N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
SAN
BASILIO
E IL
MONACHESIMO
Un
ideale
che
abbraccia
Oriente
e
Occidente
di
Valerio
Acri
Padre
e
Dottore
della
Chiesa,
unanimemente
riconosciuto
come
un
pilastro
del
pensiero
cristiano,
San
Basilio
Magno
è
una
figura
emblematica
per
tracciare
un
immaginario
cammino
sulle
orme
dell’eredità
tardo-antica
dell’odierna
Turchia,
dove
egli
visse,
predicò
e
morì.
La
Cesarea
di
Cappadocia
che
gli
diede
i
natali
nel
329
è
oggi
Kaysari,
un
comune
metropolitano
di
oltre
un
milione
di
abitanti,
capoluogo
dell’omonima
provincia
dell’Anatolia
Centrale.
Il
nome
è un
retaggio
dell’epoca
romana,
così
come
per
la
Cesarea
Marittima
in
Palestina
citata
più
volte
negli
Atti
degli
Apostoli.
Fu
un
centro
di
grande
importanza
nel
periodo
di
massimo
splendore
dell’Impero
bizantino,
dopo
la
morte
di
Giustiniano
e le
prime
incursioni
arabe
ospitò
una
colonia
di
Armeni
prima
di
essere
conquistata
dai
Selgiuchidi
e
divenire
definitivamente
parte
dell’Impero
Ottomano
circa
mezzo
secolo
più
tardi
della
presa
di
Costantinopoli
del
1453.
Il
giovane
Basilio
abbandonò
in
realtà
Cesarea
per
molti
anni,
dapprima
per
proseguire
gli
studi
ad
Atene
quindi
in
seguito
perché
attratto
dalla
vita
ascetica
degli
anacoreti
d’Egitto,
Siria
e
Mesopotamia.
In
questo
senso,
la
sua
figura
consente
di
risalire
alle
origini
del
monachesimo,
un
fenomeno
che
nasce
di
fatto
in
Oriente
e
sul
quale,
riferendoci
soprattutto
all’età
bizantina,
possediamo
un’ampia
documentazione
storiografica.
Dalle
biografie
di
santi
monaci
alle
epistole
e ai
sermoni,
passando
per
canoni
disciplinari
ed
editti
imperiali,
è
possibile
affermare
che
la
condizione
monastica
sia
stata
abbondantemente
attestata
in
forma
scritta
fin
dai
tempi
degli
anacoreti
del
IV
secolo.
In
realtà,
l’anachoresis,
ovvero
la
fuga
e
l’abbandono
del
villaggio,
può
essere
considerato
un
fenomeno
ricorrente
a
partire
già
dal
I
secolo
e
ascrivibile
perlopiù
a
coloro
che,
impoveriti,
non
erano
in
grado
di
pagare
le
tasse.
Consultando
La
vita
di
Antonio,
considerato
il
padre
del
monachesimo,
possiamo
attestare
attorno
al
270
l’inizio
delle
sue
intraprese
spirituali
dopo
essersi
volontariamente
liberato
delle
proprietà
di
agiato
agricoltore.
Quando,
meno
di
cento
anni
più
tardi,
Basilio
fu
tratto
alla
vita
monastica
dall’esempio
della
devozione
di
madre
e
sorella,
il
monachesimo
aveva
raggiunto
l’Occidente
diffondendosi
in
molte
parti
del
mondo
romano
e
poteva
contare
seguaci
nell’ordine
delle
decine
di
migliaia.
È
possibile
affermare
che
i
viaggi
intrapresi
in
Egitto,
Siria
e
Mesopotamia
consentirono
a
San
Basilio
di
osservare
vari
tipi
di
ascesi
e
scegliere
quello
più
adatto.
In
quel
momento
il
monachesimo
aveva
già
assunto
le
due
forme
che
sarebbero
divenute
classiche,
persistendo
lungo
tutto
il
periodo
bizantino,
ovvero
quello
eremitico
e
quello
comunitario.
La
forma
comunitaria,
detta
cenobitica,
venne
fondata
in
Egitto
da
un
contemporaneo
di
Antonio,
di
poco
più
giovane,
di
nome
Pacomio.
Dopo
aver
prestato
servizio
militare
nell’esercito
imperiale
e
aver
fatto
apprendistato
presso
un
eremita,
Pacomio
optò
per
un
adattamento
della
vita
monastica
al
modello
militare.
Il
suo
istituto
di
Tabennesi
–
sulla
riva
destra
del
Nilo,
nell’antica
regione
della
Tebaide
–
era
stato
concepito
tale
a
campo
murato,
nettamente
diviso
in
“convitti”,
ciascuno
sotto
un
ufficiale
comandante.
I
monaci
venivano
raggruppati
nelle
diverse
case
a
seconda
delle
loro
occupazioni
o
dei
loro
mestieri
e
molto
tempo
veniva
impiegato
in
attività
manuali;
in
comune
era
il
lavoro,
il
culto,
il
desinare.
Particolare
accento
era
posto
sull’obbedienza:
i
monaci
comuni
erano
sottoposti
al
capo
della
loro
casa
che
a
sua
volta
riferiva
all’abate.
A
nessuno
era
concesso
disporre
di
proprietà
alcuna
se
non
di
un
pagliericcio
per
dormire,
due
vesti
senza
maniche,
una
cocolla
e
poche
altre
cose
di
prima
necessità.
La
Regola
pacomiana
esercitò
un
notevole
influsso
sul
giovane
Basilio
che
ammirò
in
realtà
anche
l’anacoresi
alla
maniera
di
Antonio,
ritenendola
però
penalizzata
dal
non
concedere
spazio
per
la
carità
fraterna.
L’isolamento
eremitico
di
Antonio
precludeva
inoltre
ogni
possibilità
di
correzione
per
via
di
esempio
o di
consiglio
e fu
soprattutto
per
questo
che
Basilio
abbracciò
il
cenobitismo.
La
comunità
che
fondò
sulle
rive
del
fiume
Iris
(l’odierno
Yesil)
nei
pressi
di
Annesi
nel
Ponto
–
nell’allora
provincia
romana
della
Bitinia
oggi
corrispondente
alla
città
di
Amasya
nel
nord
della
Turchia
–
era
un
cenobio
di
proporzioni
più
modeste
rispetto
ai
convitti
pacomiani
che
finirono
per
accogliere
oltre
un
migliaio
di
inquilini.
Basilio
li
riteneva
troppo
grandi
per
consentire
una
supervisione
adeguata
e le
dimensioni
ridotte
divennero
di
lì
in
avanti
la
norma
per
i
monasteri
cenobitici
lungo
tutto
il
periodo
bizantino.
Prima
di
raggiungere
anche
Costantinopoli,
però,
il
monachesimo
dovette
superare
un
periodo
di
aperto
contrasto
con
la
Chiesa
dal
momento
che
il
monaco,
da
Sant’Antonio
in
avanti,
fu
di
fatto
un
cristiano
laico
che
invocava
non
la
possibilità
ma
la
necessità
di
ricercare
la
salvezza
senza
alcun
ricorso
al
ministero
clericale,
alla
liturgìa,
ai
Sacramenti.
In
questo
senso,
l’opera
di
San
Basilio
è
universalmente
riconosciuta
di
fondamentale
importanza
proprio
per
aver
consentito
la
composizione
di
una
frattura
la
cui
evidenza
è
stata
messa
in
luce
dai
Canoni
del
Concilio
di
Gangra.
Identificabile
con
l’odierna
città
di
Cankiri,
capoluogo
dell’omonima
provincia
turca
a
nord-ovest
di
Ankara,
Gangra
ospitò
(intorno
al
340)
un
sinodo
ecclesiastico
per
discutere
le
pratiche
di
un
certo
Eustazio
di
Sebaste
che
aveva
acquisito
considerevole
seguito
con
la
sua
comunità
di
monaci.
Secondo
i
canoni
promulgati
dal
Concilio,
al
quale
probabilmente
prese
parte
anche
Gregorio
Nazianzeno,
la
vita
monastica
di
Eustazio
poggiava
soprattutto
sul
rifiuto
del
Matrimonio
nella
convinzione
che
lo
stato
coniugale
fosse
un
impedimento
al
raggiungimento
della
salvezza
eterna.
I
vescovi
riunitisi
a
Gangra
condannarono
Eustazio
(che
non
fu
tuttavia
bollato
come
eretico)
e
ciò
rappresentò
il
momento
di
massima
avversione
della
Chiesa
al
monachesimo.
Fu
Basilio
a
comprendere
a
quel
punto
la
necessità
di
regolamentare
la
vita
monastica
e di
porla
in
armonia
con
la
vita
ecclesiale.
Più
in
generale
egli
capì
l’importanza
di
ridefinire,
a
pochi
anni
dall’affermazione
del
Cristianesimo
come
credo
ufficiale
dell’Impero,
il
significato,
i
fini
e i
mezzi
di
una
vita
che
potesse
definirsi
cristiana.
In
questo
senso
è
paragonabile
a
Basilio
solamente
Atanasio
di
Alessandria,
suo
contemporaneo
e
anch’egli
Padre
e
Dottore
della
Chiesa,
al
quale
è
comunemente
attribuita
l’opera
“La
vita
di
Antonio”.
Il
libro
è
una
sorta
di
lettera
inviata
ai
monaci
d’Occidente
perché
potessero
imitare
l’ideale
monastico
comprendendone
a
fondo
le
ragioni.
Un
invito
a
interrogarsi
giudiziosamente
su
cosa
facesse
di
una
persona
il
cristiano
perfetto,
su
come
si
potesse
seguire
alla
lettera
la
disposizione
evangelica
“Vendi
ciò
che
possiedi
e
avrai
un
tesoro
nei
cieli”,
su
come
ci
si
potesse
allineare
alla
semplicità
dei
tempi
apostolici
quando
“tutti
i
credenti
erano
insieme
e
tutto
ciò
che
avevano
era
in
comune;
e
vendevano
i
loro
possessi
e i
loro
beni
e ne
distribuivano
il
prezzo
tra
tutti”
(Atti
2,44
sg.).
Attraverso
opere
come
La
Vita
di
Antonio
o
come
le
Regole
Morali
di
San
Basilio
fu
possibile
anche
per
la
Chiesa
comprendere
che
l’askesis
del
monaco
era
quella
richiesta
dal
Vangelo
e
che,
in
termini
ideali,
ogni
cristiano
potesse
tendere
alla
vita
quale
era
stata
quella
dei
primi
fedeli
intorno
al
Cristo
e
agli
Apostoli.
Al
punto
che
il
Pontefice
Gregorio
Magno,
nel
593,
inviò
una
protesta
ufficiale
all’Imperatore
Maurizio
per
aver
promulgato
un
editto
con
il
quale
si
proibiva
a
tutte
le
persone
soggette
al
servizio
militare
di
diventare
monaci.
In
un
mondo
in
cui
i
monasteri
erano
ormai
presenti
da
secoli,
Gregorio
si
richiamava
alla
convinzione
diffusa
che
con
essi
fosse
in
gioco
un
certo
stile
di
vita
cristiana.
Prima
di
lui
la
Regola
Basiliana
aveva
fatto
germogliare,
negli
anni
bui
del
declino
e
della
caduta
dell’Impero,
presidi
di
libertà
spirituale
negli
angoli
più
incolti
d’Europa,
attraverso
le
comunità
fondate
da
San
Martino
di
Tours,
San
Cesario
di
Arles
e
San
Benedetto
da
Norcia,
in
rigoroso
ordine
cronologico
e
solo
per
citarne
alcuni.
Basilio
può
così
essere
considerato
il
rappresentante
di
quella
Cristianità
romana
d’Oriente
dal
cui
alveo
verrà
trasmesso
un
ideale
di
vita
ascetica
capace
di
unire
il
mondo
cattolico
e
quello
ortodosso
e,
in
una
prospettiva
più
laica,
in
grado
ancora
oggi
di
suscitare
una
morale
valida
per
il
pensiero
occidentale
moderno
investito
dalla
razionalizzazione.
Un
modello
di
perfezione
che
aveva
i
suoi
capisaldi
nella
comunione
dei
beni,
nella
rinuncia
dell’individuo
a
ogni
ricchezza,
nell’amore
fraterno,
nell’assistenza
reciproca
e
nella
preghiera
comune.
Riferimenti
bibliografici:
Cyril
Mango,
La
civilità
bizantina,
edizione
italiana
curata
da
Paolo
Cesaretti,
Laterza,
Bari
1991.
Paolo
Rumiz,
Il
filo
infinito,
Feltrinelli,
Milano
2019.