N. 26 - Febbraio 2010
(LVII)
Santa Maria del Popolo tra Storia e restauri
Presentazione
di Ginevra Bentivoglio
Giovedì
28
gennaio
2010
è
stato
presentato
il
volume
Santa
Maria
del
Popolo.
Storia
e
restauri,
frutto
di
un
lavoro
durato
quattro/cinque
anni,
supervisionato
dalle
instancabili
ricercatrici
Maria
Richiello
e
Ilaria
Miarelli
Mariani.
La
chiesa
illuminata
come
nelle
più
solenni
occasioni
di
un
tempo,
sebbene
non
a
lume
di
fiaccole
e
candele,
è
apparsa
più
splendente
che
mai
e la
presentazione,
che
è
sembrata
essere
una
vera
e
propria
cerimonia,
ha
dato
l’occasione
di
rivivere,
per
un
momento,
atmosfere
passate,
l’armonia
fra
le
arti,
fra
il
sacro
e il
profano:
un
salto
indietro
nel
tempo,
mentre
fuori
cadeva
la
pioggia
e il
traffico
impazziva
sull’adiacente
Muro
Torto.
Il
libro
in
questione
-
946
pagine
che
accolgono
saggi
e
documentazioni
redatte
da
ben
34
autori
– ha
avuto
come
luogo
di
‘battesimo’
proprio
il
cuore
della
chiesa.
Al
di
sotto
della
magnifica
cupola
e ai
piedi
dell’altare
del
Bregno,
sotto
gli
occhi
della
Madonna
del
Popolo
è
stato
infatti
presentato
al
pubblico
questo
importante
studio,
introdotto
dalle
parole
del
professore
Enzo
Bentivoglio
–
già
autore
della
monografia,
insieme
a
Simonetta
Valtieri,
edita
nel
1976,
dedicata
alla
chiesa
– e
arricchito
dagli
interventi
di
Antonio
Paolucci,
Alessandro
Tomei,
Alessandro
Zuccari,
Francesco
Paolo
Fiore
e
Donatella
Fiorani.
Di
seguito
stralci
dell’excursus
che
il
professor
Bentivoglio
ha
offerto
ai
convenuti,
una
efficace
e
coinvolgente
panoramica
sulla
storia
della
chiesa,
ricca
di
spunti
interessanti,
condita
da
aneddoti
frutto
dell’esperienza
diretta
dello
studioso.
Una
vivace
narrazione
delle
vicende
che
hanno
avuto
luogo
in
questo
scrigno,
“vero
e
proprio
compendio
della
storia
dell’arte
e
dell’architettura”
e
dei
suoi
protagonisti.
«
L’imponente
libro,
in
due
tomi,
è
avanti
ai
vostri
occhi.
Con
una
gestazione
relativamente
lunga,
accudita
dalle
instancabili
ricercatrici
Maria
Richiello
e
Ilaria
Miarelli
Mariani,
a
cui
devono
andare
i
nostri
ringraziamenti,
il
libro
è
fatto:
ben
946
pagine
accolgono
saggi
e
documentazioni
redatte
da
34
unità
di
estensori,
alcuni
con
più
saggi.
Come
ben
sappiamo
‘tenere
a
bada’,
‘frenare’
e
incalzare
professori
e
ricercatori
non
è
cosa
facile…
,
Maria
e
Ilaria
ci
sono
riuscite
con
garbo
e
pazienza
e
pertanto
va a
loro
un
grazie
a
nome
di
tutti
noi.
Un
plauso
all’Istituto
Poligrafico
e
Zecca
dello
Stato,
nella
persona
del
dottor
Guido
Citerni,
che
ha
fatto
sì
che
ancora
una
volta
l’Istituto
ci
abbia
dato
un
prodotto
all’altezza
della
sua
tradizione
–
più
che
ottuagenaria
– e
che
ha
visto
nella
dottoressa
Aureli
l’attento
riferimento
per
la
redazione.
Infine
ricordo
la
istruzione
fornitaci
da
Lorenzo
Martino
sulle
ineccepibili
metodiche
conoscitive
acquisite
attraverso
il
ricorso
al
Laser
Scanner
3D:
ora,
finalmente
sappiamo
l’esatto
profilo
interno
della
cupola!
La
prima,
grande,
costruita
in
Roma
dalla
fine
dell’antichità.
E
nel
caso
in
cui
qualche
piccolo
rifuso
si
potrà
riscontrare,
non
è un
colpa
di
alcuno,
ma
come
siamo
ben
consapevoli
è
uno
scherzo
del
PC ,
un
‘taglia
e
incolla’
che
ha
vagato
o si
è
perso
nello
schermo
ed e
finito
dentro
un
altro
file.
Il
libro
si
apre
con
varie
presentazioni:
per
prima
la
presentazione
del
professore
Antonio
Paolucci
–
già
Soprintendente
in
varie
Sedi,
già
Ministro
dei
Beni
Culturali
e
ora
Direttore
dei
Musei
Vaticani
–
che
con
le
seguenti
parole
sancisce
l’eccezionale
importanza
di
questa
chiesa,
“un
esempio
perfetto
della
specificità
del
patrimonio
culturale
italiano”,
a
cui
fa
seguito
quella
del
Soprintendente
Roberto
Di
Paola
che
ricorda
come
il
“valore
di
questo
studio
che,
avvicinando
una
pluralità
di
esperienze
specialistiche
riesce
a
comporre
un
mosaico
scientifico
rappresentativo”
e a
cui
va
riconosciuto
il
merito
d’essere
stato
il
primo
e
fattivo
propulsore
di
questa
‘impresa
di
studio
e
editoriale’.
Segue
quella
del
Soprintendente
Claudio
Strinati
che
ricordando
il
gran
numero
di
studiosi
coinvolti,
fa
avvicinare
il
volume
”come
struttura
e
significato,
agli
atti
di
un
ideale
convegno”
e
infine
quella
del
professor
Christoph
Luitpold
Frommel,
che
fornisce
un
serrato
excursus
filologico
e
critico
rimarcando
che
“neanche
lo
splendore
barocco
sarà
in
grado
di
restituire
all’interno
la
grandiosa
unità
e
monumentalità
sognata
da
Giulio
II e
Bramante”.
L’introduzione
del
professor
Giovanni
Carbonara
ci
avverte
che
“La
chiesa
di
santa
Maria
del
Popolo
costituisce
un
esempio
significativo
d’edificio
stratificato,
o
meglio,
scritto
e
riscritto
con
gusto
e
intenti
diversi
nel
tempo”
e
nella
conclusione,
richiamando
Giambattista
Vico,
riferendosi
al
valore
delle
testimonianze
materiali
dell’antichità
queste
sono
”figure
de’
fatti
(…)
simboli
insieme
e
prove
dell’istoria”
e
infine
non
tralascia
di
ricordare
l’importanza
e
l’utilità
del
“Regesto
Restauri
1955-2004”.
Ora
vi
condurrò
in
un
brevissimo
excursus,
non
su
quanto
i
presentatori
‘ufficiali’,
gli
autorevoli
Ospiti
e
alcuni
autori
dei
saggi
diranno
tra
poco,
ma
su
alcune
circostanze
di
carattere
personale
che
nell’arco
di
oltre
16.000
giorni
mi
hanno
condotto,
centinaia
di
volte,
a
roteare
gli
occhi
dentro
questo
scrigno
architettonico
di
storia
e
arti,
a
strisciare
dentro
i
sepolcreti
ancora
ricolmi
di
macerie
e
ossa,
a
percorrere
gli
estradossi
delle
volte
e
scoprire
un
tratto
catacombale
sconosciuto,
per
comunicarvi
le
sensazioni,
sicuramente
condivisibili,
suscitate
dal
respiro
che
questo
monumento,
anzi
questa
somma
di
monumenta
ci
trasmette.
L’antefatto
è
nel
primo
impulso,
quello
di
non
accettare.
Non
accettare
cosa?
Ad
essere
io a
aprire
questo
eccezionale
evento,
ovvero
la
introduzione
alle
presentazioni
formali
di
un
libro
entro
il
contenitore
da
cui
si è
generato.
Ma
la
carezzevole
insistenza
dei
reverendi
padri,
in
particolare
del
priore,
padre
Umberto
Scipioni
mi
ha
fatto
decidere
nel
momento
in
cui
è
stata
pronunciata
la
frase,
“MA
TU
SEI
DI
CASA,
QUI!”
Ebbene
sì!
In
Santa
Maria
del
Popolo
mi
sento
in
casa.
Quasi
45
anni
or
sono,
studente
del
primo
anno
di
architettura,
mettevo
piede
in
questa
chiesa
durante
una
lunga
esercitazione
di
rilievo
–
chino
sul
pavimento,
accarezzando
le
modanature
arrancando
alla
meglio
sulle
partiture
architettoniche,
mentre
lei
–
mia
moglie
-
disegnava
le
forme
e
annotava
le
misure.
Poi,
questo
primo
amore
non
si è
smarrito
e
quindi,
come
sulla
scia
di
una
cometa
siamo
arrivati
a
oggi,
passando
attraverso
il
libro,
edito
da
Bardi
nel
1976.
Occasione
questa
per
ricordare
l’indimenticabile
maestro
e
amico
Arnaldo
Bruschi
–
che
ci
ha
lasciato
quasi
otto
mesi
fa –
che
ne
fece
la
premessa.
A
questo
seguì,
nel
1981,
il
significativo
specifico
catalogo
edito
nell’ambito
delle
manifestazioni
su
Il
‘400
a
Roma
e
nel
Lazio
promosso
da
Calvesi,
Bernini,
Negri
Arnoldi
e
dalla
Tittoni
Monti,
di
cui
ricordo
il
‘ispetto’
scientifico
espresso
da
Claudio
Strinati
e
dagli
altri.
Quarantacinque
anni,
dunque,
di
incontri
con
questi
monumenti
che
ci
avvolgono
e
con
persone
che
ne
hanno
‘facilitato’
lo
studio
e la
ricerca.
I
cari
padri
agostiniani,
custodi
non
arcigni
di
questo
contenitore
di
storia
e
arti,
sempre
gli
stessi,
da
allora
a
oggi,
e
ciò
ci
da
quella
sicurezza
di
continuità
tra
il
passato
e
l’oggi.
Ho
ricordato
Arnaldo
Bruschi,
quanti
ragionamenti
fatti
e
consigli
acquisiti,
per
Bramante
e
non
solo!
Con
Stefano
Ray
– le
iniziali
RS
come
Raffaello
Sanzio
- a
parlare
e
parlare
della
cappella
Chigi…
I
severi
e
paterni
giudizi
di
Renato
Bonelli.
L’affabilità
di
Carlo
Pietrangeli,
a
cui
mia
figlia
Ginevra,
piccolina,
staccava
per
gioco
gli
intarsi
del
tavolo
Maggiolini
del
suo
ufficio.
E
sempre
qui
il
primo
incontro
‘colloquiale’
con
Giovanni
Paolo
II.
Ora
tutti
questi
sono
ombre,
vivono
nel
ricordo
e
nella
riconoscenza,
alla
stessa
stregua
di
tutti
quelli
che
da
questi
monumenti
e da
queste
opere
d’arte
possono
essere
evocati
–
e
con
i
quali
sempre
dialogo
–
attraverso
le
iscrizioni
e i
documenti
che
ci
hanno
tramandato.
Un
monumento
deve
essere
vissuto
con
passione
in
una
continua
operazione
di
conoscenza!
E a
tal
proposito
voglio
ricordare
come
una
mattina
di
molti
anni
fa,
vidi
e
ascoltai
l’attuale
nostro
Presidente
Napolitano
illustrare,
con
competenza
e
trasporto,
la
Cappella
Chigi.
San’Agostino
ci
dice
che
“Conosciamo
vedendo,
conosciamo
credendo”
e se
mi è
concesso
estendere
il
concetto
io
lo
rendo
mio
nel
dire:
nel
vedere
e
conoscere
io
credo,
poiché
quanto
qui
l’uomo
ha
realizzato
è
perché
credeva
in
una
fede,
in
una
trasmissione
di
un
messaggio
spirituale
che
emanasse
dalla
materia
plasmata.
Non
è il
caso
che
accenni
ai
fondamenti
filosofici
di
carattere
neoplatonico
in
cui
molto
di
quanto
qui
dentro
è
racchiuso,
di
quattrocentesco
e in
particolare
di
primo
Cinquecento,
è
immerso.
Basti
ricordare
la
cappella
di
Agostino
Chigi
e a
tal
proposito
ecco
venirci
incontro,
dal
passato,
il
dottissimo
Egidio
Antonini,
padre
generale
dell’Ordine,
che
voleva
conciliare
la
‘antica’
con
la
‘moderna’
superstitio:
il
mondo
ebraico
e
quello
cristiano,
nel
considerarli
come
due
tempi
successivi
di
un’unica
tradizione.
E se
lo
sguardo
è
attratto
dall’immagine
di
devozione,
ora
smarrita
all’interno
di
una
macchina
architettonica
esuberante
che
ha
sostituto
la
più
candida
e
dorata
ancona
voluta
dal
cardinale
Rodrigo
Borgia,
il
pensiero
vola
alla
straziante
iscrizione
di
Bregno,
posta
in
alto
a
ricordare,
in
latino,
il
figlioletto
morto
durante
l’esecuzione
dell’opera.
Nel
percorrere
la
‘nave’
la
sofisticata
lastra
tombale,
a
commesso
marmoreo,
incessantemente
conculcata,
ci
parla
di
Alfonsina
Orsini,
della
figlia
Clarice
e
dello
sfortunato
Lorenzo
duca
d’Urbino,
padre
di
Caterina,
regina
di
Francia
e,
mentre
incediamo,
le
figure
berniniane,
vezzosamente
e
precariamente
assise
sulle
ciglia
degli
archivolti,
assistono
al
roteare
dello
sguardo
che
vaga
alla
ricerca
della
lastra
terragna
donatelliana:
è
lì,
metà
fuori
e
metà
sotto
l’antico
confessionale!
Un
fuoco
d’artificio
di
colori,
ci
immerge
là,
nella
volta
del
Pinturicchio,
che
i
recenti
restauri
ce
la
offrono
in
tutta
la
potenza
dei
suoi
ricercati
dettagli,
mentre
larghe
isole
di
trasparenze
colorate
ci
provengono
dalle
vetrate
del
Marcillat,
l’una
rivolta
verso
nord,
ancora
libera
nella
luce
l’altra
verso
sud,
ora
smorzata
da
fabbriche
successive:
un
tempo
sprazzi
di
tonalità
che
partecipavano
di
quella
fusione
di
arti
e
architettura
in
questo
coro,
così
all’antica,
sicuro
regista,
Bramante,
qui
ove
Francesco
Maria
della
Rovere,
duca
di
Urbino,
voleva
si
ponesse
la
tomba
di
Giulio
II
di
Michelangelo,
l’artista
si
oppose.
A
proposito
di
Giulio
II,
un
tempo
qui
vi
era
il
suo
ritratto
e
dall’altra
parte
la
così
detta
Madonna
del
Velo,
una
‘sacra
famiglia’
che
mi
piace
credere
rappresenti,
Agostino
Chigi,
Ordeasca
e il
loro
figlio
Lorenzo
Leone,
ambedue
le
opere
eseguite
da
Raffaello.
Ma
là
in
alto
vi è
uno
stormir
di
fronde,
sono
le
fronde
roveresche-chigiane,
strabiliante
segno
beniniano
inventato
per
una
coppia
di
organi,
ormai
muti,
a
sostituzione
di
quello
voluto
da
papa
Alessandro
VI.
Il
papa
Borgia,
così
vicino
agli
Agostiniani,
tanto
che
qui
furono
sepolti,
nella
cappella-braccio
del
transetto
alla
mia
sinistra,
i
figli
Pierluigi
e
Giovanni
e
successivamente
la
loro
madre,
Vannozza,
che
lasciò
cospicui
donativi.
A
proposito
di
Vannozza
(consapevole
di
dire
una
cosa
forse
un
po’
azzardata,
ma
praticabile)
perché
la
grande
iscrizione
marmorea
–
già
nella
cappella
e
poi
fatta
rimuovere
da
un
papa
seicentesco,
in
una
pratica
di
tardiva
di
damnatio
memoriae,
poi
utilizzata
per
pavimentare
la
Basilica
di
San
Marco
e
riscoperta
da
padre
Ferrua,
ora
esposta,
tra
altri
elementi
erratici
di
incerta
provenienza,
nell’atrio
-
non
può
essere
di
nuovo
trasportata
in
Santa
Maria
del
Popolo?
Che
strani
collegamenti
sono
avvenuti
nell’ambito
di
questa
chiesa,
in
questa
comunità
agostiniana!
Un
papa
francescano,
Sisto
IV,
ne
promuove
la
completa
e
monumentale
ricostruzione
eletta
a
quasi
mausoleo
di
famiglia;
il
Borgia
da
cardinale
e
papa
la
adorna
e
molti
cardinali
per
così
dire
‘borgiani’
la
eleggono
a
loro
ultima
dimora.
Alessandro
VI
con
la
bolla
Ad
Sacram
del
1497
concede
in
perpetuo
all’Ordine
Agostiniano
il
privilegio
del
Sagrista
Apostolico
e
Giulio
II
non
è da
meno.
L’Ordine
Agostiniano
e la
famiglia
Chigi
già
ab
antiquo
avevano
avuto
il
loro
punto
d’incontro
in
Lecceto
e in
Viterbo
e
qui
a
Roma,
nella
‘prima’
chiesa
di
Roma,
arrivando
dalla
strada
Francigena,
Agostino
il
Magnifico
voleva
esibire
il
suo
biglietto
da
visita,
firmato
Raffaello.
Passa
quasi
un
secolo
e
mezzo
e
Fabio
Chigi,
prima
da
cardinale
e
poi
da
papa,
vuole
rinnovare
l’antico
splendore
da
cui
il
‘completamento’
della
cappella,
‘l’ammodernamento’
della
chiesa
e
pertanto,
qua
e là
lo
stemma
Chigi
inquartato
dalla
rovere,
privilegio
concesso
da
Giulio
II,
ma
Fabio,
eletto
papa
sceglierà
il
nome,
Alessandro;
su
questa
circostanza
possono
introdursi
varie
argomentazioni
probanti
ma
qui
non
vi è
tempo
per
farne
cenno.
Prima
di
concludere
questa
mia
‘mesticanza’
di
sensazioni
e
notizie,
mi
attrista
– e
ciò
lo
dico
con
sincerità
– di
non
potere
riconoscere
la
lapide
che
rinserrava
il
corpo
di
Felice
della
Rovere,
la
figlia
di
Giuliano
della
Rovere,
il
futuro
Giulio
II,
né
avere
rintracciato
documentazione
– a
parte
una
scarna
notizia
relativa
al
giorno
della
morte
–
che
desse
contezza
del
luogo
esatto
di
sepoltura,
così
ugualmente,
per
Serafino
de’Cimminelli,
il
Serafino
Aquilano,
famoso
musico
formatosi
alla
corte
di
Napoli
e
poi
entrato
nella
corte
del
cardinale
Ascanio
Sforza
e
amico
di
Agostino
Chigi,
di
cui
l’iscrizione
sepolcrale
così
ci
parlava:
PARTIR
OR
PUOI
/
SOL
D’AVER
VISTO
IL
SASSO
CHE
LO
SERRA.
L’iscrizione
ora
non
c’è
più
ma
credo
d’avere
rintracciato
quel
‘sasso’.
Grazie.
»