N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
PICCOLA EREDITÀ NORMANNA NELLA NEAPOLIS DI SIRACUSA
la
CHIESA DI SAN NICOLÒ AI CORDARI
di Federica Campanelli
Nell’area della Neapolis di Siracusa, antico nucleo della Pentapolis greca, sorge una chiesa di modeste dimensioni situata nei pressi dell’Anfiteatro Romano e dell’Ara di Ierone II. Per quanto rappresenti l’ingresso al parco archeologico, pochi si soffermano su questo piccolo edificio cristiano, intitolato originariamente a San Nicolò di Mira e conosciuto dal 1557 come San Nicolò ai Cordari. La sua costruzione si fa risalire alla seconda metà del secolo XI, quando all’ascesa dei Normanni di Ruggero d’Altavilla – superato perlomeno politicamente l’importante capitolo del dominio arabo in Sicilia – seguì un periodo di rinascimento cristiano.
Con
la
morte
dell’ultimo
emiro
della
città
araba,
Ibn
‘Abbād
(Benavert),
avvenuta
il
25
maggio
1086
durante
l’assedio
di
Ruggero,
Siracusa
si
arrese
ai
Normanni.
Iniziò
quindi
una
fase
sia
di
costruzioni
ex
novo,
sia
di
ripristino
di
edifici
sacri,
e in
qualche
caso
si
procedette
anche
al
riuso
di
precedenti
opere
architettoniche
del
tutto
estranee
al
Cristianesimo.
I
casi
più
celebri
riguardano
gli
antichi
templi
dorici
di
Apollo
e di
Athena,
entrambi
passati
al
culto
cristiano
contestualmente
all’Impero
Bizantino,
convertiti
in
moschee
durante
l’Emirato
e
infine
riconsegnate
al
Cristianesimo
da
Ruggero
I.
San
Nicolò,
caratterizzata
da
austera
semplicità,
gode
di
buona
conservazione
e
leggibilità:
l’edificio,
a
singola
navata,
ha
pianta
rettangolare
di
16 x
8
metri
circa,
possiede
un
portale
laterale
(a
quello
frontale
è
stato
addossato
un
fabbricato
moderno)
e ha
un’abside
semicircolare
con
tre
strette
feritoie
a
chiudere
l’estremità
Est.
L’interno
è
privo
di
decorazioni,
tranne
che
per
un
semplice
arco
trionfale
a
pieno
centro.
La
chiesa
è
più
volte
menzionata
anche
per
aver
ospitato
nel
1092
le
esequie
di
Giordano
d’Altavilla,
figlio
illegittimo
e
potenziale
erede
di
Ruggero
(con
il
quale
condivise
numerose
imprese
militari
nella
conquista
dei
territori
saraceni
in
Italia
meridionale).
Giordano
morì
all’età
di
32
anni
a
Siracusa,
dopo
averne
ottenuto
la
signoria
assieme
a
quella
della
città
di
Noto.
Il
Basso
Medioevo
segnò
per
l’edificio
normanno
una
prima
fase
di
declino
e
abbandono
che
ne
causarono
presto
la
sconsacrazione.
Carestie
ed
epidemie
stavano
infatti
decimando
la
popolazione
siracusana,
che,
dopo
esser
stata
ridotta
sensibilmente,
si
ritrovò
a
occupare
il
solo
territorio
dell’isola
di
Ortigia.
La
peste
viaggiava
per
mare
tramite
le
principali
rotte
commerciali,
s’insediava
nei
principali
centri
portuali
del
Mediterraneo
e
penetrava
nelle
città
di
tutta
Europa,
stringendo
il
Continente
nella
sua
morsa
mortale.
Tristemente
noto
è il
caso
di
pestilenza
che
piegò
l’Occidente
nel
XIV
secolo
a
seguito
del
contatto,
avvenuto
nel
1347,
tra
le
navi
mercantili
genovesi
di
Caffa,
colonia
della
Repubblica
genovese
in
Crimea
–
allora
assediata
dal
khan
mongolo
Djanisberg,
il
quale
coadiuvò
lo
scoppio
della
pestilenza
per
farne
un’arma
biologica
– e
gli
abitanti
di
Messina.
Di
lì a
pochi
giorni
la
peste
nera
raggiunse
la
città
aretusea,
i
territori
limitrofi
e
l’area
del
trapanese.
Così
scrisse
dell’episodio
il
cronista
siciliano
conosciuto
come
Michele
da
Piazza
nella
sua
Historia
Sicula
(XIV
secolo):
“Accadde
che,
nell’ottobre
dell’anno
dell’Incarnazione
del
Signore
1347,
verso
l’inizio
del
mese
di
ottobre,
prima
indizione,
dei
genovesi,
su
dodici
galere,
fuggendo
la
collera
divina
che
si
era
abbattuta
su
di
loro
a
causa
della
loro
iniquità,
accostarono
al
porto
della
città
di
Messina
[...]
La
gente
di
Messina,
dunque
si
disperse
per
l’intera
isola
di
Sicilia,
e
quando
arrivò
nella
città
di
Siracusa,
quel
male
colpì
così
forte
i
siracusani
che
ne
uccise
molti,
o
piuttosto
un
numero
immenso.
La
città
di
Sciacca,
la
città
di
Trapani,
la
città
di
Agrigento
furono
colpite
come
Messina
da
quella
stessa
peste”.
La
chiesa
di
San
Nicolò
di
Mira
– di
nuovo
attiva
a
partire
dal
XVI
– si
trova
a
Sud-Est
delle
latomie,
un
imponente
e
affascinante
complesso
di
cavità
rocciose
di
origine
antropica.
Risalenti
alla
Siracusa
greca,
queste
furono
ottenute
nel
declivio
del
colle
Temenite.
Il
complesso
comprende
la
più
celebre
Latomia
del
Paradiso,
quella
della
Intagliatella
e la
Latomia
di
Santa
Venera.
Queste
subirono
peraltro,
nel
corso
dei
secoli,
più
e
più
modifiche
in
termini
di
destinazione
d’uso:
cave
di
pietra,
carceri
inespugnabili
e
finanche
stabilimenti
per
i “cordari”,
che
qui
trovarono
le
condizioni
microclimatiche
più
adatte
per
la
lavorazione
della
canapa
e la
produzione
di
corde.
Gli
operai
predisposero
il
loro
stabilimento
all’interno
di
una
grotta
delle
Latomie
del
Paradiso,
la
cosiddetta
Grotta
dei
Cordari,
un
antro
che
conserva
ancora
oggi
alte
colonne
di
sostegno
ottenute
per
escavazione
in
tempi
remoti.
Quale
sede
lavorativa
degli
artigiani
citati,
San
Nicolò
passò
ufficialmente
alla
corporazione
dei
Cordari,
da
cui
la
rinnovata
denominazione
della
chiesa.
Dalla
metà
del
XVII
secolo
una
nuova
ondata
di
peste
e
carestia
causò
un
sensibile
depotenziamento
demografico
dell’Isola,
dove
anche
Siracusa
subì
notevoli
perdite
e
crollo
delle
nascite.
Intorno
agli
anni
’70
San
Nicolò,
ancora
una
volta
abbandonata,
fu
quindi
adibita
a
fossa
comune,
sfruttandone
i
sotterranei.
È
proprio
nei
sotterranei
che
ha
davvero
inizio
la
lunga
storia
della
chiesa.
A
cinque
metri
dal
piano
di
calpestio
si
trova
infatti
il
suo
elemento
forse
più
interessante:
la
Piscina
Romana,
che
si
presenta
come
un
locale
rettangolare
orientato
Nord-Sud
e
con
andamento
perpendicolare
alla
chiesa
sovrastante.
L’ambiente
misura
20 x
7
metri
circa,
con
i
lati
maggiori
ricavati
direttamente
dalla
roccia
–
tramite
tecniche
d’escavazione
simili
a
quelle
adoperate
per
le
latomie
– e
con
le
pareti
minori
realizzate
invece
con
blocchi
di
pietra
messi
in
opera
a
secco.
L’aula
è
ripartita
in
tre
navate
attraverso
due
file
di
pilastri
quadrangolari,
a
sostegno
della
copertura
a
botte.
Tale
struttura
rappresentava
la
cisterna
di
raccolta
d’acqua
utile
al
rifornimento
per
le
naumachie
che
si
svolgevano
nel
vicino
anfiteatro
e
costituisce
il
più
importante
testimone
della
Siracusa
romana
(dell’età
augustea
o
del
periodo
immediatamente
successivo).
La
sorgente
di
alimentazione
del
serbatoio
è
verosimilmente
da
identificare
in
una
diramazione
dell’acquedotto
greco
detto
Galermi
o da
quello
definito
del
Ninfeo,
entrambi
terminanti
nella
grotta
del
Ninfeo,
posta
nella
parte
sommitale
della
cavea
del
Teatro
Greco.
Probabile,
infine,
che
la
cisterna
romana
sia
stata
adoperata
come
basilica
nei
secoli
della
dominazione
bizantina
dell’isola,
iniziata
nel
535
con
la
spedizione
del
generale
Belisario.
Fu
questa
una
fase
assai
rilevante
nella
storia
di
Siracusa,
che
sotto
il
governo
dell’imperatore
Costante
II
rivestì
il
ruolo
di
capitale
dell’Impero
Bizantino
tra
il
663
e il
668.