esemlificazione
pi evidente dell’importazione culturale punica.
In tutto qusto lo stile segna una particolarità che
presentano pochi templi del sud italia e che già sono
stati messi in relazione con un evento riconosciuto,
evidente e definito. Alcune strutture della Magna grecia
e della Sicilia sono imbevute di ‘ionismo’ nei
particolari che definiscono un tempio ionico.
Fondamentalmente è lo stile che definisce un tempio e lo
stile non è dato dalla struttura ma dai particolari che
lo compongono. Lo stile ionico dell’intera struttura si
manifesta esternamente nei particolari che al momento
della costruzione avrebbero investito l’occidente, dal
Suditalia all’Andalusia da Cartagine a Massalia.
Le colonne danno l’esempio più evidente dell’applicazione
stilistica di un periodo e di una tipologia decorativa
che diverrà unica nell’applicazione , rigida e al
contempo adattativi dei propilei dell’acropoli ateniese.
Il fusto lasciato liscio è delimitato dagli elementi
ionici per antonomasia: la base e il capitello che si
uniscono ad un fusto perfettamente cilindrico e non
rastremato. Ma non solo. Il riscontro avviente anche nei
materiali ‘accessori’ come i gocciolatoi (gronde) a
testa leonina che prendono il sopravvento in tutta la
grecità proprio in questi anni.
Tutti questi elementi, stilistico-strutturali, ci riportano
ad un periodo che ha delle fondamenta storiche, come
detto, ben definite su alcuni avvenimenti che partono
dall’Asia Minore e che proseguono in Occidente.
Alle soglie del V secolo in un periodo compreso tra il 540
ed il 510 a.C., alcuni dei greci d’asia minore, ed in
particolare gli ioni, vengono assoggettati all’impero
persiano, per molti di esi l’unica soluzione, l’unica
alternativa al potere del monarca persiano ed alle
microtirannidi filopersiane sarà costituito dalla fuga,
dall’emigrazione. I profughi si riverseranno in massa in
occidente alla ricerca di un nuovo posto dove innalzare
una città, ma mentre alcuni di loro si assesteranno in
maniera sporadica, altri tenteranno di fondare una
colonia via via sempre più a nord scontrandosi con tutte
le potenze tirreniche del momento e che culminerà nella
battaglia, che gli autori antichi dicono vinta dai Greci
guidati dai Focesi, detta del ‘Mare Sardo’ di fronte ad
Alalia in Corsica (535 a.C.).
I focesi vincitori si rifugeranno, fondandola, a Velia. Ma
l’aspetto più importante è che i greci si dispersero da
quel momento in tutto il bacino tirrenico e con essi
potarono il loro stile e il loro modo di vita, già
apprezzato dagli etruschi.
Anche se quella nuova suddivisione ‘territoriale’ edlle
acque verrà sancita dopo questo scontro: Gli Etruschi
verranno ridimensionati nel loro potere sui mari,
rimangono con un controllo probabilmente molto più
labile almento sulla corsica e sull’intero tirreno
settentrionale; i cartaginesi confermano la propria
influenza sulla Sardegna e si concentrano sulla
conquista della Sicilia, i greci iniziano a riprendersi
il tirreno meridionale.
Ma nel tempio di Antas tutti gli elementi s’incontrano,
tutti si fondono nello splendido esempio d’interculturalità
che può essere avvenuto solo in un periodo successivo,
quando ancora tutti questi elementi non si erano andati
dissolvendo nelle nebbie della dimenticanza. Per questo
il tempio, nelle sue forme viene datato al 500 a.C.
È giusto infatti ritenere che la costruzione templare
romana di I sec. a.C. o il suo restauro di III sec. d.C.
decise di mantenere molti, se non tutti gli aspetti che
componevano la struttura sacra.
Venne mantenuto l'orientamento della struttura punica, le
misure strutturali della scalinata cge sfrutta la
pendenza a Nord per appianarne il dislivello,
corrispondente in parte all'area del tempio punico di
Sid, risulta molto danneggiata (e conseguentemente
ricostruita in epoca moderna) per i saggi stratigrafici
e gli scavi clandestini, era composta da molti gradini a
mo’ di ripiani di m. 17,25 x 9,30 (58 x 31 piedi romani)
poggianti, insieme al resto della struttura sul podio di
m 23,25 x 9,30 (78 x 31 piedi), che si eleva per 1,10
m.
Il ripiano più elevato (il IV), corrispondente al piano
della roccia sacra del tempiosardo, era la base su cui
avrebbe poggiato l'ara sacrificale,punica prima e romana
poi. I piani, la base del podio e i ripiani della
gradinata, vennero ricoperti in cocciopesto, di cui è
rimasto un lacerto sporadico (2 x 0,95 m) nei pressi
dell'angolo nord della gradinata.
La struttura sardo-punica venne conglobata all’interno di
un paramento in ortostati, di calcare per la gradinata
e, di arenaria riutilizzati per le ali del podio; per il
riempimento del paramento in blocchi vennero
riutilizzatii i resti delle strutture più arcaiche
tempio punico, quello costruito ‘a muretti’ che vennero
costruiti ex novo con scaglie di arenaria cementate con
malta di fango rosso per ottenere una sorta di griglia
per il basamento tecnica comune soprattutto in ambito
greco che romano d’influenza fenicio-punica (Asclepieion,
Castoro e Polluce, Zeus Olimpio ad Agrigento, Apollo
Eretimio a Rodi, Tanit a Nora, Venus (?) a Carales).
Il podio in opera quadrata si basa su un rapporto
larghezza/lunghezza di 2,5 : 1, delimitato da blocchi in
calcare in misure variabili tra i 2,70 m (9 piedi) / e i
0,90 m (3 piedi), uno spessore 0,90 m (3 piedi) ed una
larghezza 0,45 m (1,5piedi) saldati tra loro con incavi
e grappe plumbee ‘a coda di rondine’, che secondo nuove
scoperte (mura urbane di Tharros - IV sec. a. C.)
sarebbero già documentate in area greca e punica e poi
entrate felicemente a Roma verso la fine del II secolo
a.C., divenendo ‘canone’ costruttivo in età augustea,
per conoscere il suo exploit lungo il corso della
giulio-claudia.
Il tempio di Sardus presenta un pronao, una cella (o naos)
e adyton bipartito, che doveva ospitare, da una parte,
la statua in bronzo di Sardus di oltre tre metri vista
la scoperta del dito di una mano; l’altro ambiente
ospitava forse una seconda statua (di Màkeris-Ercole,
padre di Sardus) piuttosto che un altare, presente
invece, secondo l'uso romano, sulla scalinata d'accesso
al tempio.
Il pronao, colonnato e aperto, è lungo 6,60 m (22 piedi) e
presenta quattro colonne in fronte e una sui lati
affiancata da una lesena che fa d’aggancio con la parte
postica o ‘chiusa’.
Le colonne frontali presentano un intercolumnio di ampio
respiro, m 3 (10 piedi), mentre quelle laterali sono
scandite da un intercolumnio di 2,4 m (8 piedi).
Ogni stelo è composto da una serie di rocchi a fusto
liscio in calcare locale ed un’altezza di 8 m, mentre il
diametro della base della colonna è di m 0,95 (circa 3
piedi e 2 unciae) ed un’altezza di 0,45 che fa pensare
non a delle sopravvivenze stilistiche greche, tanto da
essere definite ‘basi attiche’ e capitelli ionici.
Trattandosi di un tempio eclettico non tendente al purismo
ionico, che non potva possedere, i capitelli si
differenziano dal ‘canone ionico’ per l’assenza
dell'abaco e del canale delle volute; le lancette del
kyma ionico, che si alternano con gli ovoli son
insolitamente grandi quanto essi; mentre il sommoscapo è
parte unica col capitello e sembra presentare secondo
S. Angiolillo un profilo concavo.
Il pronao proseguiva a Sud-Est verso la cella, separato
dalla cella da un filare in blocchi calcarei, spessi m
0,80 all’interno del quale si apriva una porta, la cui
soglia ci fornisce la lunghezza di 2m. Da qui si
accedeva alla cella di m 11,25 x 7,40 (38 x 24 piedi)
decorata da da pilastri quadrangolari, a cui fanno eco
le lesene esterne d’aggancio con le colonne, addossati
alle pareti. Il pavimento di questo settore era
rivestito con un mosaico con fascia di raccordo bianca
di m 2,36 ed il bordo nero di cm 18, che delimita il
centro completamente bianco il cui ordito a file
parallele riporterebbe ad abienti severiani (S.
Angiolillo).
A cella era raggiungibile anche mezzo gli ingressi laterali
speculari disposti sui lati occidentale ed orientale con
una luce di 1,95 m ed erano accessibili da tre gradini.
Il muro di fondo conserva i 2 adyta (o adyton bipartito)
a cui si accedeva tramite due porte larghe 1,30 m,
misura scaturita dalle soglie, che aprivano ai due
piccoli vani (3,20 x 2,70 m). Di fronte alle soglie
sono stti ricavati nel pavimento due bacini quadrati
(1,20 m x 1 m di profondità), nei quali si accedeva
tramite tre scalini larghi 25 cm.
Le vasche sono impermeabili grazie ad un sottile strato di
cocciopesto idraulico e dovevano contenere acqua
lustrale per cerimonie di purificazione.
Il tempio doveva essere ragionevolmente coronato da un
frontone triangolare del tutto mancante che s’ipotizza
essere stato di legno; mentre dall’attestazione del
Lamarmora il quale rimise alla luce gli elementi
strutturali del tempio abbiamo l’attestazione che «…il
tetto [del tempio] era di tegole piatte, coperte nelle
connessure da coppi con le estremità ornate d'antefisse
di terracotta. Un frammento di queste ultime è stato
trovato tra le macerie: vi si vede un braccio appoggiato
su una voluta ed un pezzo d'ala: è stato facile farne
una restaurazione presso a poco completa».
La descrizione del generale piemontese suggerisce che la
decorazione fittile non sembra essere coeva alla
restituzione severiana bensì sembra riprendere
decorazioni che si spingono in dietro nel tempo, e che
quindi si debbano riferire all'originario tempio di
Sardus Pater, al periodo augusteo o addirittura al V
sec. a.C.
La tendenza degli studiosi porterebbe a far risalire le
terrecotte architettoniche e l’intera decorazione
fittile di Antas al periodo augusteo. La presenza sulle
antefisse di una figura femminile alata a gambe
tentacoliformi terminanti a volute, il suo
riconoscimento come Scilla, simbologia usata
frequentemente in periodo tardo repubblicano e imperiale
incipiente, riconducono ad un repertorio iconografico
che comprente soggetti mitici riferibili alle Lastre
Campana (chimera, grifone e figure femminili ). D’altro
canto le gronde a protome leonina, rappresentano un dato
cronologicamente nullo poiché rappresentano uno
stereotipo diffuso dal periodo arcaico fino a quello
alto imperiale.
La maggior parte degli autori considerano l’innalzamento
del tempio di Sardus Pater relativo al periodo augusteo,
innalzato secondo i canoni romano-italici ed imbevuto
delle persistenze culturali puniche, i cui confronti,
lasciando da parte la presenza cartaginese, si ritrovano
templi giulio-claudi di Nimes, Arles, Pula. Laddove,
invece, la definizione di tempio tetrastilo rimane
impregnata di risultanze puniche, per area
d’appartenenza, come a Djemila, in Tunisia, il tempio
d'età severiana dedicato alla Gens Septimia, rappresenta
l’esempio più vicino, culturalmente e cronologicamente,
a quello restaurato sotto Caracalla.
Tra i rinvenimenti, considerati offerte votive al Sardus
Pater, sono presenti: statuette in bronzo qualche volta
integre, più spesso ‘segate’ ai piedi, rappresentanti
Ercole e altre divinità; un delfino bronzeo, un clava
(attributo di Ercole), lancie in ferro (attributo di
Sardus), 42 monete repubblicane, 1103 monete
imperiali. Una offerta votiva del III secolo d.C.,
sconosciuta (una statuetta ?), si accompagnava con una
tabella ansata in bronzo con la dedica “Sardo Patri/Alexander/Aug(usti)
Ser(vus), Regionarius, /d(onum) d(edit)” (Alexander,schiavo,
imperiale, addetto alle regioni, ha offerto in dono a
Sardus Pater).
Il villaggio di Antas
A pochi metri a sudovest del tempio, i lavori dell'area in
breve pendio, svoltisi nel 1967, misero in luce diversi
vani a pianta pseudocircolare innalzati tramite pietre
legate da malta e fango. Le strutture variano
notevolmente i loro diametri tra i 3 ed i 6 m laddove i
muri misurano circa ½ metro di spessore. Gli ambienti
sono pavimentati con lastre di pietra e frammenti di
terracotta. Il piccolo abitato era recintato da un muro
curvilineo e discontinuo che lasciava il passaggio al
transito dei carri. L’abitato attesta la sua funzione e
la sua occupazione in età tardo imperiale, periodo
riscontrabile dalle suppellettili ed oggetti
prevalentemente locali (vasi da fuoco d'impasto) con
abbondanti importazioni di ceramica sigillata africana
di tipo "D", inoltre vetri, punte e lame in ferro, un
orecchino in bronzo, un peso eneo sferoidale tutti
riferibili al IV/V secolo d.C.
L’area abitata ha restituito anche quattro tombe a cassone,
all’interno di una delle quali oltre a tre brocchette
tardo antiche o altomedievali in ceramica comune, il
defunto portava sull'anulare sinistro un anello in
argento e stagno decorato da un serpente sul quale era
incisa una scritta in latino: Sida (vel Sidia)
Babi dedi don (vel donum) denarios XCIV (Diedi in
dono a Sid Babi 94 denarii). La maggir pate degli
studiosi colloca il termine del culto di Babai Sid
Sardus Pater intorno al IV sec. d.C.
Lo scavo del materiale di crollo ha però chiarito che
materiali più tardi come monete imperiali di IV sec.
d.C. definiscono un ‘pesante’ terminus post quem
per l’abbandono del culto e conseguentemente dell’area
per alcuni avvenuta per distruzione violenta (Angius).
Il culto a Sid, alla luce di questi rinvenimenti, parrebbe
proseguire fino alla tarda età imperiale spingendosi
anche oltre la caduta dell’impero romano d’occidente,
tenendo ben presente che la fine non dovrebbe essere
arrivata con la proclamazione della libertà di culto,
con Costantino nel 313 d.C., piuttosto con la
proclamazione del Cristianesimo religione di stato da
parte di Teodosio, quando la figura di Sardus Pater Sid
Babai verrà assimilata a S. Angelo, culto documentato
nella omonima località prossima ad Antas.
Conclusioni
La presenza in un tempio ricostruito in età Severiana, che
mantenne l'orientamento angolare, gl’ingressi laterali,
la cella-adyton bipartita e le vasche per le abluzioni
rituali di tipo punico; lo stile ionico o ionizzante
delle colonne mutuato dagli influssi ellenici; l’alto
podio d’ingresso e la fastosa decorazione fittile di
ambiente italico-romano, ci lasciano intravedere la
possibilità che il tempio abbia conservato nei seoli
tutte quelle caratteristiche che lo resero la
costruzione templare (nel senso di tempio classico) più
grande ed importante della Sardegna.
Potremmo così immaginare che già il tempio sardo, punico,
greco, italico e romano vennero a preservarsi nel tempo
fino a raggiungere l’ultimo stadio di ristrutturazione,
quello severiano, quando le peculiarità
crono-stilistiche vennero salvate e preservate, così
come oggi le conosciamo.
Fonti
antiche:
Paus.,
X, 17, 12; 18, 1
Sall.,
Hist.,
Sil.
It., Pun., XII, 35960
Sol.,
IV, 1;
Mart. Cap., De Nuptiis, VI, 645;
Isid.,
Etymologiarum libri, XIV,6, 39;
Guid.,
Geographica, 64;
Eustat.,
Parekbolari, ad v. 458; Scholia.
Genos Dionysioy Alexandreos toy periegetoy Sardo.
Tolom.
III, 3, 2.
Anon.
Rav., Cosmographia, 5, 26;
Riferimenti bibliografici:
AA.
VV., Ricerche puniche ad Antas, Roma 1969.
A.
Albizzati,
Sardus Pater, in AA VV, II convegno
archeologico in Sardegna, Reggio Emilia 1927, p.
105.
G.
Aleu,
Successos Generales de la Isla y Reyno de Sardena,
2, 1684.
S.
Angiolillo,
L'arte della Sardegna romana, Milano 1987, pp. 84
ss.
S.
Angiolillo,
Mosaici antichi in Italia, Sardinia, Roma1981, p.
77.
V.
Angius in
G. Casalis, Dizionario Geografico-Storico. Statistico ed
Economico degli Stati d. S. M. il Re di Sardegna, 18
ter, Torino 1850
E.
Acquaro,
Una faretrina votiva deAntas, Oriens Antiquis, 8,
pp. 127-129.
F.
Barreca,
Fluminimaggiore (Cagliari). Località Antas, AA VV, I
Sardi, Milano 1984, pp. 54 ss;
F.
Barreca,
Il tempio di Antas e il culto di Sardus Pater, s.l.
1975.
F.
Barreca,
La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari 1986,
passim.
F.
Barreca,
Lo scavo del tempio, AA VV, Ricerche puniche ad
Antas, cit., pp. 9 ss.
F.
Barreca,
Sardegna nuragica e mondo fenicio-punico, AA VV,
Sardegna preistorica. Nuraghi a Milano,
Milano 1985, p. 134.
U.
Bianchi,
Sardus Pater, AAVV, Atti del Convegno di studi
religiosi sardi, Padova 1963, pp. 33-51.
L.
Caboni – G.
Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater
ad Antas, Studi Sardi 21, 1970, p. 8.
M.
Cecchini,
Sondaggi al villaggio, AA VV,Ricerche puniche,
cit. pp. 147 ss.
Ph.
Clauverius,
Sardiniae antiquae tabula chorographica illustrata,
Torino 1785.
F.
De
Vico,
Historia General de la Isla y Reyno de Sardena, 2,
Barcelona 1639.
I.
Didu, La
cronologia della moneta di M. Azio Balbo,
Ce.S.D.I.R. Atti, VI, 197475, pp. 107 ss.
R. Du Mesnil Du
Buisson, Nouvelles Etudes sur les dieux et les
mythas de Canaan, Leiden 1973, pp. 228.
M.
Fantar,
Les inscriptions, AA VV, Ricerche puniche, cit., pp.
47 ss.
J.F.
Farà, De
chorographia Sardiniae, Torino 1835, p. 78.
J.
Ferron,
Le dieu des inscriptions d'Antas (Sardaigne), in
Studi Sardi, 22(1973), pp. 269 ss.
F.
Fois,I
ponti romani in Sardegna, Sassari 1964, pp.117118,
tav. 120-121.
G.
Garbini,
Le iscrizioni puniche di Antas (Sardegna), Annali
dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, 29,
1969, pp. 317 ss.
C.
Grottanelli,
Melqart e Sid fra Egitto, Libia e Sardegna,
Rivista di Studi Fenici, 1, 1973, pp. 153 ss.
M.G.
Guzzo
Amadasi,
Note sul dio Sid, AA VV, Ricerche puniche ad
Antas, cit., pp. 95 ss.
A.
Lamarmora,
Voyage en Sardaigne, 2, Paris 1840 –
Itinerario dell'isola di Sardegna, (traduz. G. Spano),
Cagliari 1868.
G.
Lilliu,
Bronzetti nuragici di Terralba, in Annali delle
Facoltà di Lettere e Filosofia e Magistero
dell'Università di Cagliari, 21, 1953Sugli scavi di
S.Angiarxia: G. Pesce in Fasti Archeologici, VI, 1953,
p. 356
G.
Lilliu,
Sculture della Sardegna Nuragica, Cagliari 1966, p.
107, n° 50.
G.
Manno,
Storia di Sardegna, 1, Torino 1825, p. 296.
A.
Mastino,
Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana.
Inventario preliminare in AA VV, L'Africa romana,
2,Sassari 1985, pp. 67-68.
A.
Mastino,
Le titolature di Caracolla e Geta attraverso le
iscrizioni (indici). Studi di Storia antica, 5,
Bologna 1982, p. 70, n° 319.
P.
Meloni,
La Sardegna romana, Sassari 1980, pp. 325 ss.
P.
Meloni,
Stato attuale dell'Epigrafia latina in Sardegna e nuove
acquisizioni, Acta of the fifth epigraphich Congress,
Cambrige 1967, pp. 244 s.
M.A.
Minutola,
Originali greci provenienti dal tempio di Antas,
Dialoghi di Archeologia, 910 (1976-1977), pp. 399 ss.
S.
Moscati,
"Sardus Pater" Nuove scoperte puniche in Sardegna,
Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di
Archeologia, 41, (196869), pp. 53 ss.
E.
Pais, La
Sardegna prima del dominio romano. Roma 1881.
E.
Pais,
Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio
romano, Roma 1923, p. XX.
R.
Pettazzoni,
La religione primitiva di Sardegna, Piacenza
1912.
G.
Puxeddu,
Romanizzazione, AA VV, La diocesi di Ales,
Usellus Terralba, Cagliari 1975.
P.B.
Serra,
Reperti tordoantichi e altomedievali delta Nurra,
Sassari 1986, pp. 19-41.
G.
Sotgiu,
Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad
Antas, cit., pp. 7, ss.(= AE, 1971, 119, 120; 1972,
227).
G.
Sotgiu,
Nuovi contributi dell'epigrafia latina alla
conoscenza della Sardegna romana, AA VV, Stato
attuale della ricercastorica in Sardegna, in
Archivio Storico Sardo 32, 1982, pp. 103 s.
G.
Sotgiu,
Un devoto di Sid nella Sulci romana imperiale?,
Epigraphica 44, 1982, pp. 17 ss.
G.
Spano,
Descrizione dell'antica Neapolis, Bullettino
archeologico Sardo, 5,1859, p. 136.
G.
Spano,
Itinerario antico della Sardegna con carta topografica
colle indicazioni delle strade, città oppiai, isole e
fiumi, Cagliari 1869, pp. 456.
G.
Spano,
Moneta e Statua di Sardopatore, Bullettino
archeologico Sardo, 1,1855, p. 912.
S.
Stefanini,
De Veteribus Sardiniae laudibus Cagliari 1773, p.
30.
M.
Sznycer,
Note sur le dieu Sid et le dieu Haron d'après les
nouvelles inscriptions puniques d'Antas (Sardaigne),
Karthago 15, 1969, pp. 67 ss.
G.
Tore,
Due cippi trono del tophet di Tharros, inStudi
Sardi, 22, 1973.
C.
Tronchetti,
Sulla statua del Sardus Pater a Delfi. I
rapporti fra il mondo greco e la Sardegna: note sulle
fonti, Egitto e Vicino Oriente, 9, 1986, pp. 121 ss.
M. L.
Uberti – A.
M. Costa, Una dedica a Sid, Epigraphica, 42, 1980, pp.
195 ss.
M. L.
Uberti,
Haron ad Antase Astane a Magia, Annali dell'Istituto
Universitario Orientale di Napoli, 38,1978,pp. 315 ss.
G.
Ugas – G.
Lucia, Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas,
AA VV, La Sardegna nel
Mediterraneo tra il secondo e il primo millennio a.C.,
Cagliari 1987, pp. 255 ss.
S.
Vidal,
Annales Sardiniae, 3, Milano 1649, p. 93.
R.
Zucca,
Il tempio di Antas, in: Sardegna Archeologica,
Sassari 1989.
R.
Zucca,
Italia punica, Milano 1986, pp. 283 ss.
R.
Zucca,
Neapolis e il suo territorio, Oristano 1987, pp. 119
ss.
|