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N. 7 - Luglio 2008 (XXXVIII)

SANTA ROSALIA a palermo

dalla peste al voto

di Cristiano Zeponi

 

Il 7 maggio del 1624 nel porto di Palermo si provvedeva alle consuete operazioni marinare, ed i vascelli si alternavano nell’attracco alle banchine; il via vai continuo, inarrestabile e caotico di mercanzie d’ogni sorta, e di uomini d’ogni terra, riempiva le menti degli addetti allo sbarco – e dei loro superiori.

 

Un galeone proveniente da Tunisi, già approdato a Trapani, s’incuneò allora nella variopinta foresta di natanti che occupavano la rada, e gettò l’ancora.

“I senatori – ricorda Piero Celauro - avrebbero espresso parere negativo, ma Antonio Navarro, segretario del viceré Filiberto di Savoia, ordinò di consentire lo sbarco, giacchè il galeone portava un prezioso tappeto destinato al viceré”.

Allora, insieme all’equipaggio, sbarcò la peste, che un giorno avrebbe punito l’ingenuo rampollo.

 

Le condizioni igieniche della città, a quel tempo, potevano definirsi disastrose; e l’affollamento, sommato alla totale (o quasi) carenza di servizi pubblici, fecero il resto. Il morbo ne approfittò con singolare rapidità, e penetrò nel tessuto sociale lasciandosi alle spalle la consueta, macabra desolazione che l’accompagnava.

Le autorità provarono a fare quello che potevano, cioè nulla, mentre il numero di vittime continuava a salire; il Senato palermitano si limitò quindi ad ordinare che si rimettessero in vigore le prescrizioni elaborate dal protomedico del regno, Giovan Filippo Ingrassia, in occasione della peste del 1575. Tuttavia, nonostante i cordoni sanitari e l’obbligo di quarantena, l’epidemia si estese anche nelle città e terre minori.

La scienza, ancorché in modo rudimentale, tentò di ostacolarne il decorso: Marco Antonio Alajmo, celebre medico, pubblicò il “Discorso intorno alla preservazione del morbo contagioso e mortale, che regna alla presente in Palermo e in altre città e terre del regno di Sicilia”.

 

Il 24 giugno del 1624 la città venne dichiarata infetta; meno di una settimana dopo, il Senato vietò di allontanarsi dalla città e dai suoi territori senza il “permesso” rilasciato dal maestro notaio.

Il 3 luglio ordinò, inoltre, la requisizione del borgo di S. Lucia, destinato ad accogliere infermi, sospetti e convalescenti.

Le carte giocate dalle autorità dimostrarono presto la loro inefficacia, e Palermo prese a somigliare sempre più ad un lazzaretto a cielo aperto. L’inedita virulenza del morbo – lo stesso che, trasferitosi a Milano, sarebbe poi stato cantato da Manzoni – contribuì a mobilitare l’arsenale di superstizioni che caratterizzava quella terra sfortunata.

 

Santa Cristina, santa Oliva, santa Ninfa e sant'Agata, le quattro patrone della città, si erano rivelate impotenti, mentre Palermo moriva lentamente negli ospedali, nei corridoi, per le strade.

Accadde allora che ad una tale Gerolama Gatto (chiamata, da alcuni, “la Cattuta”), paziente dell’ospedale di Palermo in preda a febbri violente ed ormai prossima alla morte, apparve nella luce soffusa delle lampade ad olio la figura candida di S. Rosalia. “Non temere; se fai voto di recarti al Monte Pellegrino, subito guarirai”, furono le parole riferite dalla donna.

 

Rosalia, figlia del duca Sinibaldo di Quisquina delle Rose e nipote per parte di madre di re Ruggero d’Altavilla, crebbe nel XII secolo alla corte dello zio, a Palermo. Poiché si diceva che fosse molto bella s’attirò le attenzioni di vari contemporanei, tra cui quelle del principe Baldovino, all’epoca ospite di riguardo alla corte di Ruggero. La leggenda narra che, durante una battuta di caccia grossa sul monte Pellegrino, l’altura che sovrasta Palermo, un leone stesse per uccidere re Ruggero; Baldovino, allora, intervenne trafiggendo la bestia.

 

Re Ruggero, sollevato, chiese dunque a Baldovino di indicare un premio per il suo gesto, e si sentì chiedere la mano di Rosalia. Ma questa, contrariamente ai desiderata del principe (e probabilmente della famiglia tutta) decise di fuggire.

Chiese ed ottenne, allora, il permesso di vivere da eremita in una grotta sul monte Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita.

Successivamente, si trasferì in una grotta sul monte Pellegrino, dove visse in contemplazione fino alla morte, sopraggiunta nel 1156.

 

Il culto della santa, attestato da documenti a partire dal 1196 e già diffuso nel corso del XIII secolo, era da tempo caduto in desuetudine. Sulla dorsale del monte Pellegrino, la grotta della santa era stata mèta per molti anni di pellegrinaggi massicci, specialmente il 4 settembre, data di nascita della ragazza: ma ormai, dopo quasi cinque secoli, non rimaneva neanche la memoria del luogo dove riposavano le sue spoglie.

 

Comunque sia la fortunata signora Gatto, ripresasi con difficoltà, tralasciò comprensibilmente la questione, finchè – tempo dopo - non decise di adempiere al voto. S’avviò perciò verso l’altura, e qui – in sogno – tornò a vedere una splendida figura di donna con un bambino in braccio, che secondo il racconto proferì queste parole: “Ora che hai compiuto il voto avrai la salute”. In quell'istante apparve anche una religiosa, vestita di bianco, che le indicò il luogo dove giacevano i resti della santa.

 

Il 15 luglio 1624 nel luogo indicato da Gerolama vennero ritrovate ossa umane ricoperte da concrezioni calcaree. Il giorno dell'Assunta di quell'anno, nella Cattedrale si riunirono le autorità ed il popolo, che decero di proclamare santa Rosalia patrona di Palermo, e di tenerne in grande venerazione i resti, che dovevano ancora essere sottoposti ad un riconoscimento decisivo.

 

La peste continuava inesorabilmente a proliferare, al punto da favorire la diffusione di una certa rassegnazione collettiva.

Lo scoraggiamento derivante dall’apparente mancanza di miglioramenti si sciolse, però, quando emerse una seconda testimonianza.

 

Il 4 febbraio 1625 al saponaro Vincenzo Bonelli, che aveva perso la giovane moglie a causa della peste, apparve sul monte Pellegrino – secondo il suo racconto - S. Rosalia. Gli ingiunse di comunicare all’arcivescovo Doria di non dubitare più dell'autenticità delle ossa precedentemente rinvenute: la peste sarebbe cessata qualora la reliquia fosse stata portata in processione. Colpito successivamente dal contagio (così come predetto dalla santa), l’uomo raccontò la vicenda, in punto di morte, al suo confessore che a sua vola ne riferì all’arcivescovo.

 

Secondo la tradizione i resti mortali di santa Rosalia, trasportati per le vie della città, bloccarono l’epidemia al punto che Palermo, in breve, fu liberata dal terribile flagello: il 15 luglio 1626 il Pretore, di ritorno da una visita al monte Pellegrino, venne a sapere che quel giorno in città non si era verificato nessun caso di peste.

Testimoniando riconoscenza per un tale beneficio, allora, Palermo si votò a lei; e la grotta del Pellegrino divenne santuario.

 

In seguito al riconoscimento pubblico - da parte di una “commissione” formata da teologi e scienziati - dell’autenticità delle reliquie (il 22 febbraio 1625), il cardinale Doria decise di onorare i resti della Santuzza con una solenne processione: in modo tale che ogni anno, nei secoli, avrebbe vissuto il ricordo della miracolosa fine dell’epidemia, e dei giorni in cui Palermo era morta e risorta.

Ancora oggi, dal 10 al 15 luglio Palermo festeggia la patrona, la Santuzza, con un “festino” (“U fistinu”) che ha assunto un’importante ruolo di collante della comunità; il 4 settembre, invece, ha luogo il pellegrinaggio alla grotta del monte Pellegrino.

 

"Uno. Notti e ghiornu farìa sta via!

Tutti. Viva Santa Rusulia!

U. Ogni passu ed ogni via!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca nni scanza di morti ria!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Ca nn'assisti a l'agunia!

T. Viva Santa Rusulia!

U. Virginedda gluriusa e pia

T. Viva Santa Rusulia!

ed ogni tanto il grido "E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia".



 

 

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