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N. 20 -
Agosto 2009
(LI)
LA DINASTIA DEI SAFAVIDI
OPERE, RIFORME, UNIFICAZIONE
di Cristiano Zepponi
La
storia
dei
Safavidi
si
apre
con
la
figura
dello
Shaykh
Ishāq
Safīuddīn
(1252-1334),
capo
e
maestro
di
una
confraternita
islamica
sufi
(taríqa)
che
aveva
base
ad
Ardabil,
nell'odierno
Azerbaigian
persiano:
e
proprio
da
lui,
grazie
soprattutto
al
carisma
spirituale
di
cui
era
dotato,
l'ordine
prese
il
nome
di “Safaviyeh”.
Eppure,
molte
lune
sarebbero
trascorse
prima
che
il
nome
dei
Safavidi
s’imponesse
nella
regione
mediorientale;
e di
Safīuddīn,
tutto
sommato,
ci
si
ricordò
soltanto
per
nobilitare
le
origini
della
stirpe
- i
seguaci
e i
discendenti
sfruttarono
infatti
la
leggenda
della
sua
discendenza
dall'Imām
Alī
e
dalla
moglie
Fātima,
figlia
del
profeta
Maometto
– o
per
ricordarne
le
poesia
religiose
in
tata,
un’antica
lingua
d’origine
persiana.
Lo
stesso
destino
toccò
ai
suoi
immediati
successori:
allo
Sheikh
Sadr
ud-Din
Musa,
che
assistette
alla
trasformazione
della
confraternita
in
un
movimento
religioso
impegnato
in
un’attiva
opera
di
propaganda
tra
Persia,
Siria
e
Asia
Minore,
succedettero
prima
il
figlio
Khwādja
Ali
e
poi,
a
sua
volta,
il
figlio
di
quest’ultimo
Ibrahim.
La
storia
della
dinastia
cambiò
nel
1447,
quando
a
prendere
la
guida
del
movimento
fu
lo
Shaykh
Junayd:
il
quale,
“non
contento
della
sola
autorità
spirituale,
decise
di
ottenere
il
potere
materiale”,
per
usare
le
parole
di
R.M.
Savory.
Ne
derivò,
naturalmente,
una
serie
di
ostilità
con
le
più
potenti
dinastie
persiane
– in
primis
la
temibile
Qoyunlu
Qara
–
che
costrinse
i
Safavidi
ad
abbandonare
la
nativa
Ardabil
ed a
peregrinare
tra
Siria
e
Anatolia.
Qui
la
comunità
si
strutturò
militarmente,
grazie
soprattutto
ad
una
serie
di
scontri
con
le
tribù
infedeli
del
Caucaso;
e
poco
dopo,
in
seguito
alla
diffusione
tra
le
loro
fila
d’un
turbante
rosso
a
dodici
spicchi
(in
ricordo
dei
dodici
imam
santi
sciiti),
i
suoi
seguaci
si
guadagnarono
il
nome
di
qızılbaş
(“teste”
o
“berretti
rossi”).
La
dinastia
Safavide,
dopo
aver
conosciuto
l’esilio
dalle
terre
d’origine
e la
morte
di
diversi
suoi
capi
in
battaglia
(Shaykh
Junayd,
Shaykh
Haydar),
conobbe
di
colpo
la
riscossa
con
il
nuovo
delfino
Ismā’īl,
il
quale
nel
1499
– ad
appena
quindici
anni
–
ottenne
l’appoggio
delle
tribù
nomadi
turche
dell'Azerbaigian
e
riuscì
a
sconfiggere
la
federazione
tribale
turcomanna
degli
Aq
Qoyunlū
e
nel
1501
potè
finalmente
ufficializzare
l’inizio
della
dinastia
al
potere.
Insieme
ai
suoi
qızılbaş,
il
nuovo
Shāh
Ismā’īl
I –
zelante
sciita,
coraggioso
e
venerato
come
un
dio
–
continuò
ad
unificare
negli
anni
successivi
la
costellazione
di
emirati
e
khanati
in
cui
era
spezzettata
la
regione:
Hamadan
cadde
nel
1503,
Shiraz
e
Kerman
nel
1504,
Najaf
e
Karbala
nel
1507,
Van
nel
1508,
Baghdad
nel
1509,
Herat
– e
tutto
il
Khorāsān
-
nel
1510.
Fu
proprio
Ismā’īl
I a
imporre
con
decreto
–
con
la
minaccia
della
pena
di
morte
per
i
reticenti
- la
conversione
della
popolazione
persiana
allo
sciismo:
d’un
colpo
rompendo
l’unione
politica
del
mondo
musulmano,
influenzando
sensibilmente
lo
sviluppo
di
quello
che
un
giorno
sarebbe
divenuto
l’Iran
e
infine
guadagnandosi
l’ostilità
dei
vicini
sunniti,
Uzbeki
e
Ottomani.
I
secondi,
in
particolare,
si
mostrarono
allarmati
dai
legami
di
Ismā’īl
I
con
le
tribù
sciite
dell’Asia
minore
ed
in
più
occasioni
avviarono
delle
campagne
militari
nei
territori
Safavidi:
nel
1514,
dopo
il
successo
nella
battaglia
di
Čaldiran,
il
sultano
ottomano
Selīm
I
Yavuz
potè
addirittura
occupare
la
capitale
Safavide,
Tabriz,
prima
di
essere
costretto
al
ritorno
in
patria
dall’ammutinamento
di
alcuni
suoi
ufficiali.
La
fama
d’invincibilità
di
Ismā’īl
I
morì
sul
campo
di
Čaldiran,
insieme
alla
collaborazione
con
i
suoi
qızılbaş:
questi
ultimi,
infatti,
scatenarono
all’indomani
della
sconfitta
una
serie
di
tumulti
tribali
che
sarebbero
durati
per
un
decennio,
finchè
il
figlio
di
Ismā’īl
e
giovane
governatore
di
Herat
– lo
Shāh
Tahmāsp
I –
riuscì
nel
1524
ad
imporre
la
sua
autorità.
Il
suo
regno,
durato
52
anni,
fu
testimone
d’una
serie
ininterrotta
d’invasioni:
Uzbeki
e
Ottomani
tornarono
infatti
a
minacciare
i
confini
persiani
costringendo
Shāh
Ṭahmāsp
prima
a
spostare
la
capitale
da
Tabriz
a
Qazvin,
e
poi
–
nel
1555
- a
firmare
la
pace
con
gli
Ottomani.
Dopo
la
morte
dello
Shāh
Tahmāsp
nel
corso
del
1576
si
riaccese
la
lotta
tra
le
fazioni
rivali
per
il
dominio
nel
regno:
tra
le
pressioni
dei
qızılbaş,
le
brevi
parabole
di
individui
mentalmente
instabili
e le
rivalità
delle
tribù
persiane
emerse
alla
fine
vincitore
il
più
grande
tra
i
monarchi
Safavidi,
lo
Shāh
‘Abbās
I
“il
Grande”,
che
nel
1587
–
dopo
aver
accecato
e
imprigionato
due
suoi
fratelli
e
concorrenti
– si
insediò
sul
trono.
Nonostante
dovesse
la
corona
ad
alcuni
comandanti
dei
qızılbaş,
il
nuovo
Shāh
seppe
riconoscere
le
debolezze
strutturali
dello
Stato
persiano:
prime
fra
tutte,
l’eccessiva
influenza
dei
“berretti
rossi”,
che
più
volte
avevano
ostacolato
e
influenzato
le
naturali
successioni
al
potere,
e le
inefficienze
dell’esercito.
L’esercito
fu
quindi
riformato
secondo
i
dettami
europei,
grazie
alla
consulenza
del
generale
inglese
Robert
Sherley;
nacquero
inoltre
i
ghulam,
guerrieri
scelti
reclutati
– al
pari
dei
giannizzeri
-
tra
i
giovani
cristiani
armeni
e
georgiani
convertiti
all'Islam,
e le
altre
nuove
milizie
persiane:
un
corpo
di
fanti
reclutati
tra
i
contadini
iraniani
e
una
guardia
personale
turca,
gli
Shāh-seven
(“coloro
che
adorano
lo
Shāh”).
Inoltre
spostò
la
capitale
a
Isfahān,
nell’Iran
centrale,
riuscendo
ad
imporre
dei
caratteri
peculiarmente
persiani
allo
Stato
e
favorendo
la
fioritura
artistica,
infrastrutturale
e
culturale
della
città.
Per
rompere
la
dipendenza
dai
qızılbaş
per
la
forza
militare
e
centralizzare
il
controllo
sul
regno,
inoltre,
lo
Shāh
estese
i
legami
commerciali
con
l'inglese
East
India
Company
e la
Dutch
East
India
Company,
favorito
anche
dalla
scoperta
della
rotta
navale
attorno
all’Africa
che
permetteva
di
collegare
Persia
ed
Europa
senza
la
mediazione
della
Turchia.
Si
procurò
così
i
mezzi
finanziari
che
gli
permisero,
insieme
al
nuovo
esercito
munito
di
polvere
da
sparo,
di
sconfiggere
i
due
nemici
storici
della
Persia:
gli
Uzbeki
-
Herat
e
Mashhad
caddero
nel
1598
- e
gli
Ottomani
-
Baghdad
e le
province
caucasiche
furono
riconquistate
nel
1622.
Inoltre,
supportato
dalla
marina
inglese,
costrinse
i
portoghesi
a
lasciare
Bahrain
(1602)
e
Hormuz
(1622)
nel
Golfo
Persico.
Lo
splendore
della
sua
corte
divenne
proverbiale
quanto
la
sua
ossessione
per
i
complotti:
della
sorte
dei
fratelli
si è
detto,
e
non
andò
meglio
al
figlio
maggiore
Safī,
assassinato
a
sangue
freddo.
Tanto
che
al
momento
della
morte,
nel
gennaio
del
1629
–
mentre
il
regno
di
Persia
comprendeva
Iran,
Iraq,
Armenia,
Azerbaigian
Repubblica,
Georgia
e
parti
di
Turkmenistan,
Uzbekistan,
Afghanistan
e
Pakistan
–
non
gli
restavano
figli
in
grado
di
succedergli.
La
decadenza
della
dinastia
si
consumò
in
fretta,
anche
grazie
all’allontanamento
delle
rotte
commerciali
tra
Oriente
e
Occidente
dalla
Persia.
Eppure,
non
furono
gli
avversari
di
sempre
a
causare
il
crollo
persiano:
safavidi
e
Ottomani
continuarono
a
combattere
per
il
possesso
delle
fertili
pianure
irachene,
infatti,
finché
–
nel
1639
- fu
stabilito
il
confine
tra
Turchia
e
Iran
che
ancora
oggi
divide
i
due
Stati
(come
resiste
ancorala
frattura
fra
le
comunità
sciite
e
sunnite
dell'Iraq
provocata
da
quello
scontro);
a
loro
volta
gli
Uzbeki,
minacciati
dai
Calmucchi,
alleggerirono
la
pressione
sulla
Persia
ad
oriente.
Eppure,
la
fine
era
prossima.
Nell’indifferenza
dell’ultimo
Shāh
Sultān
Husayn
una
nuova
minaccia,
quella
afghana,
prese
corpo:
truppe
pashtun
conquistarono
infatti
Herāt
e
Qandahār
ad
oriente;
nel
1720,
quindi,
l'afghano
Mahmūd
marciò
su
Kermān
e
poi
sulla
capitale
Isfahān,
posta
sotto
assedio
nel
corso
del
1722.
Il
23
ottobre
1722,
dopo
sette
mesi
di
assedio,
Isfahān
cadde;
lo
Shāh
Sultān
Husayn
fu
detronizzato.
I
suoi
successori,
sebbene
mantenessero
il
titolo
di
Shāh,
non
conservarono
che
l’ombra
del
passato
potere:
in
definitiva,
divennero
poco
più
che
semplici
fantocci.
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