N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
bellum Catilinae
Il ritratto di Catilina
di Paola Scollo
Lucio
Sergio
Catilina
è
uno
dei
protagonisti
della
convulsa
scena
politica
di
Roma
all’epoca
delle
sanguinose
guerre
civili
della
tarda
repubblica.
Dopo
aver
militato
nell’esercito
di
Silla,
nel
68
a.C.
è
nominato
pretore,
mentre
nel
67 è
governatore
della
provincia
d’Africa.
Nel
66
viene
accusato
di
repetundae,
ossia
di
appropriazione
indebita
di
denaro
nell’esercizio
delle
pubbliche
funzioni.
Il
processo
si
svolge
l’anno
seguente
e
Catilina
è
assolto.
L’aspirazione
al
consolato
pone
Catilina
come
competitor,
avversario
politico
di
Cicerone.
Dopo
la
duplice
sconfitta
alle
elezioni
e la
definitiva
rottura
con
il
senato,
nel
63
Catilina
passa
all’azione.
Convocata
d’urgenza
una
riunione,
manifesta
l’intenzione
di
porsi
a
capo
degli
eserciti
di
Caio
Manlio
in
Etruria,
quindi
progetta
un
piano
finalizzato
alla
conquista
del
potere
e
all’uccisione
del
console
in
carica,
Cicerone.
Ma
la
congiura
(coniuratio)
viene
scoperta
e
denunciata
in
senato.
A
metà
novembre
Catilina
è
proclamato
nemico
dello
stato
(hostis):
non
è
più
civis
romano.
Cicerone
pronuncia
violenti
attacchi
sia
in
senato
sia
di
fronte
al
popolo.
Nelle
quattro
orazioni
in
Catilinam
il
capo
dei
congiurati
viene
ritratto
come
un
mostro
(monstrum
ac
prodigium):
è l’hostis
del
popolo
romano,
l’improbus
contro
cui
i
boni
devono
lottare.
Di
conseguenza,
il
compito
del
console
consiste
nel
sanare
la
patria
affetta
dal
gravissimo
morbo
(pestilentia)
dei
congiurati.
In
generale,
nell’immagine
degli
interpreti
antichi
Catilina
è
descritto
come
un
individuo
ambiguo,
spregevole
e
depravato,
un
personaggio
malvagio
e
spregiudicato
disposto
a
commettere,
per
ambizione,
stupri,
rapine,
omicidi.
E il
severo
giudizio
di
Cicerone
ha
giocato
un
ruolo
vitale
in
questo
processo
di
demonizzazione.
Anche
il
ritratto
di
Catilina
tratteggiato
da
Sallustio
nel
Bellum
Catilinae
concorda
in
molti
punti
con
l’immagine
di
Cicerone.
La
descrizione
di
Catilina
apre
la
cosiddetta
narratio,
che
fa
seguito
ai
quattro
capitoli
proemiali
del
Bellum
Catilinae.
Ecco
come
viene
presentato
il
capo
dei
congiurati
(V
1):
«Lucio
Catilina,
nato
da
nobile
stirpe
(nobili
genere
natus),
fu
uomo
di
grande
vigore
intellettuale
e
fisico
(fuit
magna
vi
et
animi
et
corporis),
ma
di
indole
malvagia
e
corrotta
(sed
ingenio
malo
pravoque)».
Sallustio
tace
il
nomen
gentilizio
di
Catilina,
Sergius,
dalla
gens
Sergia,
che
Virgilio
nell’Eneide
(V
121)
riconduce
a
Sergeste,
compagno
di
Enea.
L’allusione
alle
origini
patrizie
va
inserita
entro
la
più
ampia
cornice
della
polemica
sallustiana
nei
confronti
della
nobilitas,
incarnazione
dei
vitia.
Sin
da
queste
prime
battute
emergono
i
tratti
distintivi
dell’ethos
e
del
modus
operandi
di
Catilina.
Ma
traspare
anche
un
fitto
intreccio
di
caratteristiche
positive
e
negative.
Il
ritratto
è
percorso
da
una
profonda
tensione
drammatica
dal
sapore
euripideo,
che
lascia
presagire
l’epilogo
della
vicenda.
Catilina
viene
presentato
come
un
eroe
tragico:
è
tormentato
da
un
insanabile
conflitto
interiore,
che
condiziona
i
suoi
comportamenti.
L’irrequietezza
d’animo
si
lega
a
una
naturale
predisposizione
verso
il
male
(V
2):
«sin
dall’adolescenza
(ab
adulescentia)
amò
le
guerre
intestine,
le
stragi,
le
rapine,
la
discordia
civile
e in
queste
occupazioni
esercitò
(exercuit)
tutto
il
vigore
della
giovane
età
(iuventus)».
Catilina
spende
la
giovinezza
in
conflitti
armati
e
lotte
politiche
contro
nemici
interni
(inimici),
traendo
piacere
e
soddisfazione.
La
libido
di
Catilina
si
lega
a
quella
di
Silla:
sono
due
eroi
tragici
del
male.
Peraltro,
Sallustio
individua
nella
dittatura
(dominatio)
di
Silla
il
culmine
della
degenerazione
di
Roma,
il
punto
di
non
ritorno
del
progressivo
incedere
verso
i
vitia.
Il
ritratto
prosegue
con
il
riferimento
a
due
aspetti
antitetici
della
personalità
di
Catilina
(V 3
-
4):
«un
corpo
resistente
(patiens)
alla
fame
(inediae),
al
freddo
(algoris),
alle
veglie
(vigiliae)
oltre
ogni
immaginazione.
Animo
temerario,
subdolo,
mutevole,
capace
di
simulare
e
dissimulare,
avido
dell’altrui,
prodigo
del
suo,
ardente
nelle
passioni,
abbastanza
eloquente,
poco
saggio».
La
contrapposizione
tra
animus
e
corpus
affonda
le
proprie
radici
nel
pensiero
di
Platone.
Un
primo
esempio
giunge
dal
Fedone
(80
a 1
-
2),
laddove
Socrate,
rivolgendosi
a
Cebete,
afferma:
«quando
sono
insieme
anima
e
corpo,
all’uno
la
natura
ordina
di
servire
e di
obbedire,
all’altra
di
comandare
e
dominare».
Illuminante
è
poi
il
passo
Fedro
(246
b 6
- d
2)
in
cui
l’anima,
pur
possedendo
un
elemento
mortale,
è
immaginata
come
un
essere
alato
che
si
libra
verso
le
mete
più
alte,
al
di
sopra
del
mondo
sensibile
delle
apparenze.
Ci
troviamo
di
fronte
a un
topos
destinato
ad
assumere
un
ruolo
di
centralità
anche
nella
letteratura
filosofica
romana.
L’animus
di
Catilina
è
definito
audax,
subdolus,
varius.
La
forza
semantica
di
questo
trikolon
asindetico
viene
ulteriormente
suggellata
dall’uso
di
vastus.
Come
è
stato
ampiamente
dimostrato,
l’aggettivo
ricorre
solo
qui
in
riferimento
a un
concetto
astratto,
animus.
Infatti,
vastus
viene
per
lo
più
utilizzato
come
sinonimo
di
vasto,
sterile,
desolato
per
designare
luoghi
desertici
e
inospitali.
La
ricercata
iunctura
sallustiana
potrebbe
indicare
un
animo
smisurato,
insaziabile,
sempre
teso
verso
imprese
incredibili.
Il
successivo
nimis
alta
(cose
sempre
troppo
alte)
sarebbe
una
prova
efficace.
Ma
vastus
potrebbe
poi
alludere
all’animus
simulator
e
dissimulator
di
Catilina,
esperto
nell’arte
dell’inganno
e
della
simulazione.
Anche
Cicerone
nella
Pro
Caelio
(13)
descrive
Catilina
come
capace
di
«adattare
e
controllare
la
propria
natura
secondo
le
circostanze,
volgendola
e
piegandola
in
ogni
direzione».
La
descrizione
sallustiana
prosegue
con
un
ulteriore
riferimento
all’animus
(V 7
-
8):
«Di
giorno
in
giorno
quell’animo
fiero
(ferox)
era
sempre
più
tormentato
(agitabatur)
dalla
ristrettezza
del
patrimonio
familiare
(inopia
rei
familiari)
e
dal
rimorso
dei
delitti
(coscientia
scelerum).
Lo
incitavano
inoltre
i
costumi
corrotti
della
città,
vessati
da
due
mali
rovinosi
e
opposti
tra
di
loro,
la
brama
di
lusso
(luxuria)
e la
brama
di
ricchezza
(avaritia)».
La
scelta
del
frequentativo
agitare
è
significativa:
indica
il
tumulto
interiore
proprio
dell’agire
dei
personaggi
tragici.
Il
modus
operandi
di
Catilina
è
guidato
da
luxuria,
ambitio,
avaritia
e,
in
particolare,
dalla
cupido,
che
è
desiderio
di
ciò
che
si
pone
oltre
misura
(modus).
Giorno
dopo
giorno,
l’humus
dell’ingenium
posto
al
servizio
del
male
trae
vigore
dalla
catena
di
violenze,
stragi,
rapine
che
richiamano
altre
violenze,
stragi,
rapine.
Ma è
a un
tempo
indiscutibile
il
ruolo
giocato
dai
costumi
corrotti
della
città.
Nell’immagine
di
Sallustio,
Catilina
è
figlio
e
fenomeno
della
corruzione
della
civitas,
exemplum
della
degenerazione
dello
stato.
Non
si
deve
pertanto
concludere
che
il
Bellum
Catilinae
sia
incentrato
sul
capo
dei
congiurati:
la
questione
riguarda
prima
di
tutto
un
problema
di
ordine
politico
e
morale.
Di
qui
la
necessità
di
un
excursus
(VI
-
XIII)
volto
a
indagare
le
cause
profonde
per
cui
la
res
publica,
da
splendida
(pulcherrima)
e
virtuosissima
(optuma),
sia
divenuta
la
più
sciagurata
(pessuma)
e
corrotta
(flagitiosissuma).
Si
tratta
della
cosiddetta
“archeologia”,
un’analisi
della
storia
di
Roma
in
prospettiva
etico-sociale.
Modello
di
riferimento
è
Tucidide,
ma
mentre
lo
storico
greco
distrugge
il
passato
mitico
per
spiegare
criticamente
il
presente,
Sallustio
va
alla
ricerca,
nel
passato,
di
modelli
di
riferimento.
L’archeologia
serve
quindi
a
spiegare
il
presente
alla
luce
del
passato.
L’ampia
sezione
dedicata
al
declino
dei
mores
antiqui
conduce
Sallustio
alle
seguenti
conclusioni
(XIII
4 -
5):
«queste
abitudini
spingevano
i
giovani
al
delitto
quando
il
patrimonio
familiare
si
esauriva:
l’animo,
intriso
di
vizi,
non
poteva
facilmente
rinunciare
ai
piaceri;
tanto
più
sfrenatamente
in
tutti
i
modi
cercava
di
accumulare
denaro
e di
sperperarlo».
Il
tema
della
corruzione
dei
giovani
richiama
nuovamente
l’attenzione
su
Catilina,
di
cui
si
parla
ora
come
folle
criminale
politico.
Sallustio
descrive
i
metodi
utilizzati
da
Catilina
per
attrarre
i
giovani
(XIV
5):
«ma
in
particolare
egli
ricercava
la
familiarità
dei
giovani:
i
loro
animi,
ancora
malleabili
e
mutevoli,
si
lasciavano
facilmente
irretire
dagli
inganni.
Infatti,
a
seconda
della
passione
che
l’età
suscitava
in
ciascuno,
ad
alcuni
procurava
donne,
ad
altri
acquistava
cani
e
cavalli;
insomma
non
risparmiava
il
suo
denaro
né
il
suo
onore,
pur
di
renderli
sottomessi
e
fedeli».
Dopo
il
racconto
dell’uccisione
del
figlio
di
Aurelia
Orestilla,
il
giudizio
di
Sallustio
su
Catilina
si
fa
più
aspro
(XV
4 -
5):
«Quell’animo
colpevole
nemico
degli
dèi
e
degli
uomini
non
poteva
quietarsi
né
con
la
veglia
né
col
riposo:
a
tal
punto
il
rimorso
devastava
la
sua
mente
sconvolta.
Di
qui
il
pallore
terreo,
gli
occhi
torvi,
il
passo
ora
rapido
ora
lento:
insomma
nell’aspetto
e
nel
volto
c’erano
i
segni
della
follia».
Catilina,
in
preda
a
un’implacabile
agitazione,
mostra
colos
exanguis,
foedi
oculi,
citus
modo,
modo
tardus
incessus.
Questi
tratti
sono
manifestazioni
di
un
preciso
stato
d’animo:
la
follia
(vecordia).
L’immagine
dell’hostis
publicus
è
spesso
associata
al
concetto
di
furor
e di
insania.
Cicerone
tende
a
distinguere
il
furor
dall’insania:
il
furor
è
totale
accecamento
della
mente
cui
anche
il
saggio
può
essere
soggetto;
l’insania
è la
malattia
spirituale
temporanea
da
cui
è
immune
il
saggio.
Così
infatti
scrive
(Tusc.
III
11.
24 -
25):
«non
saprei
dire
esattamente
il
motivo
per
cui
i
Greci
la
chiamano
mania.
Noi,
infatti,
distinguiamo
l’insania
dal
furor».
L’origine
del
furor
sarebbe
da
ricercare
non
tanto
nelle
passioni
fisiche
quanto
in
quelle
morali.
In
tal
senso,
la
cupiditas
è
all’origine
del
furor.
Alla
luce
di
queste
considerazioni,
Catilina
è un
personaggio
tragico,
vittima
di
un
furor
che
lo
pone
in
condizione
di
alterità
rispetto
alla
collettività.
La
narrazione
di
Sallustio
segue
un
indirizzo
psicologico-
drammatico,
che
trova
terreno
fertile
nell’arte
del
ritratto.
Notevole
è il
momento
psicologico
della
presentazione
dei
personaggi,
specialmente
se
connesso
a
moralismo.
L’interesse
moralistico,
che
mira
a
rilevare
la
corruzione
dell’individuo,
si
manifesta
nell’esclusione
di
dettagli
privi
di
interesse
psicologico.
È un
modello
ricorrente
nelle
biografie
classiche,
in
linea
con
le
analisi
maturate
in
campo
medico
e
filosofico.
Secondo
La
Penna,
Sallustio
crea
ritratti
“paradossali”,
perché
dedicati
a
personaggi
eccezionali,
vigorosi
e
dalla
spiccata
complessità
d’animo,
che
suscitano
ammirazione
e/o
interesse.
Non
sorprende
quindi
l’elevata
frequenza
dell’aggettivo
incredibilis
in
riferimento
a
Catilina.
Il
capo
dei
congiurati
presenta
elementi
straordinari:
è un
prodigio,
un
essere
ambiguo
che
può
contaminare.
Proprio
in
questa
ottica
vanno
interpretati
termini
come
vastus,
varius,
ambitio,
cupido:
tutto
concorre
a
collocare
Catilina
in
posizione
di
alterità.
Emerge
in
Sallustio
un
reale
gusto
drammatico,
una
caratterizzazione
incisiva,
che
procede
per
contrasti.
Questa
impostazione
va
inserita
all’interno
di
una
più
ampia
considerazione
della
storia
in
chiave
etica,
secondo
contrapposizione
di
vizi
e
virtù.
In
tal
senso,
ogni
crisi
è
connessa
alla
decadenza
morale
e
alla
corruzione
di
costumi.
La
sequenza
dei
delitti
compiuti
da
Catilina
riprende
al
capitolo
XVI,
laddove
è
contenuto
un
esempio
di
exaggeratio,
espediente
adoperato
più
volte
in
tragedia
per
descrivere
una
catena
di
mali
che
generano
altri
mali.
Sallustio
scrive
(XVI
1 -
2):
«I
giovani
che,
come
ho
detto
sopra,
aveva
adescato,
li
istruiva
in
molti
modi
al
delitto.
Forniva,
scegliendoli
tra
loro,
falsi
testimoni
e
firmatari;
li
incitava
a
disprezzare
la
parola
data,
le
ricchezze,
i
pericoli;
poi,
quando
aveva
distrutto
il
loro
buon
nome
e il
loro
onore,
comandava
altri
e
più
orrendi
crimini.
Se
sul
momento
mancava
un’occasione
per
delinquere,
nondimeno
li
induceva
ad
assalire
e
sgozzare
i
colpevoli
come
gli
innocenti:
preferiva
essere
malvagio
e
feroce
senza
motivo,
certamente
per
evitare
che
la
mano
o
l’animo
si
intorpidissero
nell’inerzia.
Confidando
su
tali
amici
e
alleati
Catilina
concepì
il
disegno
di
rovesciare
lo
stato.
Tutto
era
calmo
e
tranquillo,
dunque
favorevole
a
Catilina».
Di
qui
la
digressione
sulla
prima
congiura
della
fine
del
66.
Sallustio
non
intende
assolvere
Catilina,
tuttavia
cerca
di
comprendere
le
ragioni
della
sua
condotta.
In
questo
contesto
un
ruolo
rilevante
occupa
il
primo
discorso
di
Catilina
ai
congiurati
(XX).
Il
rivolgersi
ai
propri
milites
è un
topos
storiografico
che
testimonia
l’importanza
dell’oratio
all’interno
della
narrazione
storica.
Dopo
aver
accusato
il
ceto
dominante
avido
di
potere
e
ricchezze,
Catilina
esorta
gli
alleati
al
coraggio
(virtus),
alla
fedeltà
(fides)
e
alla
libertà
(libertas):
«Noi
abbiamo
la
miseria
in
casa,
i
debiti
fuori,
un
presente
difficile,
un
futuro
ancora
più
duro:
insomma,
che
cosa
ci
resta
se
non
una
vita
miserabile?
Perché
dunque
non
vi
svegliate?
Eccola,
ecco
la
libertà
che
avete
sempre
desiderato;
e
ancora
le
ricchezze,
l’onore,
la
gloria
stanno
davanti
ai
vostri
occhi;
la
fortuna
ha
stabilito
tutti
quei
premi
per
i
vincitori.
Più
del
mio
discorso
vi
esortano
le
circostanze,
l’occasione,
i
pericoli,
la
miseria,
le
splendide
spoglie
di
guerra.
Servitevi
di
me
come
capo
o
come
semplice
soldato;
non
vi
mancheranno
il
mio
cuore
né
il
mio
braccio.
Queste
cose,
spero,
le
farò
con
voi
da
console,
a
meno
che
l’animo
non
mi
inganni
e
che
voi
non
siate
più
pronti
a
servire
che
a
comandare
(XX
13 -
17)».
A
ben
vedere,
manca
qualsiasi
richiamo
alla
moderazione
e al
rifiuto
della
violenza.
Il
successo
dell’impresa
è
rimandato
all’audacia
e
alla
fides
reciproca.
Ma
audacia
ha
qui
sfumatura
negativa:
è
coraggio
temerario,
privo
di
limiti.
Tutti
questi
elementi
concorrono
a
gettare
luce
sulla
natura
psicologica
di
Catilina
e
dei
congiurati.
La
caratterizzazione
viene
confermata
dal
secondo
discorso,
che
riprende
e
amplifica
i
motivi
del
primo.
Anche
qui
Catilina
si
appella
alla
virtus,
all’audacia
e
alla
spregiudicatezza
degli
alleati
(LVIII
12 -
15):
«Noi
combattiamo
per
la
patria,
per
la
libertà,
per
la
vita;
per
loro
è
superfluo
battersi
per
il
potere
di
pochi.
Perciò
attaccateli
con
più
coraggio,
memori
dell’antico
valore.
Avreste
potuto
trascorrere
la
vita
in
esilio
col
massimo
disonore;
qualcuno
di
voi,
perduti
i
beni,
avrebbe
potuto
aspettare
a
Roma
i
soccorsi
altrui.
Ma
dato
che
questo
sembrava
vergognoso
e
intollerabile
per
dei
veri
uomini,
avete
deciso
di
seguire
questa
strada.
Se
volete
uscirne
c’è
bisogno
di
coraggio;
nessuno
se
non
il
vincitore
sa
cambiare
la
guerra
in
pace».
Queste
parole
sono
spesso
state
valutate
come
vuoto
esercizio
retorico,
perché
non
conformi
né
al
contesto
né
al
carattere
di
Catilina.
Pur
proponendo
luoghi
comuni
della
letteratura,
l’oratio
ben
si
inserisce
e si
salda
entro
il
piano
complessivo
della
monografia.
I
discorsi
in
Sallustio
hanno
anzitutto
funzione
di
caratterizzazione
psicologica:
contribuiscono
a
definire
l’indole
del
personaggio,
dando
voce
alle
sue
convinzioni
ideologiche.
Dopo
l’excursus
centrale,
Sallustio
riporta
il
dibattito
in
senato
sulla
condanna
da
infliggere
ai
congiurati.
L’epilogo
del
dramma
viene
narrato
a
partire
dal
capitolo
LV.
Nella
battaglia
di
Pistoia
del
gennaio
del
62
Catilina
trova
la
morte,
sconfitto
dall’esercito
consolare
guidato
da
Petreio.
Secondo
il
racconto
di
Sallustio
(LX
6),
«Catilina,
vedendo
l’esercito
sbaragliato
e
lui
stesso
rimasto
con
pochi
uomini,
memore
della
sua
stirpe
e
della
passata
dignità
(memor
generis
atque
pristinae
suae
dignitatis)
si
getta
dove
i
nemici
sono
più
folti
e
lì,
combattendo,
viene
trafitto».
Anche
dopo
la
morte,
permangono
sul
volto
i
segni
del
coraggio
e
della
fierezza
d’animo.
Il
vigore
di
Catilina
è
tale
da
contagiare
e
nobilitare
i
suoi
seguaci.
Sembra
che
qui
Sallustio
non
stia
parlando
dei
depravati
(improbi)
che
volevano
rovesciare
il
potere
costituito,
ma
di
valorosi
(probi)
soldati.
Ritorna
il
tema
della
nobilitas
che,
metaforicamente,
viene
esteso
anche
ai
congiurati.
Ma
Sallustio
non
assolve
Catilina,
che
continua
ad
essere
ambiguo
eroe
del
male.
Emerge,
piuttosto,
il
rammarico
nei
confronti
di
un
personaggio
che
ha
posto
audacia
e
coraggio
non
in
difesa
della
patria,
ma
della
rovina.
Questa
amara
riflessione
getta
inevitabilmente
delle
ombre
anche
sulla
vittoria
dell’esercito
romano,
che
non
è
presentata
con
toni
trionfalistici
(LXI
7):
«né
d’altra
parte
l’esercito
del
popolo
romano
aveva
conseguito
una
vittoria
lieta
o
incruenta;
infatti
tutti
i
più
coraggiosi
o
erano
caduti
in
battaglia
o si
erano
allontanati
gravemente
feriti».
Sono
ormai
evidenti
i
segni
della
crisi
della
concezione,
propria
della
tradizione
annalistica,
di
historia
come
epopea
del
popolo
romano.
Per
Sallustio
la
grandezza
di
Roma
è
frutto
dell’azione
di
pochi
individui
che,
grazie
a
mirabili
virtutes,
si
distinguono
dalla
massa.
E su
tutto
regna
incontrastata
la
tyche,
che
guida
e
intreccia
i
destini
degli
uomini
in
modo
imperscrutabile.