arte
IL Sarcofago
Egizio come Signore della Vita
dal periodo
predinastico all’epoca romana
di Paolo Fundarò
Nell’antica religione egizia, le
cerimonie rituali assicuravano la
salvezza e la trasfigurazione in una
nuova vita come continuazione di quella
terrena. Queste pratiche includevano
formule magiche tratte da una tradizione
di testi funerari come il Libro dei
Morti, dipinte sul sarcofago a
partire dal primo Periodo Intermedio (VII-X
dinastia), la presenza di amuleti
inseriti nelle bende, e di piccole
statuine detti ushabti (il
servitore eterno), rappresentanti il
defunto, per sostituirlo in caso di
distruzione del corpo, impedendo la
dissoluzione del Ka, e per
assolvere ai compiti di sostentamento e
di lavoro agricolo nelle luminose terre
dell’Occidente, assicurando protezione e
aiuto nel viaggio verso l’oltretomba (duat).
Il sarcofago, che in greco antico
significa “divoratore della carne”, era
considerato dalla civiltà egizia come
"signore della vita" (neb ankh).
Racchiudeva un’estesa simbologia della
cosmologia egizia: la cassa
rappresentava la terra, e il coperchio
spesso dipinto con raffigurazione della
dea del cielo Nut, il cielo.
“Oh madre Nut avvolgimi interamente
perché io possa essere posto tra le
stelle imperiture e non morire mai”
riporta un inno dedicato alla dea. In
quelli più arcaici, dove i corpi sono
rannicchiati in vasi di terracotta, si
suole vedere l’imitazione del grembo
materno, premessa a una rinascita.
La forma e l’iconografia dei sarcofagi
muta nel tempo riflettendo le
trasformazioni delle varie epoche e
dinastie, dai più semplici in legno
grezzo nel periodo Predinastico
(4500-3300 a.C.) ai più riccamente
decorati del Primo Periodo Intermedio
(2150-2040 a.C. ca)
Nell’Antico Regno (2700-2190 a.C), la
cassa rettangolare era decorata come una
cinta muraria per renderla inespugnabile
alle forze del male e, verso la fine
dell’Antico Regno, sui sarcofagi lignei
appaiono decorazioni, come la falsa
porta per la circolazione del Ka
del defunto e l’occhio sacro per
mantenere un contatto col mondo dei
vivi.
.
Sarcofago in legno con occhi dipinti,
XII dinastia. Londra, British Museum
Durante il Medio Regno (1991-1785 a.C.
ca) e verso la fine della XII dinastia
appaiono i sarcofagi antropoidi, mentre
nella XVIII dinastia (1550-1292 a.C.)
durante il Nuovo Regno i sarcofagi
multipli, spesso inseriti l'uno
nell'altro sono il vero sostituto del
corpo che assume le sembianze del dio
Osiride con il quale il defunto veniva
identificato “Che io viva o muoia, io
sono Osiride. Entro dentro e riappaio
attraverso te, mi decompongo in te, mi
creo in te” (inno di Osiride Vegetante).
.
Sarcofago antropoide. Torino, Museo
Egizio
Risalenti alla XXVI dinastia Saitica
(664-525 a.C.) sono una serie di
sarcofagi antropoidi in pietra
colossali, con le forme quadrangolari
spesso smussate, provenienti dalle
botteghe di Gīza o Saqqāra. Coll’ascesa
dei regni tolemaici (332-30 a.C.)
assistiamo alla modellazione della
maschera funeraria che assume la forma
di un busto in cartapesta rappresentate
il defunto, munito di parrucca e
iscrizioni apotropaiche per scongiurare
i pericoli del viaggio nell’aldilà.
Queste fisionomie lavorate in
cartonnage e a volte decorate con
foglia d’oro, si legano ancora al
rituale classico dell’antico Egitto,
dove l’importanza degli occhi, narici e
bocca rappresentano forse transiti
vitali che permettono alle forze
cosmiche di unirsi al defunto per
poterlo trasfigurare nella luce di
Osiride donando l’immortalità.
.
Maschera in Cartonnage dorata. Londra,
Petrie Museum
È in epoca romana (30 a.C.-395 d.C.) che
si aggiunge come innovazione funeraria
alla serialità della maschera, il
ritratto dipinto e posto sul volto della
mummia. La sua funzione, ancora oggetto
di dibattito, è dovuta probabilmente
alla fusione delle diversi tendenze
culturali presenti durante il dominio
romano nella terra dei Faraoni.
In questo contesto rileviamo che la
tecnica pittorica del ritratto,
l’encausto, era di matrice greca e
l’idea del ritratto adagiato sul volto
della mummia influenzato o dovuto alla
tradizione patrizia dei romani delle
imagines maiorum – tradizione per
altro estranea al mondo greco –
rappresentata da maschere in cera
dell’estinto custodite in appositi
armadi, e utilizzate in particolari
cerimonie.
Un possibile anticipo di questo uso
potrebbe essere ravvisato nei sarcofagi
antropoidi ritrovati in Libia e
introdotti dall’Egitto dai Re di Sidone
Tabnit e Echmonouzar II durante la
battaglia di Pelusio.
Tra il V e IV sec. a.C., quando parte
della classe borghese fenicia,
intraprende la commissione di sarcofagi
che distaccandosi progressivamente
dall’influenza egizia subiscono quella
greca, abbiamo l’esempio di manufatti
realizzati in marmo pario con la testa
scolpita secondo il modello prettamente
greco.
I volti maschili, scolpiti nei sarcofagi
hanno folte capigliature, barbe e
riccioli, e in alcuni sculture di teste
femminile si conservano tracce
policrome. Presentano una visibile
affinità iconografica con le mummie e i
sudari del Fayyum considerata la
differenza temporale e i materiali di
realizzazione.
I volti dipinti sulle mummie egizie
occupano la stessa posizione dei volti
scolpiti nei sarcofagi di Sidone, in cui
affiorano nella stessa maniera tratti
espressivi e realistici. Queste
sarcofagi antropoidi anticipano nei
propositi le mummie con ritratto o
rappresentano una casuale convergenza
senza corrispondenze?
.
Mummia con Ritratto di Artemidoro.
Londra, British Museum
In ogni caso il ritrovamento di alcune
mummie ad Abusir El-Melek, deposte
dentro sarcofagi ad armadio provvisti di
sportelli, come le nostre pale d’altare,
per l’apertura e la visione della
mummia, depone a favore dell’ipotesi che
il culto dei romani in Egitto aveva
probabilmente sostituito la pratica
delle imagines maiorum col
ritratto su tavola o lino.
Forse il defunto, voleva apparire con
quel preciso aspetto davanti il dio
Osiride, sospendendo in tal modo l’ansia
dell’ignoto in un eterno presente. I
grandi occhi quasi sproporzionati dei
ritratti, rimandano probabilmente allo
sguardo di Horus dipinto nei sarcofagi,
con lo scopo magico di guidare il
cammino verso l’eterno ciclo del sole
nascente.
Secondo il brillante egittologo
britannico W.F. Petrie, solo l’1 per
cento delle mummie rinvenute nelle
necropoli di Hawara presentava un
ritratto come sostituzione della
maschera parte del corredo magico.
I volti del Fayyum, così definiti
nonostante questi pannelli e sudari
siano stati ritrovati in tutto l’Egitto
dal 1600 in poi, fino alle coste di
Marina El Almenin durante gli anni
Novanta del Novecento, ammontano a più
di mille e suggeriscono più un’unità
stilistica che geografica. Sono
considerati come l’unico collegamento
con la grande pittura da cavalletto del
mondo antico, ormai perduta, anche se in
mancanza di altri rinvenimenti fuori
dall’Egitto non abbiamo termini di
paragone o riscontri per sapere se
questi dipinti sono un riflesso della
grande pittura greca, semplice
artigianato nell’ambito di una
semplificazione di provincia o una
sintesi più o meno somigliante
dell’evoluzione tecnica della pittura su
tavola del mondo classico.
Nell’ambito della ricerca sul
significato dei ritratti sarebbe
interessante indagare anche la
differenza di concezione tra quelli
realizzati in cera rispetto ai meno
numerosi a tempera. Cosa li distingue
nella scelta della pratica funeraria?
La cera aveva anche una funzione
simbolica o la scelta era puramente
casuale? Il ritratto impediva la
dissoluzione nell’invisibile, favorendo
una mediazione maggiore, un segno di
distinzione più preciso verso l’aldilà
rispetto la maschera?
In ogni caso rappresentano una singolare
testimonianza dell’encausto, con cui
molti dipinti sono stati realizzati, e
rappresentano i più antichi ritratti di
persone comuni; non riproducono infatti
divinità o sovrani, anche se
l’archeologo G. Ebers amico
dell’antiquario e faccendiere Theodor
Graf alla fine dell’Ottocento tentò di
spacciarli come immagini dei Tolomei per
aumentarne il valore commerciale.
Si tratta quindi di un’eccezionale
corpus di documenti unici e
preziosi. Alcuni sono impregnati di un
potente naturalismo, e di una esuberante
forza vitale. Tutti i dipinti – ritratti
e sudari – sono collocabili tra il I
secolo d. C e la fine del IV secolo: da
Tiberio ai regni dei Valentiniani.
La qualità del dipinto non dipende
dall’epoca o da uno sviluppo cronologico
come inizialmente si credeva, ma
aderisce più all’idea funzionale del
ritratto dovendo rappresentare più o
meno, a secondo dei casi, la tradizione
stilizzata egizia o naturalista
greco-romana. Il ritrovamento di
numerosi frammenti di cornici o rilievi
in stucco decorato con vari motivi, con
tracce di chiodi o cavicchi, di un
dipinto rinvenuto da Petrie a Hawara che
conserva interamente la cornice e la
cordicella per appenderlo, e il famoso
tondo dei due fratelli ritrovato
dall’egittologo francese Albert Gayet ad
Antinopolis nel 1898, fanno pensare che
i ritratti eseguiti in vita sono stati
successivamente utilizzati per la
cerimonia funebre. Anche il taglio della
tavola ai lati per adattarla alla mummia
fornisce ulteriore sostegno a questa
convinzione.
Personalmente ritengo che la maggioranza
dei dipinti su tavola sia stata
realizzata prima della morte della
persona raffigurata; in alcuni casi
forse ci troviamo di fronte a delle
copie realizzate al momento del decesso
o ritoccati per esigenze rituali come ad
esempio l’aggiunta della foglia d’oro in
alcuni casi sulle labbra per scopi
propiziatori.
I sudari o ritratti su lino, d’altro
canto appaiono con un carattere più
marcatamente rituale e standardizzato, e
inducono a pensare più all’utilizzo di
uno schema fisso e una serie di varianti
su un modello uniforme, tenuto conto
anche che la posizione delle mani e gli
oggetti che stringono hanno significati
simbolici e funerari.
Nella concezione dell’antico Egitto per
la sopravvivenza nell’aldilà, il corpo
non doveva essere distrutto, ma
conservato attraverso il rito
dell’imbalsamazione perché gli elementi
vitali costitutivi dell’individuo
potessero attivarsi per condurlo nella
vita dopo la morte.
I principi vitali più noti secondo la
tradizione Egizia sono il Ka, la
forza vitale universale che mantiene uno
stretto rapporto col corpo del defunto
visitandolo e accudendolo dopo la morte,
il Ba, lo spirito o potenza
interiore dell’essere che congiunge il
mondo dei vivi coi defunti e le
divinità, il Khaibhit, l’ombra o
doppio immateriale che collega il corpo
agli elementi intangibili
dell’individuo.
I ritratti del Fayyum con gli occhi
sepolti nel silenzio dei millenni,
rappresentano probabilmente, l’ultima
tappa di una rinascita attesa nel volto
di coloro che hanno per sempre l’alba
nelle pupille. |