N. 1 - Gennaio 2008
(XXXII)
Sardegna. Il tempio del SardUS PATER ad Antis
Il santuario sacro dei Sardi - Parte I
di Antonio Montesanti
Se potessimo immedesimarci nel viaggio che gli uccelli
migratori, in formazione a “V”, compiono ogni anno
dall’Europa all’Africa e viceversa, sorvoleremmo le
impervie coste della Sardegna Occidentale…
Lontana dalle coste dei due continenti, la riva sarda
rivolta alla Spagna, somiglia molto più alle alte e
ripide coste atlantiche che terminano spesso a
strapiombo su un mare di un blu profondo come in
Normandia, intramezzate da zone lagunari e ancor più di
rado da approdi come in Bretagna che a coste
mediterranee.
La Sardegna già difesa dal mare e dalle coste impervie ma degne di
mirabili visioni, racchiude al suo interno il proprio
animo spirituale. Al pari delle due regioni francesi,
famose per la loro orgogliosa autoctonia, l’isola
tirrenica protegge il suo “interno” con una
conformazione che lungo la costa occidentale assume toni
bucolici tra l’austero e il sacrale.
In un paesaggio compreso tra montagne scavate ed erose,
costoni a cielo aperto, paesi, miniere e strutture
metallifere abbandonate, laddove il terreno assume un
colore che sembra artificiale: il passaggio tra il
rosso-arancio del metallo ossidato ed il verde
dell’interno segna il punto stesso in cui la stessa
Terra copre, nasconde, cela i punti più sacri innalzati
dai signori dell’Isola.
Superata la fascia pericostiera dell’iglesiente, quella
mineraria che va dal mare verso l’interno, lungo la
strada che conduce dal capoluogo di provincia a
Fluminimaggiore si perde nei paesaggi montani della
zona fino ad arrivare nella località di Antas.
La posizione naturale della località colpì certamente tutti
coloro i quali s’insiediarono o insediarono in questo
punto le loro divinità.
Il tempio sorgeva quindi in un luogo protetto dall’asprezza
delle montagne e si trovava in un luogo sacro lungo
l’antica strada che univa le antiche città di Sulcis (S.
Antioco) e Neapolis (7 km a SO di Terralba,
Laguna di Marceddì) così come riportavano i
geografi antichi.
Nel terzo libro della Geografia di Tolomeo, dedicato
interamente alla Sardegna, si riportavano tutte le
località della costa occidentale e tra queste appariva
la menzione, in greco, di un Sardopàtoros ieròn (Tempio
del Sardus Pater).
Sardus Pater
è il nome latinizzato per indicare il “Padre Sardo” sia
nel senso eponimo della parola sia nell’accezione “Padre
di tutti i Sardi” che come abbiamo visto aveva il suo
corrispettivo nel sincrasismo ellenico Sardopator.
Dopotutto la Sardegna gli deve il nome e probabilmente la
costituzione di una coscienza sociale e politica comune.
I testi antichi sembrano convenire e convergere su una
stessa linea nel narrare il mito di Sardo “…procreato da
Ercole, con una grande quantità di compagni, partì
dall’Africa (Libya), occupò la Sardegna dal quale
prese il nome” (Sall., Hist.).
Silio Italico riprendendo una precedente tradizione da cui
sarebbe derivata anche quella sallustiana, aggiunge il
particolare nel cambio di nome già in antico affermando
che “I Greci chiamavano l’isola Ichnusa;
Sardo cosciente dell’impavido sangue di Ercole Libico,
le assegnò, cambiandolo, il proprio nome” (Sil. Ital.,
Pun., XIII).
Ogni altra attestazione successiva ci permette di ottenere
nuove tessere del mosaico e di ricostruirne un quadro
piuttosto omogeneo: il mito diveniva storia e ragione
degli avvenimenti passati fino a condurci a flebili
tracce del passato. Tradizioni orali erano confluite
nella storiografia greca e romana tanto da far parlare
nel mito la storia poiché sembra che “…Sardo, nato da
Ercole e Norace, da Mercurio, giunsero su quest’isola
l’uno dall’africa e l’altro da tartasso ispanica, dal
primo prese il nome la terra e dall’altro la città di
Nora” (Sol., Mem.).
Gli autori del periodo postardoantico (Marzianus Capella,
Isidoro da Siviglia e Guidone Ravennate, oltre agli
scoliasti bizantini, non riportano dati nuovi se non il
fatto che la tradizione appare indiscutibilmente
univoca.
Sardo (Sardon) figlio di Ercole, giunse dall’Africa
con moltissimi abitatori in Sardegna che solo da allora
prese il suo nome. Secondo questa tradizione, i Sardi
erano, non solo figli di Sardo ma, la progenie che aveva
lo stesso sangue acheo che scorreva nelle vene dei
greci. Il dio eponimo era dunque ufficialmente
riconosciuto, al pari del suo popolo, e ritenuto degno
di stima e in un certo senso considerato non-barbaro.
Un passo che racchiude l’importanza del Dio di fronte al
mondo classico, denota un certo ruolo detenuto dai Sardi
e dal loro dio, nella Descrizione della Grecia di
Pausania, quando il viaggiatore descrive il santuario di
Apollo a Delfi.
Il Periegeta descrive con accuratezza il momento in cui
s’imbatte in una statua di bronzo del Sardus Pater
che “…si trovava in quel luogo lastricato di pietra
bianca chiamato ‘òmphalos (ombelico), perché al
centro della terra… inviata dai Barbari che si trovano
in Occidente e che abitano la Sardigna”.
Il racconto prosegue con le solite ed indispensabili
informazioni di carattere geografico, storico ed
antropologico, mascherati dalla coltre del mito. “…I
primi a navigare sull’isola [Sardegna] furono i Libici
guidati da Sardo figlio di Màkeris [Melkart
fenicio o Ercole greco], così come lo chiamano i Fenici
e gli Egizi, detto Erakle. Famoso fu il viaggio che
costui compì a Delfi. Sardo condusse i Libici sull’isola
di Ichnusa che cambiò nome nel suo. La flotta libica non
scacciò gli indigeni, che furono costretti ad accogliere
gli invasori più per forza che per benevolenza”.
Tuttavia questo racconto ci offre un quadro generale,
incompleto ma direttivo della situazione sarda e ci
prospetta una sorta d’inquadramento-guida del tempio che
sembra seguire il mito e la storia.
Il culto del Sardopator fu preceduto da un culto più
antico: quello del punico Sid.
A sua volta l’area ha restituito anche delle presenze
nuragiche precedenti al culto fenicio.
Le ricerche condussero alla scoperta degli elementi
autoctoni o nuragici riferibili al periodo del Bronzo
Finale (1200-900), tra questi risaltano ceramiche
d’impasto, dischi digitali, una perlina in vetro ed una
lamina bronzea abbinati ad una stratigrafia che a detta
del suo scavatore (Giovanni Ugas) era da considerarsi
problematica per la lontananza dal tempio, oltre i 40 m,
e per la presenza piuttosto elevata di carboni e ossa
combuste.
La perplessità nasceva dal fatto che a 21 m a sud del
tempio stesso venivano individuate tre tombe a pozzetto
risalenti ai primissimi anni del Bronzo Incipiente (IX-VIII
sec. a.C.). Le tre sepolture orientate in asse NS erano
di forma circolare nel banco scistoide e in realtà solo
2 di esse si potevano definire ‘tombe’ nel vero senso
del termine (T.1 e T.2), mentre la terza buca era
comunemente considerata un cenotafio, ovvero una tomba
priva dell’inumato(T.3).
I corpi dei due inumati presenti erano stati deposti in
ginocchio (T.2) o seduti (T.3) mentre i corredi appaiono
monotoni anche a livello quantitativo, infatti la
maggior parte dei manufatti restituita è costituita da
elementi sferici per lo più di piccole dimensioni
(perline, vaghi sfere) tuttavia i globuli sono in
materiali estremamente eterogenei: cristallo di rocca,
vetro multicromatico, bronzo; appaiono invece
estremamente interessanti altri reperti, tutti
proveniente dalla T.3: oltre al “solito” anello digitale
vi sono tre reperti eccezionali: un vaso in argento con
lamina d’oro, un pendaglio a disco, ancora in argento, e
l’ultima una statuina che il defunto teneva nella mano
destra.
Quest’ultimo rinvenimento è considerato la raffigurazione
più antica del Sardus Pater. Il dio è
rappresentato nudo, a ginocchia leggermente flesse,
l’avambraccio destro è sollevato mentre la mano sinistra
tiene in avanti un’arma con una lama (forse una lancia),
la parte a più alta resa è la testa dove gli elementi
caratterizzanti sono tutti ben evidenziati, la fattura
riporta a modelli levantini ed in particolare trova un
confronto abbastanza preciso con quello proveniente da
un’altra area sacra quella di Sierra Niedda – Sorso.
Benché alla statuina, concepita non prima del IX sec. a.C.,
manchi il caratteristico copricapo piumato che lo
identifica nella iconologia tipica sarda e presente
nella statuina di Decimoputzu, la lancia lo inserisce
perfettamente nel sistema iconografico ufficiale: oltre
al tipo di Sorso, appare anche l’effige presente sulla
moneta di M. Atius Balbus e la raffigurazione pittorica
nella c.d. “Tomba di Sid” dalla necropoli di Tuvixeddu
di Cagliari, per quanto riguarda invece l’Africa la
stessa iconologia è presente su un rasoio da Cartagine.
Solo successivamente, con l’arrivo dei Punici, l’iconologia
del Sardus Pater prenderà le fattezze esotiche
aggiungendo, alla presenza della lancia autoctona, le
varianti del copricapo piumato e di una veste lunga
secondo i sacerdoti orientali.
Nonostante il rinvenimento di una statuetta di tale valore,
è comune l’affermazione che il culto del Sardus Pater
sia stato preceduto da quello di origine punica di Sid o
anche di Sid Baby (o Babay). A Cartagine la
figura di Sid si accompagnava spesso a Melkart
(Eracle) e Tanit e la sua composizione idiomatica
faceva si che si accompagnasse come elemento proclitico
delle divinità: Sidmelkart e Sidtanit mentre in Sardegna
attestazioni che ne riportano il nome lo vedono in
qualità di particella enclitica: Meleksid, Bodsid
(Olbia) e Yatonsid (Monte Sirai).
Tuttavia il carattere delle offerte rinvenute nella stessa
località, come un ancora ed un delfino, e statutette di
divinità orientali (Shadrapha e Horon) con attributi
legati alla guarigione non lasciano dare una definizione
chiara alla natura del dio che si identifica tra
guerriero, marino e guaritore.
Le tombe “nuragiche” ed in particolare la statuetta della T.3
chiariscono che la presenza della divinità era già
presente prima dell’arrivo punico che riconobbe nel
Sardopator il proprio dio Sid, per alcuni eponimo della
città fenicia di Sidone (G. Garbini).
Se le tracce di un primo ipotizzabile santuario nuragico
sono totalmente assenti, al contrario nell’area del
grande tempio sono state rinvenute numerosissime prove
di un culto punico. I lacerti murari che utilizzano
sempre una stessa tipologia costruttiva, basata su una
serie di scheggioni in calcare, tenuti insieme da una
sorta di malta a base fangosa. Questi sono presenti
nell’estremità SO della scalinata del tempio così com’è
ricostruito oggi, a NO del primo gradino del podio,
formando una serie di muretti che si addossano ad una
roccia calcarea naturale che doveva rappresentare
l’altare primordiale attorno al quale verrà costruita
ogni fase templare successiva.
Altri lacerti strutturali identificano opere di cui non è
facile ricostruirne una fase costruttiva o una funzione.
Anche alcuni elementi architettonici presentano
caratteristiche chiaramente orientali, rocchi di
colonne, frammenti di capitelli e basi di colonne
dorico-egizie e due gole egizie su cui sono ben evidenti
tracce di stucco color avorio.
Purtroppo la maggior parte degli elementi architettonici
della fase punica vennero riutilizzati come riempimento
del basamento del podio di epoca romana e che non danno
la possibilità di ricostruire, se non pochi e limitati
elementi del sacello templare.
Gli studiosi hanno tentato ugualmente una sorta di
ricostruzione dell’area occupata dalla fase fenicia:
contornato da un muro perimetrale di forma quadrata di
68 m di lato e costruito con la solita tecnica in
schegge calcaree e malta fangosa, il recinto (tèmenos)
delimitava l’area sacra; il tempietto vero e proprio era
limitato ad un sacello ripartito di 9x18 m, che
probabilmente terminava sulla parte dell’affioramento
calcareo ancestrale, sul quale sono state rinvenute
tracce di bruciato che ne testimoniano il sacrificio
alla maniera greco-orientale.
La datazione attribuita al tempio punico si aggira intorno
al 500 a.C. che dovette sorgere proprio intorno al
blocco calcareo che costituiva un affioramento naturale
che doveva avere il valore di roccia sacra (1) che
rappresenta il nucleo di ogni complesso successivo;
oltre all’elemento inamovibile dell’affioramento-altare,
l’intero complesso templare era costituito in definitiva
da un vestibolo (2), un vano mediano (3), un penetrale
con pavimento in pietrisco e calce (4).
Ristrutturato intorno al 300 a.C., gli interventi
riguardarono soprattutto la decorazione esterna. Gli
elementi architettonici subivano decisamente il gusto
proveniente dalle nuove frontiere d’oriente, aperte da
Alessandro Magno e filtrate dall’evergetismo tolemaico.
Lo stesso sacello riprendeva in maniera meno
spettacolare le decorazioni egizio-alessandrine dove le
decorazioni nilotico-orientali si sposavano con
l’architettura portante greca. La trabeazione utilizzò
chiaramente il modello egizio della sima o gola egizia,
le stesse colonne, in arenaria stuccata a stretta
funzione decorativa.
Nonostante le campagne esplorative siano state numerose, ad
ogni nuovo scavo si aggiunsero nuovi dati; e se in un
primo momento si riteneva che non vi fossero altre
strutture oltre al sacello, con la sua suddivisione
interna in vani, e al temenos di recinzione, sono
stati individuati, tra il primo ed il secondo, altre
aree delimitate: un ambiente rettangolare (5) a NE, al
cui interno vi erano frammenti di sculture votive,
relative alla prima fase punica dell’area templare, ed
una struttura in pietrisco a SO (6) di piccole
dimensioni che probabilmente fungeva da altare.
Dal tempio provengono numerosissime attestazioni del culto
e di una forte presenza di frequentazione greca, dal
periodo tardoarcaico fino alle ultime risultanze datate
crollo della dinastia argeade in Macedonia e Oriente,
dalla prima metà del V sec. a.C. alla fine del IV sec.
a.C.
Su tutte, la più antica dovrebbe essere una testa in marmo
pario a grana grossa di bottega Argiva avvicinabile all’Afrodite
del tipo Frejus del 420 a.C., a cui si affianca
un’altra testa muliebre di circa 200 anni più giovane ad
attribuita ad una bottega Alessandrina su modello
skopadeo al pari di una terza testa in marmo grigio
raffigurante Kore-Proserpina.
A queste prime tre teste marmoree vanno aggiunti altri
elementi scultorei successivi che vengono collocati già
nel periodo di occupazione romana (pieno II sec. a.C.) e
che si riassumono in una statua di danzatrice acefala in
alabastro, un frammento in marmo pentelico di fanciulla
con peplo e chitone ed un torso maschile in marmo pario.
A questi capolavori si considerino inoltre, dal IV sec.
a.C. in poi, una ventina di iscrizioni in punico al o
Sid Baby e numerose foglie o chiodi laminati in oro e
centinaia di monete provenienti da Sicilia, Cartagine e
Sardegna.
|