filosofia & religione
Il tabù deL sangue
ebraismo biblico e cristianesimo
di Andrea Filippini
“Non mangerete la carne con la sua vita,
cioè con il suo sangue”.
(Genesi 9, 3, CEI-08)
Fin dai tempi più remoti il sangue è
avvolto da un’aura di mistero e
sacralità. “In questo vermiglio brodo,
cultuale prima che culturale,
incubarono”, tra l’altro, “precetti
etici, dottrine mediche, comandamenti e
tabù” (Camporesi), il cui portato si
riflette ancor oggi nelle scelte
alimentari e mediche di milioni di
persone e in alcuni riti religiosi: il
consumo della sola carne da macellazione
kāshēr (gli ebrei) o
ḥalāl
(i musulmani), il rifiuto delle
emotrasfusioni (i Testimoni di Geova), i
penitenti che si flagellano credendo
nella expiatio per sanguinem o la
celebrazione eucaristica che prevede
l’assunzione del vino transustanziato in
sangue (i cattolici).
Nell’ebraismo biblico il tabù del
sangue, quale “interdizione o divieto
sacrale”, risale all’era antidiluviana.
Il Genesi descrive le prime
generazioni di uomini come vegetariani,
con un’alimentazione prevalentemente
fruttariana (1, 29). Nel passaggio dall’archeodieta
frugivora a quella carnivora
postdiluviana nasce il primo tabù del
sangue. Secondo la narrazione, Dio
concesse a Noè l’autorizzazione
all’uccisione degli animali a fini
alimentari con una condizione tassativa:
“Soltanto non mangerete la carne con la
sua vita, cioè con il suo sangue” (9,
3).
La ratio di questa proibizione
non è da ricercare in ragioni sanitarie
e igieniche, perlomeno non in via
prioritaria. Nonostante Agostino
pensasse che “la carne di animali morti”
senza adeguato scannamento non fosse
stata “ammessa come alimento” in quanto
“non adatta alla salute del corpo” (Contra
Faustum Manichaeum, XXXII, 13), idea
questa condivisa anche da altri
pensatori, in realtà sembra molto più
plausibile che alla base di questo
precetto risiedano convinzioni di
matrice puramente religiosa.
Nella prospettiva emocentrica
veterotestamentaria il sangue è “l’umore
vitale per eccellenza” (Cosmacini), i
termini “sangue” e “vita” sono
ontologicamente sinonimi, e la
scaturigine del tabù è divina in quanto
è Dio stesso a usare l’endiadi
sangue/vita e a dichiarare che
“domander[à] conto” degli abusi (Genesi
9, 5). Il manducare sangue o carni non
adeguatamente dissanguate, al pari dello
spargimento di sangue umano (Genesi
9, 6), rappresenta un’esecrabile
appropriazione indebita dell’essenza
della vita che appartiene al Creatore.
Il consumo di sangue è violazione della
sfera divina, un’incursione nel sacro
qualificabile come reato teologico.
La specificazione che la prescrizione
relativa al sangue sia indirizzata a Noè
e a suoi figli, i quali solo poche
pagine dopo sono visti quali capostipiti
di tutte le popolazioni del mondo (Genesi
10), consente di concludere che nella
mentalità del redattore del Pentateuco
essa possegga una valenza erga omnes,
cioè che sia rivolta a tutta l’umanità,
indistintamente.
Questo e altri sei imperativi sono
tradizionalmente considerati come
elementi fondanti di un sistema morale,
il “noachismo” (Sanhedrin, 56b),
che, precedendo la stesura della
Torah, starebbe alla base dell’etica
mondiale. Questo era l’intimo pensiero
dello scienziato teologo Isaac Newton,
il quale scrisse: «Questa Legge [di
astenersi dal sangue] era più antica de’
giorni di Moisè, essendo ella data a
Noè, ed a’ suoi Figli molto prima de’
giorni di Abraham: E perciò quando gli
Apostoli, e i Seniori nel Concilio in
Gerusalemme dichiararono che i Gentili
non fossero obbligati a farsi
circoncidere, e ad osservar le Mosaiche
Leggi, n’eccettuarono quella d’astenersi
dal sangue, e da strangolate bestie per
cibo; come Legge di Dio antica non
solamente a’ Figli d’Abraham, ma pur
anche a tutte Nazioni, mentre insieme
viveano in Shinar sotto il Dominio di
Noè: Leggi di medesima specie sono lo
astenersi dal cibar Carni di Vittime
immolate a falsi Numi, & Idoli; e dalla
Fornicazione».
L’interdizione del sangue fu
successivamente ribadita quando il
popolo d’Israele si strutturò
politicamente diventando una nazione
libera. Nel Levitico, un testo
giuridico riguardante la liturgia e il
culto, ritroviamo le stesse norme sul
sangue che avevano accompagnato gli
adoratori di Geova/Yahweh fino ad
allora. Rivolgendosi a “ogni uomo,
Israelita o straniero dimorante in mezzo
a loro” il Legislatore statuì quanto
segue: «Non mangerete sangue di alcuna
specie di essere vivente, perché il
sangue è la vita di ogni carne; chiunque
ne mangerà sarà eliminato» (17, 10-14).
Può sorprendere, ma nella concezione
ebraica il sangue aveva un valore
simbolico talmente alto che la sua
profanazione era considerata un reato
capitale.
Una breve ricerca evenemenziale su tutto
il Vecchio Testamento svela quanto la
mentalità ebraica fosse impregnata dal
tabù del sangue. Propongo due casi. Il
re Davide rifiutò di bere della semplice
acqua che i suoi uomini arditamente gli
avevano procurato, dicendo: «È il sangue
di questi uomini, che sono andati là a
rischio della loro vita!» (2 Samuele
23, 13-17)
Secoli dopo, quattro giovani nobili
ebrei esiliati a Babilonia, convocati
alla corte del re Nabucodonosor per
essere sottoposti a un triennio di
acculturamento, rifiutarono di
“contaminarsi con le vivande del re”
perché includevano carni non dissanguate
e chiesero “da mangiare verdure e da
bere acqua” (Daniele 1, 3-16).
La letteratura ebraica extrabiblica
posteriore alla redazione del Tanakh
(Bibbia ebraica) attesta il permanere
del divieto di mangiare il sangue. Tra i
ritrovamenti nelle grotte di Qumran
(1947-56) alcuni testi risalenti al II
secolo a.C. rimarcano la cultura “no
blood” del popolo ebraico. Nel
Documento di Damasco leggiamo che
“i figli di Giacobbe […] complottando
contro gli ordini di Dio e facendo
ciascuno ciò che pareva buono ai suoi
occhi; essi mangiarono il sangue e
furono recisi, nel deserto, i loro
maschi” (III, 4-7a).
Il Libro dei Giubilei,
parafrasando porzione del Pentateuco,
scrive: “Tutti coloro che mangiano il
sangue di ogni carne saranno tutti
cancellati dalla terra […] Non siate
come colui che mangia (carne) col sangue
e adoperatevi con tutte le vostre forze
affinché non mangino il sangue al vostro
cospetto. Sotterrate il sangue nella
terra perché così mi è stato comandato
di dire a voi e ai vostri figli e a
tutta l’umanità. E non mangiate l’anima
con la carne affinché, in luogo di tutti
gli esseri di carne che versano il
(loro) sangue sulla terra, non sia
richiesto il vostro sangue, che è la
vostra anima” (VII, 28, 31-32).
Quando Gesù di Nazareth salì sul
proscenio mediorientale trovò una
nazione ebraica pienamente osservante
del divieto di mangiar sangue. Giuseppe
Flavio, storico ebreo del I secolo, lo
testimoniò a chiare lettere: “A noi
interdisse completamente l’uso del
sangue come cibo, considerandolo anima e
spirito” (Antichità Giudaiche,
III, 2, 260). I primi discenti del
Nazareno, tutti ebrei praticanti, non
mangiavano sangue o carne non kāshēr.
Attorno alla metà del I secolo, quando
le file del cristianesimo si stavano
viepiù arricchendo di convertiti
gentili, alla dirigenza gerosolimitana
del movimento si presentò una sfida
dirimente: questi neofiti erano tenuti
all’osservanza della legge mosaica, ivi
compresa la proibizione del sangue?
Il Nuovo Testamento tratteggia l’annosa
e vivace diatriba che contrappose i
giudeocristiani agli etnocristiani. La
soluzione formale individuata,
certamente compromissoria rispetto alle
posizioni di partenza, è sintetizzata
nella pericope del Concilio di
Gerusalemme (Atti degli Apostoli
15, 4-29). Considerata l’evidenza della
benedizione divina sui neoconvertiti
pagani, venne realizzato che l’essere
cristiani prescindesse dall’applicazione
dei precetti mosaici tranne che per
quattro capisaldi, riferibili comunque
all’etica noachide: “Astenersi dalle
carni offerte agli idoli, dal sangue,
dagli animali soffocati e dalle unioni
illegittime” (15, 29). La delibera
conciliare reputa questi divieti un
“obbligo” per tutti i cristiani e li
valuta come “cose necessarie” (15, 28).
Le testimonianze disponibili ci rendono
edotti del fatto che i cristiani dei
primi secoli presero questi precetti
molto seriamente. Sul finire del II
secolo, l’apologista Tertulliano asserì
che i cristiani “non consider[avano] il
sangue degli animali neppure come cibo
ammesso nei pranzi, e per questa ragione
[s]i asten[evano] dagli animali uccisi
per soffocamento o morti naturalmente,
per non essere in alcun modo contaminati
dal sangue, anche se giace sepolto tra
le viscere”, e aggiunse: “Per torturare
i cristiani, voi presentate loro delle
salsicce ripiene di sangue, ben sapendo
che quei cibi non sono loro permessi, e
che è questo un mezzo sicuro per farli
deviare dalla loro fede. Come potete mai
credere bevano sangue umano coloro che
siete ben persuasi abbiamo orrore di
quello degli animali, a meno che, per
caso, voi non abbiate fatto l’esperienza
che esso è più gradevole?” (Apologeticum,
IX, 13-14).
Analogamente Minucio Felice, riferendo
il punto di vista cristiano sul tabù del
sangue, annotò: “Ci guardiamo dal sangue
umano al punto di non ammettere
nell’alimentazione neppure il sangue
degli animali commestibili” (Octavius,
XXX, 6). Tra gli scrittori cristiani del
II-IV secolo che manifestarono la
consapevolezza della base vetero e
neotestamentaria del divieto di mangiar
sangue e che ne riconobbero l’attualità,
annoveriamo, tra gli altri: Clemente
Alessandrino (Paedagogus, II, 1;
II, 7), Clemente Romano (Homiliae,
VII, 4, 8; Recognitiones, IV,
36), Origene (Contra Celsum, VIII,
29-30), Eusebio di Cesarea (Historia
Ecclesiastica, V, 1, 26), Giovanni
Crisostomo (Acta Apostolorum.
Homilia, XXXIII).
Con il trascorrere del tempo la
divaricazione tra la dottrina ufficiale
e la prassi reale seguita dalla massa
laica si accentuò, e gradualmente il
consumo di sangue nell’alimentazione
divenne consueto, accettato e
giustificato. Come suaccennato,
all’inizio del V secolo, scrivendo a
proposito della ratio della
proibizione apostolica del sangue (Atti
15), Agostino d’Ippona argomentò a
favore della sua desuetudine e
obsolescenza (Contra Faustum Manichaeum,
XXXII, 13; Epistula, LXXXII, 2,
9).
Il divieto del sangue, tuttavia, rimase
in vigore nella cristianità ancora per
lungo tempo. Il Concilio di Gangra (340
d.C.), introdusse una “condanna con
anatema” a “coloro che proibi[vano] di
mangiare la carne anche quando ven[ivano]
rispettate le direttive impartite dal
concilio apostolico di Gerusalemme”
(can. 2). Qualche decennio dopo, un
“canone apostolico” incluso tra le
Constitutiones Apostolorum stabilì
che “se qualche vescovo, presbitero o
diacono, o in effetti chiunque della
lista sacerdotale, [avesse] mangia[to]
carne con il sangue della sua vita, o
ciò che è strappato dalle bestie o che è
morto da solo, [sarebbe stato]
degradato; poiché questo è vietato dalla
legge stessa” (can. 63).
Le Novellae Constitutiones
dell’imperatore Leone Augusto (floruit
457-474) stabilirono delle sanzioni
penali per i trasgressori della
proibizione cristiana del sangue: “La
prescrizione fatta da Dio a Mosè di non
cibarsi di sangue fu ripetuta dagli
Apostoli. […] Quegli che facesse un cibo
del sangue, sia comperandolo, sia
vendendolo, sarà assoggettato alla
confisca dei beni, alle percosse, a
essere raso fino alla cute e
perpetuamente esiliato dalla patria”
(cost. 58).
Nella prima età medievale, l’attualità
del divieto del sangue venne sostenuta
sia al Concilio Aureliano II di Orlèans
del 533 (cann. 19-20) che durante il
Concilio Trullano del 692: “La divina
Scrittura ci comanda di astenerci dal
sangue, dalle cose strangolate e
dall’immoralità sessuale. Noi, quindi,
puniamo adeguatamente quelli che, con il
pretesto di uno stomaco delicato,
preparano in qualsivoglia maniera il
sangue di qualsiasi animale come cibo e
lo mangiano. Se da ora in poi qualcuno
s’avventura a mangiare in alcun modo il
sangue di un animale, se è un
ecclesiastico, sia deposto; se è laico,
sia scomunicato” (can. 67).
Tra parentesi, in questo stesso periodo
Maometto incorporò il tabù del sangue
tra le norme dell’Islam. Esprimendosi in
modo del tutto simile alla Bibbia, il
Profeta sentenziò: “Dio vi ha proibito
gli animali morti da sé, il sangue, la
carne del maiale e ogni altro animale su
cui sia stato invocato altro nome che
quello di Dio” (Corano, II, 168;
vedi anche V, 4; VI, 146; XVI, 116).
Alla fine del secolo VIII, papa Adriano
I redarguì i vescovi spagnoli perché
“alcuni di [loro] insegna[va]no che chi
non mangia sangue di bestiame o porco, o
animali soffocati, è rustico o
ignorante”. Il pontefice puntualizzò
piccatamente: “Noi, al contrario
insegniamo che se qualcuno sorbisce
sangue di bestiame o di porco, o animali
soffocati, non solo è estraneo a ogni
sapere ma è fuori dell’intelligenza
comune, incatenato dal legame della
scomunica, e in procinto di cadere nella
rete del demonio” (Lettera ai vescovi
spagnoli, PL 98, 373-386).
Nei libri penitenziali (VII-XI secolo),
fonti normative cattoliche d’ambiente
monastico europeo, “il sangue è elemento
ricorrente nei divieti e ragione di
molti di essi” (Muzzarelli).
L’indicazione frequente è quella di non
mangiare la carne di animali non
scannati a motivo della presenza del
sangue. “Nel caso di […] uccelli o altri
animali strangolatisi in una rete, non è
lecito mangiarli o consumarli perché
così è comandato negli Atti degli
Apostoli: Astenetevi da ciò che è
strangolato e dal sangue e dalle cose
immolate agli idoli” (Poenitentiale
Valicellanum, I, 97; vedi anche
Capitula Dacheriana, c. 168,
Canones Gregorii, c. 143,
Poenitentiale Theodori, I, XI, 2,
Confessionale Pseudo-Ecgberti, c.
38, Poenitentiale Merseburgense,
c. 119, Poenitentiale Cummeani,
I, 21). Il richiamo agli Atti degli
Apostoli (15, 20.29) intende
invocare il supporto di una legittima
auctoritas per dissuadere i
recalcitranti.
Nel 1053 il patriarca greco Michele
Cerulario rimbrottò un vescovo latino
per il mancato rispetto del divieto del
sangue tra cristiani della sua diocesi
con queste parole: “Voi siete a metà
pagani, poiché mangiate animali
soffocati, nei quali si trova ancora il
sangue. Non sapete che l’anima è nel
sangue, e per conseguenza chi mangia il
sangue di un’animale mangia anche la sua
anima?” (Lettera al vescovo di Trani).
Dobbiamo arrivare al 1442 per
riscontrare un radicale cambiamento
ufficiale della posizione cattolica.
“[La chiesa] afferma che la differenza
tra cibi puri e impuri della legge
mosaica deve considerarsi cerimoniale e
che col sopravvenire del Vangelo è
passata e ha perso efficacia. Anche la
proibizione degli apostoli delle cose
immolate ai simulacri, del sangue e
delle carni soffocate era adatta al
tempo in cui dai giudei e gentili, che
prima vivevano praticando diversi riti e
secondo diversi costumi, sorgeva una
sola chiesa […] Ma quando la religione
cristiana si fu talmente affermata da
non esservi più in essa alcun Giudeo
carnale […] venne meno la causa di
quella proibizione, e perciò anche
l’effetto. Essa dichiara, quindi, che
nessun genere di cibo in uso tra gli
uomini deve essere condannato, e che
nessuno, uomo o donna, deve far
differenza di animali, qualunque sia il
genere di morte che abbiano incontrato,
quantunque per riguardo alla salute del
corpo, per l’esercizio della virtù, per
la disciplina regolare ed ecclesiastica,
molte cose, anche se permesse, possano e
debbano non mangiarsi” (Concilio di
Firenze, sessione XI).
Ciononostante in età moderna molti
ecclesiastici e uomini di cultura
rimarcarono nei loro scritti la
consapevolezza della presenza nella
Bibbia di una proibizione cogente
riguardante il sangue. Il cardinal
Baronio (XVI secolo) riconobbe che “il
precetto di astenersi dalla carne con il
sangue, che Giacomo aggiunse, fu imposto
da Dio non solamente ai Giudei ma a
tutte le genti subito dopo l’uscita di
Noè dall’arca”.
Nel 1781 il gesuita Alfonso Niccolai
sintetizzò così la storia del tabù del
sangue nel cristianesimo: “Dalle quali
parole manifesto appare, che nella più
parte delle Chiese latine e occidentali
l’astinenza dal sangue non osservavasi
più all’età d’Agostino. Contuttociò i
Greci e le Chiese orientali o per
l’inveterata consuetudine, o per
riverenza dell’apostolica autorità
furono più tenaci di tale osservanza: in
favor della quale vi sono canoni del
Concilj de’ primi sette o otto secoli, e
la tradizione insino all’undecimo.
Tertulliano, Atenagora, Minuzio Felice,
S. Giustino, e S. Biblida, che patì il
martirio l’anno di Cristo 179. per
difendere i Cristiani dalla falsa accusa
data lor da’ pagani, che scannassero i
bambini, e ne bevessero il sangue,
rispondevano esser tanto lontani da
questo delitto i Cristiani, che neppur
lecito si facevano di gustare il sangue
de’ bruti. I canoni degli antichi
Concilj posson vedersi nella
Dissertazione di Natale Alessandro sopra
questa materia. A troppo s’impegna il
Macri pretendendo, che i Greci abbiano
intrusi que’ canoni ne’ detti Concilj,
ed anche la parola suffocato negli Atti
apostolici. Bastar dovrebbe l’autorità
di Girolamo, il quale apertamente
attesta, che al suo tempo da tutte le
Chiese orientali e anche dalla Romana
santamente era osservato il costume
d’astenersi dal sangue e dal soffocato.
Mossi da queste autorità alcuni moderni,
e tragli altri il Grozio, il Salmasio,
Gherardo Vossio, e lo Stackhouse han
creduto, che la legge di tale astinenza
abbia tuttora il suo vigore, e obblighi
tutti i Cristiani”.
Nel contesto storico della prima
sperimentazione delle trasfusioni di
sangue umano, l’anatomista Thomas
Bartholin nel 1676 dichiarò: “Coloro che
sostengono si debba usare sangue umano
come rimedio interno per le malattie
evidentemente ne abusano e peccano in
modo grave. I cannibali sono condannati.
Non aborriamo forse coloro che bevono
sangue umano? […] È una cosa simile
ricevere, o per bocca o con strumenti
atti a trasfonderlo, sangue altrui da
una vena incisa. Chi compie questa
operazione vive nel terrore della legge
divina, secondo la quale è proibito
mangiare sangue” (De
sanguinis abusu disputatio,
parr. 4-5).
L’indagine qui abbozzata consente di
spiegare sufficientemente perché il
sangue – l’organo liquido che sorregge
la vita animale e umana – continua a
generare una riverenza speciale tra le
genti della Christianitas e nel mondo
semitico. In sintesi, nelle religioni
monoteiste – ebraismo, cristianesimo,
islamismo – “il sangue è qualcosa di
sacro; appartiene a Dio” e, secondo il
dettato biblico, dovrebbe essere
“assolutamente vietato che l’uomo se ne
serva di cibo oppure in qualsiasi altra
maniera” (Penna).
La nostra cultura è così intimamente
plasmata dalle Sacre Scritture che
l’influsso del tabù del sangue sulle
scelte alimentari, pratiche cultuali e
mediche di milioni di persone non
dovrebbe meravigliarci.
Riferimenti bibliografici:
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