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N. 146 - Febbraio 2020 (CLXXVII)

SAMUEL TAYLOR COLERIDGE

Tra oppio, mondi fantastici e realtà

di Giovanna D’Arbitrio

 

William Hazzlit così definì la genialità di Samuel Taylor Coleridge: ”Poesia e filosofia si erano incontrate insieme. Verità e Genio si erano abbracciati, sotto l’occhio e con la sanzione della religione”. Poeta, filosofo, critico letterario, giornalista, in effetti la sua ampia cultura spaziò in vari campi dello scibile umano.

 

Samuel Taylor Coleridge nacque nel 1772 a Ottery St Mary, nel Devon, dal vicario John Coleridge e da Anne Bowden. Dopo la morte del padre, a soli nove anni, fu iscritto alla Christ’s Hospital School, a Londra, dove iniziò a studiare i grandi classici e a comporre versi in greco, latino e inglese. Vinse poi una borsa di studio per il Jesus College, a Cambridge, ma mal tollerando l’ambiente accademico, lasciò l’università e si arruolò nei I Dragoni del Re sotto il falso nome di Silas Tomkyn Comberbacke: inadatto alla carriera militare, fece ritorno a Cambridge dove però non riuscì a conseguire un titolo di studi.

 

Quando conobbe il poeta Robert Southey progettò di fondare con lui un’utopica società, la pantisocrazia, in cui “dodici gentiluomini di buona educazione e di principî liberali avrebbero dovuto imbarcarsi con dodici dame, per fondare una comunità ideale nelle selvagge foreste della Pennsylvania e poi nel Galles”.

 

Il progetto fu abbandonato per la rinuncia di Southey e ciò generò tra loro una rottura, benché Coleridge ne avesse sposato la cognata, Sarah Fricker dalla quale ebbe quattro figli. Dopo alcuni anni decise di trasferirsi nel Somerset dove nel 1797 iniziò a frequentare William Wordsworth con il quale scrisse The Lyrical Ballads (1798), raccolta di poesie che divennero il Manifesto del Romanticismo inglese.

 

Nel 1798 partì con Wordsworth per la Germania dove fu affascinato dai filosofi dell’Idealismo tedesco. Cercò poi di superare l’agnosticismo kantiano con idee mistiche e neoplatoniche che lo indussero a definire l’universo come “one wonderous Whole, pervaded by one Mind, one omnipresent Mind, omnific, whose most holy name is Love”.

 

Ritornò poi in Inghilterra e dopo aver tentato una carriera giornalistica al Morning Post, decise di trasferirsi con la famiglia a Keswick, nel Lake District, a poca distanza dall’abitazione di Wordsworth a Grasmere. Purtroppo l’umidità del clima accentuarono le febbri e forti dolori reumatici che lo resero sempre più dipendente dall’oppio. Coleridge intraprese un viaggio di tre anni (1804-1806) e visitò Malta, la Sicilia, Napoli e Roma, nella speranza che il clima più mite potesse giovare alla sua salute: purtroppo questa non migliorò, mentre cresceva invece la dipendenza dall’oppio.

 

Nel 1808 il poeta si separò dalla moglie e litigò anche con il suo amico Wordsworth per un malinteso, ma malgrado ciò cercò di impegnarsi in un altro giornale The Friend la cui pubblicazione fu sospesa dopo 27 numeri.

 

Fra il 1810 e il 1820 Coleridge tenne conferenze a Londra e Bristol su Shakespeare e Milton che ebbero grande successo, ammirate anche da Lord Byron, dal filosofo anarchico William Godwin, da sua figlia Mary, nota scrittrice e moglie di Percy Bysshe Shelley, e da John Keats. Mary Shelley racconta che Coleridge recitò per lei la Ballata del vecchio marinaio.

 

Nel 1816 su suggerimento di Byron, pubblicò Kubla Khan e Christabel. Nello stesso anno si stabilì a Highgate, a Londra, presso il farmacista James Gillman che cercò di attenuare la dipendenza dall’oppio.

 

Gli ultimi anni trascorsero tra le solite sofferenze fisiche, alleviate dall’ammirazione di un folto gruppo di giovani che ne diffusero poi il pensiero. Infine, il 25 luglio 183, Coleridge spirò a 61 anni nella sua casa a Highgate, stroncato da un attacco cardiaco.

 

Studiando le poesie di Coleridge, talvolta vengono in mente quei prigionieri descritti da Platone nel famoso mito della caverna. Oppresso dalle catene di una deludente realtà, costretto a vedere solo le ombre di un meraviglioso mondo ideale, egli cerca di raggiungerlo evadendo col potere dell’immaginazione. S’immerge quindi nel soprannaturale che gli dona profonde esperienze, tradotte poi nelle mitiche e simboliche immagini delle sue poesie.

 

Nel suo capolavoro, The Rime of the Ancient Mariner. egli riesce a creare un magico mondo intorno alla storia di un marinaio che dopo aver offeso Dio uccidendo con crudeltà un albatro, è costretto a raccontare ossessivamente la sua esperienza agli altri: una forma di espiazione e anche di monito a tutti coloro che non rispettano le leggi divine.

 

Sgorgano allora scene surreali e stupendi versi, come quelli in cui descrive serpenti marini di vari colori che danzano, balzando dall’acqua in uno scintillio di luci dorate sotto i raggi della luna: “I wached the water snakes/They moved in tracks of shining white…/I watched their rich attire/blue, glossy green and velvet black/They coiled and swam and every track/Was a flash of golden fire”.

 

In Christabel il soprannaturale si tinge dei foschi e misteriosi aspetti dello stile gotico nel personaggio della bellissima Geraldine, una strana creatura che affascina e ipnotizza Christabel: “And Christabel saw the lady’s eye/And nothing else saw she thereby…”.

 

In Kubla Khan, poemetto scritto sotto l’effetto dell’oppio (come Coleridge stesso racconta), l’aspetto onirico è ancora più marcato. Mentre leggeva un libro sul palazzo di Kublai Khan, imperatore mongolo descritto da Marco Polo, il poeta si addormentò e al suo risveglio incominciò a scrivere versi su quelle esotiche atmosfere vissute nel sogno, ma un visitatore inaspettato l’interruppe ed egli non fu più capace di ricordare le sue fantastiche visioni.

 

Hazlit lo paragonò a “una composizione musicale” e Walsh lo definì “un estatico spasmo”. Ecco alcuni versi che descrivono la dimora dell’imperatore: “In Xanadu did Kubla Khan/A stately pleasure-dome decree…./The shadow of the dome of pleasure/Floated midway on the waves/Where was heard the measure/From the mountain and the caves”.

 

La sua possente immaginazione, sotto l’effetto dell’oppio, esplorò gli ignoti reami del sovrasensibile, mentre la sua mente razionale era in grado di investigare su problemi filosofici, psicologici, politici, religiosi e scientifici, come dimostrano gli argomenti delle sue numerose conferenze e il suo capolavoro nel campo della critica, Biographia Literaria.

 

Grande poeta senza alcun dubbio, geniale sotto molti aspetti, difficile da imbrigliare in schemi e cliché, Coleridge come uomo fu talvolta giudicato in modo alquanto duro. Mario Praz, ad esempio, affermò che il problema più grave di Coleridge fu la “tragedia della volontà”, cioè la sua debolezza di carattere riscontrabile nell’abuso stesso dell’oppio, nei suoi interminabili soliloqui, nei mutevoli stati d’animo, nell’incapacità di portare a termine progetti e alcune sue opere, giudizio riduttivo e spietato verso un sensibile e tormentato artista che in Dejection, an ode, mise a nudo la sua anima, confessando lo sconforto per la fatica di vivere e il costante sforzo nella ricerca di un mondo di pura gioia, una gioia che forse trovò solo nei sogni.



 

 

 

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