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[ISSN 1974-028X]


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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

Genocidio Rwandese

Mobilitazione e Costruzione del Consenso
di Niccolò Serri

 

Il Rwanda, ha conosciuto, a partire dall'aprile 1994, una crisi gravissima culminata nel “secondo genocidio del XX secolo”, con il massacro sistematico della minoranza tutsi e degli hutu moderati. Nel luglio dello stesso anno, al termine degli scontri, il comitato internazionale della Croce Rossa stimava intorno al milione le vittime, dati poi parzialmente confermati dal nuovo governo di Kigali, che ne ammetteva 800.000 su una popolazione di appena 7.300.000 abitanti.

 

Il numero altissimo di morti in un lasso di tempo tanto breve indica il carattere sistematico del massacro e tuttavia bisogna aspettare fino al maggio del 1994 perchè gli organi d'informazione internazionale segnalino il genocidio in corso ad opera di un regime efferato e con la partecipazione attiva della popolazione hutu. Fino a quel momento, infatti, gli osservatori si erano limitati a rileggere le violenze in atto come espressione di uno scontro inter-etnico, eredità di una barbarie ancestrale.

 

Il discorso mediatico, contrassegnato da un approccio sensazionalistico, ha fornito una lettura tragica della vicenda rwandese ricollegandola a elementi tribali e rafforzando una rappresentazione, tanto comune quanto retorica, dell'Africa come continente selvaggio. Come questo lavoro cercherà di dimostrare, siamo in realtà in presenza di un massacro molto moderno. Una modernità che ha portato lo storico Jean Pierre Chrètien a parlare di “nazismo tropicale” e che attiene alla programmazione delle carneficine e all'inquadramento degli esecutori, secondo una logica prettamente totalitaria.

 

Il genocidio rwandese si distingue per l'estremo decentramento della sua organizzazione, per il “micro-management” della sua attuazione, reso possibile dall'ampia partecipazione della popolazione hutu delle città e, soprattutto, dei villaggi. A fianco dell'esercito, della guardia presidenziale e delle milizie giovanili Interhamwe del partito al potere MRND, agiscono, infatti, decine di migliaia di contadini e dirigenti locali che, con il loro consenso e la loro partecipazione attiva, sono i principali autori del genocidio.

 

Questa dimensione di massa del genocidio ha la propria base materiale nella lotta per l’accesso, sempre più limitato, alle risorse e alla terra in un paese dove al più alto tasso di densità abitativa di tutta l'Africa, si unisce un notevole tasso di incremento demografico. Tuttavia la cultura della violenza, alimentata da questa drammatica situazione socio-economica, ha potuto sfociare nella soluzione genocidiaria solo attraverso un processo politico basato sulla rigida concatenazione degli ordini, all'interno di una struttura statale fortemente verticista, e ideologicamente fondato su un presupposto razzista, frutto di un etnicismo identitario ed esclusivista che deriva al tempo stesso da una strumentalizzazione e dagli effetti di una convinzione radicata nella storia rwandese, fin dai tempi dell'epoca coloniale, che oppone Hutu e Tutsi considerandoli socialmente e razzialmente diversi.

 

Il presente lavoro vuole essere un'analisi di alcuni fattori che hanno operato nell'organizzazione della mobilitazione e irregimentazione della società rwandese durante il genocidio, tenendo presente le dinamiche di lungo periodo in cui affonda le radici il discorso ideologico del regime. L'obiettivo è quello di render conto dei meccanismi mentali e dell'atteggiamento della massa di civili hutu che ha preso parte al genocidio, la cui dimensione popolare, come suggerisce Mahmood Mamdani, rappresenta l'aspetto più “problematico”, da un punto di vista storico e per le sue forti implicazioni morali.

 

Sarà analizzato il processo di creazione delle identità etniche contrapposte di hutu e tutsi, a partire dall'epoca coloniale, sino alla più recente costruzione di un'ideologia ruralista, funzionale al controllo economico e sociale da parte del regime che, per questa via, consolida uno stereotipo etnico-nazionalista impregnato di odio.

 

Tuttavia la dimensione popolare del genocidio non sarebbe comprensibile senza una struttura capillare del gruppo di potere dominante all'interno della società che mobilita vaste masse sia attraverso l'adesione ideologica che facendo leva sulla paura di eventuali ritorsioni contro chi si mostra tiepido o si sottrae alla partecipazione al massacro. Su questo substrato politico e socio-culturale opera un apparato mediatico legato al regime, anche se non direttamente istituzionale, che si fa voce non solo militante e ideologica ma svolge un ruolo di vera e propria direzione organizzativa indicando chi, come e dove colpire il “nemico”. Si tratta di una propaganda che lo storico J. P. Chretièn non esita a definire “assassina” e che opera attraverso la carta stampata ma soprattutto mediante la stazione radiofonica RTLM, Radio Televisione Libera delle Mille Colline.

 

Metafisica delle etnie e costruzione dell'identità

 

Quando sul finire del XIX secolo gli esploratori tedeschi raggiunsero il suolo rwandese entrarono in contatto con una società stratificata e complessa, caratterizzata da un substrato culturale comune sia sul piano linguistico che su quello della ritualità religiosa, costruita intorno alla figura del re e del tamburo Karinga, simbolo mistico dell'autorità.

 

Dalle parole dell’esploratore Von Goetzen o dell'etnologo tedesco Kandt, primi europei ad entrare in contatto con il regno rwandese, ricaviamo una descrizione della popolazione e dei suoi rapporti che parla di centinaia di negri di ceppo Bantu, i Bahutu, in una “dipendenza servile” dai Wa-Tutsi, “casta straniera” da cui venivano amministrati e “sfruttati fino al sangue”; infine si parla di “una tribù di nani”, i Batwa.

 

Questa raffigurazione conoscerà un‘insospettabile fortuna postuma legata alla visione immaginaria del Rwanda che sarà costruita dall'antropologia. Quest'ultima trasfigurerà il mondo rwandese precoloniale attraverso due operazioni distinte e simultanee. La prima operazione tenderà a cristalizzare le etnie Hutu e Tutsi in attori pseudo-storici abolendo la diversità delle situazioni particolari. La seconda consisterà, invece, nell'estendere a tutto il paese la forma politica regionale della zona centrale, vicino alla capitale Nduga, dove più forte era il potere dinastico tutsi, di contro alle regioni frontaliere del nord, dominate invece dai Bakonde o “hutu abbattitori di foresta”.

 

L'antropologia del mondo tradizionale rwandese, passando sopra i suoi tumulti e le sue disomogeneità, dipingerà uno stato primitivo, sia pure evoluto, dominato da un modello feudale che, attraverso la moltiplicazione dei rapporti personali di dipendenza, legava il Re ai suoi sudditi e i pastori Tutsi agli agricoltori Hutu, concepiti secondo vere e proprie logiche di casta e legati fra loro dal contratto pastorale di Ubuhake.

 

Ciò che l’antropologia racconta di Tutsi e Hutu, i cui rapporti sono regolati secondo uno schema standardizzato di servaggio unidirezionale, altro non è che il frutto delle istituzioni sviluppate a partire dagli anni Trenta del XX secolo, dopo che nel 1924 la Società delle Nazioni aveva posto il regno del Rwanda-Urundi sotto mandato belga. Come scrive la studiosa Claudine Vidal “la Pax belgica era stata presa indebitamente per il fatto tradizionale”. Non che le categorie Tutsi e Hutu non fossero presenti già in epoca precoloniale, ma in quel periodo non avevano quel significato discriminante ed esclusivo che verrà loro assegnato durante la dominazione coloniale.

 

L'aspetto più rilevante della fase che segue l'instaurazione del potere coloniale belga, sostituitosi a quello tedesco a partire dal 1916, è costituito infatti dall'avvicinamento agli europei di una stretta minoranza della popolazione rwandese rappresentata dai Tutsi Banyanduga, èlite del centro del paese, che diviene interlocutore privilegiato per la messa in atto della politica gestionale coloniale.

 

Il processo di creazione di una classe amministrativa indigena di supporto ai funzionari belgi porta, come osserva lo storico J.P.Chrètien, “ alla cristallizzazione di un’aristocrazia tutsi che beneficiava di un monopolio politico, malgrado le sfumature ancora numerose fra regione e regione”. Bisognerà, tuttavia, aspettare il programma Voisin nei primi anni Trenta, che istituiva un raggruppamento geografico di tutto il territorio in Chefferies e Sotto-Chefferies con l'intento di generalizzare il sistema amministrativo, perchè, sempre nelle parole di Chrètien,“ un vero popolo di signori venga [...]forgiato con la benedizione della Chiesa e dell'amministrazione”. Attraverso le trasformazioni imposte dal processo coloniale il sistema permette ai tutsi di consolidare la propria posizione. Citando lo storico Linden “la classe dirigente poteva ormai identificarsi in quanto Hamita e i loro assoggettati come bantu di razza inferiore”.

 

Attraverso un sistema educativo razzista e con l'insostituibile collaborazione dei missionari dei Perès Blanc francesi, attivi nel paese africano fin dal 1900, i colonizzatori riescono a etnicizzare le èlite rwandesi intorno all'elemento tutsi, forzando il complesso mondo rwandese in categorie etniche che dividono verticalmente e in senso classista la società.

 

Frutto di un paziente lavoro di etnicizzazione, questa “finzione coloniale” delle razze viene assunta come vera dagli stessi attori sociali, i quali finiscono per riconoscersi univocamente in quelle categorie, soprattutto dopo il censimento della popolazione nel 1934 che istitusce la menzione obbligatoria dell'etnia sulla carta d'identità.

 

La seconda metà degli anni Cinquanta è caratterizzata da un clima di crescente tensione sociale che, alla fine del decennio, sfocia in una sanguinosa guerra civile fra Hutu e Tutsi, conclusasi con un colpo di stato e con la proclamazione della repubblica il 28 gennaio 1961.

 

Gli hutu avevano, infatti, progressivamente preso coscienza del fatto che la promozione sociale nell'amministrazione era sottoposta a un “plafond etnico”(Linden) e che la classe dirigente si autolegittimava mediante il ricorso all'ipotesi hamitica introdotta dai colonizzatori. La lotta anticolonialista si indirizza, quindi, non tanto contro i dominatori esterni quanto verso il “colonizzatore interno” Tutsi.

 

L'apertura democratica del governo coloniale e le elezioni municipali indette per i primi mesi del 1960, a seguito di scontri scoppiati nelle regioni periferiche del paese, cristallizzano le due fazioni che si legittimano su base etnica intorno a diversi partiti politici, fra i quali ha preminenza assoluta l'Mdr-Parmehutu, insieme di piccoli gruppi estremisti hutu su cui si esercita la debole autorità di Gregoriè Kayabanda, capo del movimento e futuro presidente della repubblica.

 

Il clima di violenza e intimidazione, con i primi consistenti pogrom anti-tutsi, favorisce, nelle consultazioni elettorali, l’Mdr-Parmehutu che risulta vincitore incontrastato con oltre il 70% dei voti anche grazie ad una propaganda che insiste sul problema fondiario e sulla lotta antimonarchica, e sviluppa una forte critica della classe dirigente tutsi, definita con veemenza “colonizzatore di razza etiope”, e invitata a “tornare dai propri padri in Abissinia” (Linden).

La “rivoluzione sociale” rwandese e l'indipendenza ottenuta nel luglio del 1962 non portano ad una risoluzione dei conflitti etnici ma ad una semplice inversione della polarità ideologica e razziale del nuovo stato; come afferma lo storico Balandier, gli hutu “avevano ribaltato la situazione, imposto la forza demografica maggioritaria”. Le elezioni portano, infatti, alla nomina di nuovi capi, definiti sul modello belga “borgomastri”, per la maggioranza appartenenti a frange estremiste del partito vincitore, che progressivamente adottano gli stessi rigidi schemi di coloro che avevano cacciato e danno vita a sistemi clientelari “sovente più oppressivi di quelli dei loro predecessori” (Prunier).

 

Come sottolinea fra gli altri Philip Reytjens i sanguinosi episodi della rivoluzione segnano l'inizio di ricorrenti violenze contro i tutsi il cui macabro bilancio di vittime e rifugiati “si sarebbe progressivamente appesantito nel corso delle crisi successive” con riferimento alle repressioni di esuli tutsi, che nel 1963 tentano il rientro clandestino in patria, e ai massacri che precedono il colpo di stato di Juvenal Habyarimana, il 5 luglio 1973, sino alle estreme conseguenze del genocidio del 1994.

 

L'èlite hutu ormai al potere continua “ad agire per quasi un trentennio come se i vecchi capi tutsi minacciassero ancora la Repubblica, come se l'elemento tutsi, considerato nel suo insieme come nemico ereditario, fosse divenuto un corpo estraneo al paese” (C.Vidal 1997). Il nuovo dominio hutu si fonda e si perpetua, infatti, sulla violenza e la paura, riproponendo costantemente la propria legittimità in quanto vittima di ingiustizie passate quasi che – per usare le parole di Todorov - vi fosse una “linea di credito infinita” che porta, progressivamente, alla estromissione dei tutsi dal sistema scolastico e amministrativo con l'istituzione di “Quote etniche di partecipazione”.

 

Nel “nuovo Rwanda” il consenso politico viene costruito attorno ad un progetto di “identità nazionale” che riafferma il primato culturale dei Ba-hutu, la cui etnia è esaltata mediante un capovolgimento del “mito delle origini” coloniale; l’esistenza dei ba-hutu, vale a dire degli “abbattitori[..] di foreste”, è sempre più posta in relazione all'introduzione dell'agricoltura ma anche all'instaurazione di un’organizzazione sociale complessa, di contro ad una casta straniera e improduttiva come quella dei dominatori hamiti tutsi. Attraverso l'inferiorizzazione e l'annientamento dell' “altro” si mira, perciò, ad identificare completamente l'etnia hutu con il “ popolo-nazione rwandese”.

 

La legittimazione per questa via di un conflitto razziale ha, come prima conseguenza, il consolidamento di un modello identitario che la studiosa Michela Fusaschi definisce “armato”, e che si radica in un potere totalitario saldamente nelle mani del partito unico MRND e del clan presidenziale di Habyarimana, l'akazu, che aveva costruito le proprie basi di consenso proprio fra i Bakiga, abitanti del nord del paese che incitavano all'annientamento non solo dei Tutsi, ma anche degli hutu democratici che non si riconoscevano nello slogan di regime Hutu Power.

Appare chiaro, alla luce di questa breve ricostruzione della storia di hutu e tutsi nei termini di “identità in conflitto”, come le radici del genocidio rwandese vadano ricercate anche nelle dinamiche storiche di lungo periodo, precedenti all'invasione del 1990 a opera del Fronte Patriottico Rwandese (FPR), milizia composta da esiliati tutsi. Tale conflitto porta agli Accordi di Arusha del 1993 che, prospettando soluzioni di power sharing con la minoranza tutsi avversaria, sospingono il regime verso una “soluzione finale” del problema razziale tale da garantire il mantenimento del potere.

 

Ideologia contadina e scelta ruralista nella costruzione del consenso

 

Il 6 aprile 1994 l'aereo su cui viaggia il presidente della Repubblica Juvenàl Habyarimana viene abbattuto durante l'atterraggio a Kigali. Il giorno seguente viene formato un governo ad interim con l'appoggio di un gruppo di ufficiali estremisti capitanati da Theonestè Bagosora, che riesce a radunare i membri dell'area presidenziale, del partito CDR, fortemente razzista, e di certa opposizione che aderisce al progetto Hutu Power. I massacri hanno subito inizio secondo una doppia logica politica ed etnica che mira da una parte all'eliminazione del vertice democratico hutu, simbolizzato dalla prima ministra Agathè Uwilingiymana, e dall'altra a colpire tutti i tutsi, uomini, donne e bambini, considerati intrinsecamente pericolosi.

 

Uno dei fattori fondamentali di mobilitazione e coagulazione del consenso intorno al regime nonché base dell'organizzazione materiale delle carneficine che seguono l'attentato presidenziale, sono le modalità complessive della pianificazione economica che il presidente Juvenal Habyarimana aveva formalmente impostate sull'autarchia alimentare e su un modello di auto-development del paese, il tutto sostenuto da una retorica politica che esaltava l'elemento contadino e un modello di società rurale.

 

Come sottolinea Philip Verwimp, del Center for Economics Studies di Yale, è possibile analizzare le linee della politica economica del Rwanda attraverso il “Dictatorial Approach”, un modello generale che tende a mettere in risalto i 3 elementi necessari ad un dittatura per mantenere e consolidare il proprio potere: un bilancio consistente, la lealtà di almeno una parte della popolazione e un apparato repressivo che mantenga il controllo sulle opposizioni.

 

Il Presidente Habyarimana ha spesso sottolineato nei suoi discorsi come obiettivo della sua amministrazione fosse l'incremento del reddito dei contadini e lo sviluppo delle aree rurali, con lo scopo di raggiungere l'autosufficienza alimentare. Il mondo agricolo, sublimato ideologicamente, è costantemente glorificato da Habyarimana, che dipinge anche se stesso come “Peasant” e non esita a dichiarare il 1988 “Year of the protection of the peasant revenue”.

 

Questo tipo di retorica è complementare a una politica anti-urbanistica che mira a mantenere la popolazione in un assetto societario rurale e dipinge le città come covi di immoralità, ruberie e prostituzione in piena sintonia con quanto va affermando la Chiesa Cattolica Rwandese. Il contadino non solo viene esaltato come nerbo della nazione ma, in una prospettiva monolitica di modello statale, è ritenuto l'unico membro produttivo e utile alla società. Il lavoro manuale diventa un vero e proprio criterio di cittadinanza attiva, soprattutto dopo l'istituzione, nel febbraio 1974, dell'Umuganda che impone il lavoro collettivo non retribuito.

 

Riportiamo un illuminante estratto di un discorso del Presidente:

 

“ Il coup d'ètat che abbiamo compiuto, era soprattutto un colpo di stato morale. E quello che vogliamo, e considereremo la nostra azione come un fallimento se non raggiungeremo questo traguardo, quello che vogliamo è bandire una volta per tutte lo spirito di cospirazione e la mentalità feudale. Quello che vogliamo è ridare al lavoro e all'impegno individuale il suo reale valore. Poiché, lo ripetiamo, chi si rifiuta di lavorare è pericoloso per la società”

 

 

Nel 1973 il 95% della popolazione rwandese vive in zone rurali; ancora nel 1993, all'alba del genocidio, la percentuale è rimasta intatta e ciò illustra al meglio la scelta repressiva del regime a favore di una ruralizzazione coatta. Le forme fortemente dislocate di vita in una società rurale rendono, infatti, più difficile la costituzione di reti di dissidenti o anche semplicemente la creazione di agglomerati che canalizzino la comunicazione individuale e favoriscono, al contrario, forme di controllo e irregimentazione della popolazione che, nello specifico rwandese, vengono attuate dal partito unico MRND. Lo storico G.Prunier definisce tale partito “essenzialmente totalitario”: ogni cittadino rwandese è costretto ad aderirvi e tra i suoi quadri vengono selezionati prefetti e borgomastri.

 

Altre dittature hanno basato la costruzione di un sistema totalitario sulla ruralizzazione della società. Pol Pot, a capo dell'ANGKAR in Cambogia, pretendeva di essere un semplice contadino e David Large ci ricorda, in un pubblicazione del 1997, di non dimenticare il ruolo della Germania rurale e in particolare quello della Bavaria, centro di potere dell'NSDAP, nell'ascesa del nazismo.

 

Un dato saliente che va considerato è la forte somiglianza tra parole ed espressioni utilizzate da Habyarimana e le strutture della propaganda estremista dei primi anni Novanta. In alcune suoi recenti interventi lo storico Mahmood Mamdani ha sottolineato come durante il periodo della Seconda Repubblica, nata dal colpo di stato di J.Habyarimana nel 1973, il lessico e il discorso politico fossero tesi a una riconciliazione di hutu e tutsi. In realtà, come sottolinea, Philip Verwimp il sentimento anti-tutsi costituisce il nucleo ideologico degli indirizzi di politica economica ed è profondamente implicato nell'utopia di una società rurale.

 

Ma ciò che è fondamentale, ai fini della ricostruzione delle basi consensuali del genocidio, è la divisione etnica che si sovrappone alla violenta contrapposizione alimentata dal governo tra contadino e inurbato, tra campagna e città. Tale linea di demarcazione, nella propaganda del regime e nella percezione popolare, identifica i tutsi con la borghesia e favorisce l'assimilazione degli hutu all'elemento contadino, il cui ruolo, all'interno della “Stato-nazione” rwandese, è valorizzato da un'ideologia che affonda le proprie radici nell'antropologia coloniale.

 

La visione organcistica del regime si rifà a dottrine fisiocratiche e propaganda un modello di società e di economia fondati sulla forza produttiva dei contadini e dei proprietari terrieri e sull'individuazione della classe borghese, a maggioranza tutsi, come il nemico da combattere. L'implementazione di una progressiva pulizia etnica contro i tutsi, che porta alla loro estromissione dai settori amministrativi e scolastici, si autolegittima, quindi, in quanto quest'ultimi, non essendo lavoratori manuali, vengono ritenuti elementi estranei e pericolosi per la società. Ma serve la crisi del prezzo del caffè e la contemporanea carestia del 1989 a far deflagrare la situazione.

 

Il modello economico ruralista e di autarchia alimentare propagandato dal regime è impossibile da realizzarsi su base estensiva, in assenza di capitali e di tecnologie e in presenza di un alto tasso di crescita demografica e densità abitativa combinati a una scarsità di terre fertili. L'opzione del regime per aumentare la produzione di cibo si indirizza verso la semplice e non risolutiva intensificazione del lavoro dei singoli, riservando energie e risorse per la produzione di beni d'esportazione, come thè e caffè, i cui introiti servono a soddisfare gli appetiti della mafia militar-affarista del clan presidenziale Akazu.

 

Tuttavia il crollo del prezzo del caffè sul mercato internazionale fa naufragare il fragile equilibrio economico con forti ripercussioni sulle già deboli economie di sussistenza contadine. Per evitare che il malcontento delle campagne si rivolga contro l'èlite al potere, la classe dirigente indica nei tutsi, attraverso un'accorta e martellante campagna, il soggetto che attenta alle conquiste della rivoluzione sociale del 1959, riaffermando che il Rwanda ha spazio e risorse solo per un gruppo etnico.

  

Propaganda di un genocidio

  

Durante tutto il periodo dei massacri i media mantengono una pressione martellante sul “nemico interno” mediante una propaganda pensata nel dettaglio e condotta con abilità. Come scrive J.P.Chrètien, “siamo davanti a un breviario dell'odio distillato con cura da professionisti del mezzo audiovisivo” che, soprattutto a partire dal 1991, riesce a costruire un discorso mediatico fortemente legato a logiche di esclusione e monolitismo etnico, in cui la soluzione del genocidio è a malapena dissimulata, e che affonda le proprie radici in quel decennale processo di costruzione dell'etnia che si è cercato di mettere in luce.

 

Paradossalmente, la propaganda del genocidio trova un punto di forza organizzativo nell'apertura al pluralismo politico che, grazie alla pressione internazionale, si concretizza nella riforma costituzionale del 1991 e in una legge sull'informazione, dello stesso anno, che provoca una grande diffusione di organi d'informazione “indipendenti”. Tuttavia dietro il paravento dell'impresa privata, il regime diffonde la propria ideologia attraverso una programmatica manipolazione dell'opinione pubblica.

 

Il nucleo animatore di questa propaganda appare completamente mobilitato a favore di una guerra civile totale, ora rivolgendosi contro gli Inkotanyi (attacabrighe) del Fronte Patriottico Rwandese (FPR), ora contro contro i supposti complici tutsi interni, gli Inyenzi (scarafaggi).

 

Dei trenta giornali che vedono la luce nel 1991 almeno una decina sono fondati per sostenere mediaticamente le opzioni del vecchio partito unico MRND. Capostipite dell'ideologia dell'integralismo hutu è il bimensile diretto da Hassan Ngeze, “Kangura”, giornale che ha attirato su di sé l'attenzione internazionale a partire dalla pubblicazione, nel 1990, dell' “Appello alla coscienza dei bahutu”. Il testo, “vero e proprio appello all'odio razziale”, viene paragonato da un deputato liberale belga alla dottrina hitleriana per “les dix commandements du hutu”, sorta di vademecum ideologico di cui riportiamo alcuni estratti altamente significativi del clima di estrema tensione.

 

“I batutsi sono assetati di sangue […] hanno usato tutte le loro armi per disgregare la coesione dei bahutu […]i batutsi si sono serviti di due armi che credono efficaci contro i bahutu:i soldi e le donne [...]hanno venduto le loro moglie e le loro figlie agli alti responsabili bahutu...”

 

V-,”I posti strategici politici, amministrativi, economici e militari e della sicurezza devono essere riservati ai Bahutu”

 

VI-”Il settore dell'insegnamento (allievi, studenti, insegnanti) deve essere a maggioranza hutu”

 

Sul modello di “Kangura” nascono numerosi quotidiani che si specializzano anche nella delazione e nella compilazione di liste di “complici degli inyenzi” del FPR; tra questi, “Intera”, giornale di proprietà di un protetto del presidente e soprattutto “Umurwanashyaka”, quindicinale diretto da un membro molto attivo dell'akazu, la cui redazione andrà a costituire il nerbo della RTLM, “Radio- televisione libera delle mille colline”.

 

Fondata nel 1993, la RTLM esprime il culmine della politica di sfruttamento della libertà di stampa in favore di una propaganda portata avanti con la grande violenza di toni che il suo carattere di emittente “indipendente” le consente. La profonda collusione con gli organi dirigenziali dello stato è testimoniata non solo dalla presenza di ben otto membri dell'akazu fra i soci fondatori del progetto ma anche dall'aiuto tecnico fornito alle nuove strutture dall'emittente statale “Radio Rwanda” i cui ripetitori permetteranno a RTLM di estendere in poche settimane il proprio broadcasting a tutto il paese, fino al nord del Burundi.

 

Nel corso del genocidio, mentre la radio ufficiale riporta i discorsi di dirigenti civili e militari, RTLM assume i compiti di far appello al popolo e di organizzare la mobilitazione. Si tratta, infatti, di una radio moderna, che ricerca una comunicazione interattiva, facendo leva sulle passioni che possono rafforzare i semplici slogan. Lo stile militante di questa radio da “combattimento”, come la definisce Chretièn, trapela soprattutto dalla conduzione radiofonica di uno dei suoi speaker di punta, Kantano Habimana:

 

“Gli inyenzi vogliono fermare ogni forma di vita nel paese. […] questa gente, come ha detto il mio amico Gahigi, sono degli anticristo, sono gente molto malvagia. non so come Dio ci aiuterà a sterminarli.[...]sono stati bruciati, ma continuano a sparare con i loro fucili.”

 

”Ma insomma, gli inkotanyi che mi telefonavano, che fine hanno fatto adesso? Ehi! È sicuro che sono stati massacrati! Venite a cantare! Venite amici cari.”

 

I contenuti della carta stampata e i messaggi radiofonici riscuotono una ampia eco. Il fondamento ideologico di questi mezzi di comunicazione razzisti risiede nell'accento messo sulle appartenenze etniche, sulla necessità di ostentare la propria etnia, sulla priorità della solidarietà fra “uguali” in campo sociale e politico e sull'ipocrisia a priori di qualunque discorso cancelli queste differenze in nome dell'unità nazionale. L'obiettivo affermato è quello di definire hutu e tutsi nei termini di “popolo di maggioranza” e “popolo di minoranza” allo scopo di ridurre ai margini i residenti tutsi e di neutralizzare tutte le opposizioni.

 

Il manicheismo di questa concezione si esprime attraverso un linguaggio codificato: Gli Incotanyi dell'FPR definiti anche Inienzy designano l'insieme dei tutsi, associati in blocco ai complici hutu moderati e ai belgi della MINUAR, la missione delle Nazioni Unite.

All'interno di un processo di deumanizzazione ideologica del nemico fioriscono le metafore con il mondo animale e ritornano anche stereotipi sociali come “feudali” e “nostalgici della monarchia”.Questo processo di demonizzazione ha il suo culmine nella “scoperta” di un “piano machiavellico di dominazione tutsi” della regione dei Grandi laghi che rappresenta un “vero e proprio protocollo dei saggi di Sion”.

 

I tutsi non sono, tuttavia, l'unica vittima designata di questa propaganda. La denuncia dei “traditori” occupa almeno lo stesso spazio riservato al nemico hamita. Il gruppo che si radunerà attorno a RTLM ritorna costantemente su questo tema già nel corso del 1992 per combattere i partiti di opposizione. Fra i bersagli privilegiati di questa propaganda dell'odio troviamo anche i giornalisti democratici, appartenenti ad esempio a “Kanguka”, “Rwanda rushya” e “Tribun du peuple”. L'integralismo etnico hutu vede, infatti, il popolo rwandese come poco consapevole della propria appartenenza ad una razza bantu. È il motivo per cui, come scrive Chrètien, “siamo potuti andare ben oltre un banale conflitto inter-etnico e abbiamo potuto parlare di nazismo tropicale”.

 

Cultura della paura e società

 

Certa storiografia, mediante una spiegazione “culturalista”, ha ricercato uno dei fattori centrali della mobilitazione genocidiaria in una presunta società rwandese caratterizzata da “una sistematica, centralizzata e incondizionata obbedienza all'autorità” (G.Prunier). M. Mamdani, in una critica a questa visione statica, pone l'accento sulla “cultura della paura” che l'ideologia di regime aveva instillato nei contadini, basata sul pericolo rappresentato da una nuova dominazione tutsi e dall'invasione del FPR del 1990. In realtà Charles K. Mironko sottolinea come anche un'analisi di questo tipo fallisca nel considerare l'altro lato della medaglia, rappresentato dal rapporto di soggezione e paura che legava i semplici cittadini ai loro diretti superiori hutu. In molti contesti, infatti, a motivare la partecipazione in massa di hutu ordinari, non è la paura del futuro dominio tutsi, ma uno stratificato apparato di coercizione all'interno delle strutture della società.

 

L'irregimentazione della società viene condotta attraverso l'estensione delle strutture del partito unico MRND a tutti gli ambiti della vita societaria e ha il suo presupposto nell'apparato economico dello Stato e nelle tradizioni socio-culturali del mondo rwandese.

 

La già citata introduzione dell'Umuganda, in base alla quale tutta la popolazione è costretta a fornire “volontariamente” il proprio contributo lavorativo allo sviluppo dello stato, conferisce agli ufficiali incaricati della sua gestione un grande potere discrezionale nella mobilitazione dei lavoratori, dando vita ad una struttura amministrativa stratificata, fortemente centralizzata e, nello stesso tempo, capillarmente diffusa, il cui apparato viene sfruttato durante l'organizzazione materiale delle violenze.

 

Forti meccanismi di controllo operano, infatti, fin nel livello più basso dell'organizzazione sociale rwandese. Già a partire dall'epoca coloniale ogni quartiere, istituzione pubblica o impresa privata con un numero minimo di dipendenti è organizzato in “Cellule” formalmente riconosciute dallo Stato, come attesta l'articolo 61 dello statuto fondativo del partito MDRN. Un comitato dirigenziale eletto, spesso affiancato da commissari politici del partito, è incaricato della gestione di queste micro-strutture.

 

In base alle testimonianze raccolte da Charles Mironko in “Social and Political Mechanism of Mass Murder: an Analysis of perpetrators in Rwanda” appare chiaro come questa fitta rete di piccoli dirigenti sia alla base dell'organizzazione delle squadre della morte che perpetrano i massacri.

 

Nel materiale raccolto si fa, infatti, raramente riferimento ad una partecipazione individuale e “spontanea” alle uccisioni mentre il connotato essenziale dell'azione dei singoli è il loro inquadramento in una struttura definita “Igitero”, termine indicante una forma politica di organizzazione di gruppi che si radunano per sferrare un'incursione.

 

L'igitero non è un istituzione nuova. Nella società tradizionale rwandese connotava una mobilitazione solidaristica di una comunità di fronte ad un attacco o un pericolo. Con il tempo, e soprattutto nei mesi del genocidio, tale forma di mobilitazione perde i suoi caratteri difensivi per trasformarsi in forza aggregativa offensiva che non ha nulla di spontaneo; essa, infatti, si realizza attraverso un reclutamento diretto dall'alto che obbliga i civili a riunirsi in bande. E' la struttura amministrativa, dunque, a organizzare le cellule della morte e a ottenere il consenso facendo leva sulla paura che essa ispira ai propri sottoposti i quali temono ritorsioni di tipo fisico, politico o sociale se si sottraggono agli ordini. Sono molte le testimonianze di semplici civili hutu messi di fronte all'alternativa di essere uccisi o di trasformarsi essi stessi in carnefici. L'idea di coinvolgere, direttamente o indirettamente, ogni singolo individuo nelle uccisioni, fa si che tutti si sentano complici. Si tratta di un meccanismo di violenza endogena, spesso non esplicitata, che concorre al pari di altri meccanismi di indottrinamento alla massiccia mobilitazione popolare hutu all'interno del genocidio.

 

Nonostante l'aspetto apparentemente selvaggio dell'arma feticcio utilizzata durante i massacri, il machete, siamo così, anche nel caso rwandese, in presenza di un gruppo di tecnici e “architetti”, legati al potere centrale dalla moltiplicazione dei rapporti di subordinazione amministrativa, che, mediante la minaccia e il preesistente inquadramento della società, dirigono i massacri.

 

Ciò è testimoniato, ad esempio, dal fatto che, molto spesso, le uccisioni sono compiute in orari determinati della giornata, seguano schemi standardizzati che presuppongono una complessa programmazione, come il preventivo raggruppamento dei tutsi in stadi o palestre. Gli slogan e le parole d'ordine utilizzate richiamano l'ambito del lavoro contadino sposandosi con l'ideologia ufficiale del regime: per indicare l'uccisione dei tutsi viene ad esempio impiegato il termine “lavorare” o la parola d'ordine “tagliare gli alberi alti”.

 

L'organizzazione del genocidio, con il coinvolgimento delle strutture di base del partito e della società rurale, fa sì, secondo quanto affermano numerosi storici e antropologi, che gli hutu non abbiamo mai compreso appieno, neppure negli anni successivi al 1994, il grado di corresponsabilità che hanno avuto nel genocidio.

 

6. Conclusioni

 

La dimensione popolare di questo genocidio, come si è tentato di dimostrare, non vive di un primitivismo barbaro e di una partecipazione popolare totalmente spontanea ai massacri. Non è il retaggio di un'Africa “selvaggia” ma il prodotto moderno di una consapevole scelta del regime per mantenersi al potere nonostante la crisi economica gravissima all'interno, e la schiacciante pressione militare del Fronte Patriottico Rwandese, all'esterno.

 

Quasi un settimo della popolazione del Rwanda muore nei pochi mesi del genocidio, ad un ritmo di 10.000 persone al giorno. La partecipazione popolare e la corresponsabilità di massa nelle carneficine sono state preparate e rese possibili utilizzando diversi strumenti, alcuni fondati sulla propaganda e l'indottrinamento, altri sulla coercizione e la violenza.

 

Per anni il regime ha inneggiato al primato delle campagna, all'utopia della società rurale, alla superiorità razziale degli hutu contro gli scarafaggi tutsi e al loro essere i veri e unici depositari della purezza etnica della nazione rwandese. Attraverso il discorso politico, la classe dirigente ha alimentato e ingigantito la “paura” verso i tutsi che, nella propaganda di regime e nell'immaginario collettivo hutu, sarebbero stati pronti a riprendere il controllo dei centri nevralgici della società e dell'economia, come ai tempi del colonialismo, asservendo nuovamente la “componente maggioritaria” hutu. Di fatto il regime non fa altro che riprendere, capovolgendolo, lo schema coloniale di costruzione delle identità etniche che appare, nel nuovo come nel vecchio contesto, puramente artificioso e funzionale a progetti di totale controllo e dominazione della società. Tuttavia, è proprio facendo leva sul tema razziale che il regime al potere in Rwanda riesce a creare attorno a sé un grande consenso e un'adesione ideologico-culturale militante, fondamentale ad accendere la miccia dei massacri che sarà costantemente alimentata anche da un sistema mediatico che si fa virulenta voce razzista e vero e proprio strumento organizzativo dei massacri.

 

La drammatica dimensione di massa del genocidio non sarebbe, però, stata possibile senza la spinta coercitiva del regime e il controllo violento esercitato su quella parte di popolazione hutu più titubante a prendere parte al massacro. Come si è messo in luce è grazie ad una struttura capillare di partito, presente sin nel più sperduto villaggio, al coinvolgimento degli apparati amministrativi, all'inquadramento dei contadini nel lavoro agricolo “obbligatorio”, che si esercita il controllo sulla popolazione, la si incita all'azione e la si obbliga a dimostrare la propria fedeltà al regime e agli ordini che esso impartisce, trasformandola in carnefice. Si tratta di un meccanismo coercitivo che non ha bisogno, quasi mai, di ricorrere apertamente alle minacce o alla violenza in quanto tutti conoscono il prezzo che si paga, anche in termini di sicurezza fisica, a discostarsi dai suoi ordini.

 

Il carattere popolare di questo genocidio fratricida ha portato in prigione più di 120.000 rwandesi, soprattutto dopo l'istituzione del Tribunale Penale di Arusha, in Tanzania, incaricato di giudicare i crimini. Moltissimi sono in attesa del processo e, con i tempi della giustizia rwandese, ci vorrebbe almeno un secolo per terminare i processi.

Tuttavia, come sostengono numerosi studiosi, il vero pericolo per il futuro della società rwandese deriva, più che dall'andamento dei processi, dalla scarsa consapevolezza di gran parte della componente sociale hutu per il ruolo avuto nei massacri quasi che l'aver agito all'interno di un “progetto” di genocidio imposto dall'alto e sostenuto dal basso facesse sentire i singoli individui meno responsabili, con la conseguenze che il Rwanda non appare sufficientemente protetto dal rischio di altri massacri su base etnica.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Michela Fusaschi, Hutu e Tutsi: alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringheri, 2000

Bernard Bruneteau, Il secolo dei genocidi, Il Mulino, 2004

Charles K. Mironko, Ibitero: Means and Motive in the Rwandan Genocide, Yale University, 2004

Philip Verwimp, Peasant Ideology and Genocide in Rwanda Under Habyarimana, Center of Economic Studies, Yale

Carlo Carbone, Dal confronto al conflitto etnico. Per una periodizzazione della lotta politica nel Rwanda tradizionale, Università della Calabria

Jean Pierre Chrètien, Rwanda: propaganda di un genocidio in I media dell'odio a cura di Reporters Sans Frontières, Edizioni gruppo Abele, 1998

Claudine Vidal, Situazione etniche in Rwanda in L'invenzione dell'etnia, a cura di J. L. Amselle e E. M'Bokolo, Meltemi, 2008

Renè Lemarchand, The Rwanda Genocide in Century of genocide: critical essays and eyewitness accounts a cura di S. Totten, W. Parson, I.W. Chamy, Routledge, 2004



 

 

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