N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
Genocidio Rwandese
Mobilitazione e Costruzione del Consenso
di Niccolò Serri
Il
Rwanda,
ha
conosciuto,
a
partire
dall'aprile
1994,
una
crisi
gravissima
culminata
nel
“secondo
genocidio
del
XX
secolo”,
con
il
massacro
sistematico
della
minoranza
tutsi
e
degli
hutu
moderati.
Nel
luglio
dello
stesso
anno,
al
termine
degli
scontri,
il
comitato
internazionale
della
Croce
Rossa
stimava
intorno
al
milione
le
vittime,
dati
poi
parzialmente
confermati
dal
nuovo
governo
di
Kigali,
che
ne
ammetteva
800.000
su
una
popolazione
di
appena
7.300.000
abitanti.
Il
numero
altissimo
di
morti
in
un
lasso
di
tempo
tanto
breve
indica
il
carattere
sistematico
del
massacro
e
tuttavia
bisogna
aspettare
fino
al
maggio
del
1994
perchè
gli
organi
d'informazione
internazionale
segnalino
il
genocidio
in
corso
ad
opera
di
un
regime
efferato
e
con
la
partecipazione
attiva
della
popolazione
hutu.
Fino
a
quel
momento,
infatti,
gli
osservatori
si
erano
limitati
a
rileggere
le
violenze
in
atto
come
espressione
di
uno
scontro
inter-etnico,
eredità
di
una
barbarie
ancestrale.
Il
discorso
mediatico,
contrassegnato
da
un
approccio
sensazionalistico,
ha
fornito
una
lettura
tragica
della
vicenda
rwandese
ricollegandola
a
elementi
tribali
e
rafforzando
una
rappresentazione,
tanto
comune
quanto
retorica,
dell'Africa
come
continente
selvaggio.
Come
questo
lavoro
cercherà
di
dimostrare,
siamo
in
realtà
in
presenza
di
un
massacro
molto
moderno.
Una
modernità
che
ha
portato
lo
storico
Jean
Pierre
Chrètien
a
parlare
di
“nazismo
tropicale”
e
che
attiene
alla
programmazione
delle
carneficine
e
all'inquadramento
degli
esecutori,
secondo
una
logica
prettamente
totalitaria.
Il
genocidio
rwandese
si
distingue
per
l'estremo
decentramento
della
sua
organizzazione,
per
il
“micro-management”
della
sua
attuazione,
reso
possibile
dall'ampia
partecipazione
della
popolazione
hutu
delle
città
e,
soprattutto,
dei
villaggi.
A
fianco
dell'esercito,
della
guardia
presidenziale
e
delle
milizie
giovanili
Interhamwe
del
partito
al
potere
MRND,
agiscono,
infatti,
decine
di
migliaia
di
contadini
e
dirigenti
locali
che,
con
il
loro
consenso
e la
loro
partecipazione
attiva,
sono
i
principali
autori
del
genocidio.
Questa
dimensione
di
massa
del
genocidio
ha
la
propria
base
materiale
nella
lotta
per
l’accesso,
sempre
più
limitato,
alle
risorse
e
alla
terra
in
un
paese
dove
al
più
alto
tasso
di
densità
abitativa
di
tutta
l'Africa,
si
unisce
un
notevole
tasso
di
incremento
demografico.
Tuttavia
la
cultura
della
violenza,
alimentata
da
questa
drammatica
situazione
socio-economica,
ha
potuto
sfociare
nella
soluzione
genocidiaria
solo
attraverso
un
processo
politico
basato
sulla
rigida
concatenazione
degli
ordini,
all'interno
di
una
struttura
statale
fortemente
verticista,
e
ideologicamente
fondato
su
un
presupposto
razzista,
frutto
di
un
etnicismo
identitario
ed
esclusivista
che
deriva
al
tempo
stesso
da
una
strumentalizzazione
e
dagli
effetti
di
una
convinzione
radicata
nella
storia
rwandese,
fin
dai
tempi
dell'epoca
coloniale,
che
oppone
Hutu
e
Tutsi
considerandoli
socialmente
e
razzialmente
diversi.
Il
presente
lavoro
vuole
essere
un'analisi
di
alcuni
fattori
che
hanno
operato
nell'organizzazione
della
mobilitazione
e
irregimentazione
della
società
rwandese
durante
il
genocidio,
tenendo
presente
le
dinamiche
di
lungo
periodo
in
cui
affonda
le
radici
il
discorso
ideologico
del
regime.
L'obiettivo
è
quello
di
render
conto
dei
meccanismi
mentali
e
dell'atteggiamento
della
massa
di
civili
hutu
che
ha
preso
parte
al
genocidio,
la
cui
dimensione
popolare,
come
suggerisce
Mahmood
Mamdani,
rappresenta
l'aspetto
più
“problematico”,
da
un
punto
di
vista
storico
e
per
le
sue
forti
implicazioni
morali.
Sarà
analizzato
il
processo
di
creazione
delle
identità
etniche
contrapposte
di
hutu
e
tutsi,
a
partire
dall'epoca
coloniale,
sino
alla
più
recente
costruzione
di
un'ideologia
ruralista,
funzionale
al
controllo
economico
e
sociale
da
parte
del
regime
che,
per
questa
via,
consolida
uno
stereotipo
etnico-nazionalista
impregnato
di
odio.
Tuttavia
la
dimensione
popolare
del
genocidio
non
sarebbe
comprensibile
senza
una
struttura
capillare
del
gruppo
di
potere
dominante
all'interno
della
società
che
mobilita
vaste
masse
sia
attraverso
l'adesione
ideologica
che
facendo
leva
sulla
paura
di
eventuali
ritorsioni
contro
chi
si
mostra
tiepido
o si
sottrae
alla
partecipazione
al
massacro.
Su
questo
substrato
politico
e
socio-culturale
opera
un
apparato
mediatico
legato
al
regime,
anche
se
non
direttamente
istituzionale,
che
si
fa
voce
non
solo
militante
e
ideologica
ma
svolge
un
ruolo
di
vera
e
propria
direzione
organizzativa
indicando
chi,
come
e
dove
colpire
il
“nemico”.
Si
tratta
di
una
propaganda
che
lo
storico
J.
P.
Chretièn
non
esita
a
definire
“assassina”
e
che
opera
attraverso
la
carta
stampata
ma
soprattutto
mediante
la
stazione
radiofonica
RTLM,
Radio
Televisione
Libera
delle
Mille
Colline.
Metafisica
delle
etnie
e
costruzione
dell'identità
Quando
sul
finire
del
XIX
secolo
gli
esploratori
tedeschi
raggiunsero
il
suolo
rwandese
entrarono
in
contatto
con
una
società
stratificata
e
complessa,
caratterizzata
da
un
substrato
culturale
comune
sia
sul
piano
linguistico
che
su
quello
della
ritualità
religiosa,
costruita
intorno
alla
figura
del
re e
del
tamburo
Karinga,
simbolo
mistico
dell'autorità.
Dalle
parole
dell’esploratore
Von
Goetzen
o
dell'etnologo
tedesco
Kandt,
primi
europei
ad
entrare
in
contatto
con
il
regno
rwandese,
ricaviamo
una
descrizione
della
popolazione
e
dei
suoi
rapporti
che
parla
di
centinaia
di
negri
di
ceppo
Bantu,
i
Bahutu,
in
una
“dipendenza
servile”
dai
Wa-Tutsi,
“casta
straniera”
da
cui
venivano
amministrati
e
“sfruttati
fino
al
sangue”;
infine
si
parla
di
“una
tribù
di
nani”,
i
Batwa.
Questa
raffigurazione
conoscerà
un‘insospettabile
fortuna
postuma
legata
alla
visione
immaginaria
del
Rwanda
che
sarà
costruita
dall'antropologia.
Quest'ultima
trasfigurerà
il
mondo
rwandese
precoloniale
attraverso
due
operazioni
distinte
e
simultanee.
La
prima
operazione
tenderà
a
cristalizzare
le
etnie
Hutu
e
Tutsi
in
attori
pseudo-storici
abolendo
la
diversità
delle
situazioni
particolari.
La
seconda
consisterà,
invece,
nell'estendere
a
tutto
il
paese
la
forma
politica
regionale
della
zona
centrale,
vicino
alla
capitale
Nduga,
dove
più
forte
era
il
potere
dinastico
tutsi,
di
contro
alle
regioni
frontaliere
del
nord,
dominate
invece
dai
Bakonde
o “hutu
abbattitori
di
foresta”.
L'antropologia
del
mondo
tradizionale
rwandese,
passando
sopra
i
suoi
tumulti
e le
sue
disomogeneità,
dipingerà
uno
stato
primitivo,
sia
pure
evoluto,
dominato
da
un
modello
feudale
che,
attraverso
la
moltiplicazione
dei
rapporti
personali
di
dipendenza,
legava
il
Re
ai
suoi
sudditi
e i
pastori
Tutsi
agli
agricoltori
Hutu,
concepiti
secondo
vere
e
proprie
logiche
di
casta
e
legati
fra
loro
dal
contratto
pastorale
di
Ubuhake.
Ciò
che
l’antropologia
racconta
di
Tutsi
e
Hutu,
i
cui
rapporti
sono
regolati
secondo
uno
schema
standardizzato
di
servaggio
unidirezionale,
altro
non
è
che
il
frutto
delle
istituzioni
sviluppate
a
partire
dagli
anni
Trenta
del
XX
secolo,
dopo
che
nel
1924
la
Società
delle
Nazioni
aveva
posto
il
regno
del
Rwanda-Urundi
sotto
mandato
belga.
Come
scrive
la
studiosa
Claudine
Vidal
“la
Pax
belgica
era
stata
presa
indebitamente
per
il
fatto
tradizionale”.
Non
che
le
categorie
Tutsi
e
Hutu
non
fossero
presenti
già
in
epoca
precoloniale,
ma
in
quel
periodo
non
avevano
quel
significato
discriminante
ed
esclusivo
che
verrà
loro
assegnato
durante
la
dominazione
coloniale.
L'aspetto
più
rilevante
della
fase
che
segue
l'instaurazione
del
potere
coloniale
belga,
sostituitosi
a
quello
tedesco
a
partire
dal
1916,
è
costituito
infatti
dall'avvicinamento
agli
europei
di
una
stretta
minoranza
della
popolazione
rwandese
rappresentata
dai
Tutsi
Banyanduga,
èlite
del
centro
del
paese,
che
diviene
interlocutore
privilegiato
per
la
messa
in
atto
della
politica
gestionale
coloniale.
Il
processo
di
creazione
di
una
classe
amministrativa
indigena
di
supporto
ai
funzionari
belgi
porta,
come
osserva
lo
storico
J.P.Chrètien,
“
alla
cristallizzazione
di
un’aristocrazia
tutsi
che
beneficiava
di
un
monopolio
politico,
malgrado
le
sfumature
ancora
numerose
fra
regione
e
regione”.
Bisognerà,
tuttavia,
aspettare
il
programma
Voisin
nei
primi
anni
Trenta,
che
istituiva
un
raggruppamento
geografico
di
tutto
il
territorio
in
Chefferies
e
Sotto-Chefferies
con
l'intento
di
generalizzare
il
sistema
amministrativo,
perchè,
sempre
nelle
parole
di
Chrètien,“
un
vero
popolo
di
signori
venga
[...]forgiato
con
la
benedizione
della
Chiesa
e
dell'amministrazione”.
Attraverso
le
trasformazioni
imposte
dal
processo
coloniale
il
sistema
permette
ai
tutsi
di
consolidare
la
propria
posizione.
Citando
lo
storico
Linden
“la
classe
dirigente
poteva
ormai
identificarsi
in
quanto
Hamita
e i
loro
assoggettati
come
bantu
di
razza
inferiore”.
Attraverso
un
sistema
educativo
razzista
e
con
l'insostituibile
collaborazione
dei
missionari
dei
Perès
Blanc
francesi,
attivi
nel
paese
africano
fin
dal
1900,
i
colonizzatori
riescono
a
etnicizzare
le
èlite
rwandesi
intorno
all'elemento
tutsi,
forzando
il
complesso
mondo
rwandese
in
categorie
etniche
che
dividono
verticalmente
e in
senso
classista
la
società.
Frutto
di
un
paziente
lavoro
di
etnicizzazione,
questa
“finzione
coloniale”
delle
razze
viene
assunta
come
vera
dagli
stessi
attori
sociali,
i
quali
finiscono
per
riconoscersi
univocamente
in
quelle
categorie,
soprattutto
dopo
il
censimento
della
popolazione
nel
1934
che
istitusce
la
menzione
obbligatoria
dell'etnia
sulla
carta
d'identità.
La
seconda
metà
degli
anni
Cinquanta
è
caratterizzata
da
un
clima
di
crescente
tensione
sociale
che,
alla
fine
del
decennio,
sfocia
in
una
sanguinosa
guerra
civile
fra
Hutu
e
Tutsi,
conclusasi
con
un
colpo
di
stato
e
con
la
proclamazione
della
repubblica
il
28
gennaio
1961.
Gli
hutu
avevano,
infatti,
progressivamente
preso
coscienza
del
fatto
che
la
promozione
sociale
nell'amministrazione
era
sottoposta
a un
“plafond
etnico”(Linden)
e
che
la
classe
dirigente
si
autolegittimava
mediante
il
ricorso
all'ipotesi
hamitica
introdotta
dai
colonizzatori.
La
lotta
anticolonialista
si
indirizza,
quindi,
non
tanto
contro
i
dominatori
esterni
quanto
verso
il
“colonizzatore
interno”
Tutsi.
L'apertura
democratica
del
governo
coloniale
e le
elezioni
municipali
indette
per
i
primi
mesi
del
1960,
a
seguito
di
scontri
scoppiati
nelle
regioni
periferiche
del
paese,
cristallizzano
le
due
fazioni
che
si
legittimano
su
base
etnica
intorno
a
diversi
partiti
politici,
fra
i
quali
ha
preminenza
assoluta
l'Mdr-Parmehutu,
insieme
di
piccoli
gruppi
estremisti
hutu
su
cui
si
esercita
la
debole
autorità
di
Gregoriè
Kayabanda,
capo
del
movimento
e
futuro
presidente
della
repubblica.
Il
clima
di
violenza
e
intimidazione,
con
i
primi
consistenti
pogrom
anti-tutsi,
favorisce,
nelle
consultazioni
elettorali,
l’Mdr-Parmehutu
che
risulta
vincitore
incontrastato
con
oltre
il
70%
dei
voti
anche
grazie
ad
una
propaganda
che
insiste
sul
problema
fondiario
e
sulla
lotta
antimonarchica,
e
sviluppa
una
forte
critica
della
classe
dirigente
tutsi,
definita
con
veemenza
“colonizzatore
di
razza
etiope”,
e
invitata
a
“tornare
dai
propri
padri
in
Abissinia”
(Linden).
La
“rivoluzione
sociale”
rwandese
e
l'indipendenza
ottenuta
nel
luglio
del
1962
non
portano
ad
una
risoluzione
dei
conflitti
etnici
ma
ad
una
semplice
inversione
della
polarità
ideologica
e
razziale
del
nuovo
stato;
come
afferma
lo
storico
Balandier,
gli
hutu
“avevano
ribaltato
la
situazione,
imposto
la
forza
demografica
maggioritaria”.
Le
elezioni
portano,
infatti,
alla
nomina
di
nuovi
capi,
definiti
sul
modello
belga
“borgomastri”,
per
la
maggioranza
appartenenti
a
frange
estremiste
del
partito
vincitore,
che
progressivamente
adottano
gli
stessi
rigidi
schemi
di
coloro
che
avevano
cacciato
e
danno
vita
a
sistemi
clientelari
“sovente
più
oppressivi
di
quelli
dei
loro
predecessori”
(Prunier).
Come
sottolinea
fra
gli
altri
Philip
Reytjens
i
sanguinosi
episodi
della
rivoluzione
segnano
l'inizio
di
ricorrenti
violenze
contro
i
tutsi
il
cui
macabro
bilancio
di
vittime
e
rifugiati
“si
sarebbe
progressivamente
appesantito
nel
corso
delle
crisi
successive”
con
riferimento
alle
repressioni
di
esuli
tutsi,
che
nel
1963
tentano
il
rientro
clandestino
in
patria,
e ai
massacri
che
precedono
il
colpo
di
stato
di
Juvenal
Habyarimana,
il 5
luglio
1973,
sino
alle
estreme
conseguenze
del
genocidio
del
1994.
L'èlite
hutu
ormai
al
potere
continua
“ad
agire
per
quasi
un
trentennio
come
se i
vecchi
capi
tutsi
minacciassero
ancora
la
Repubblica,
come
se
l'elemento
tutsi,
considerato
nel
suo
insieme
come
nemico
ereditario,
fosse
divenuto
un
corpo
estraneo
al
paese”
(C.Vidal
1997).
Il
nuovo
dominio
hutu
si
fonda
e si
perpetua,
infatti,
sulla
violenza
e la
paura,
riproponendo
costantemente
la
propria
legittimità
in
quanto
vittima
di
ingiustizie
passate
quasi
che
–
per
usare
le
parole
di
Todorov
- vi
fosse
una
“linea
di
credito
infinita”
che
porta,
progressivamente,
alla
estromissione
dei
tutsi
dal
sistema
scolastico
e
amministrativo
con
l'istituzione
di
“Quote
etniche
di
partecipazione”.
Nel
“nuovo
Rwanda”
il
consenso
politico
viene
costruito
attorno
ad
un
progetto
di
“identità
nazionale”
che
riafferma
il
primato
culturale
dei
Ba-hutu,
la
cui
etnia
è
esaltata
mediante
un
capovolgimento
del
“mito
delle
origini”
coloniale;
l’esistenza
dei
ba-hutu,
vale
a
dire
degli
“abbattitori[..]
di
foreste”,
è
sempre
più
posta
in
relazione
all'introduzione
dell'agricoltura
ma
anche
all'instaurazione
di
un’organizzazione
sociale
complessa,
di
contro
ad
una
casta
straniera
e
improduttiva
come
quella
dei
dominatori
hamiti
tutsi.
Attraverso
l'inferiorizzazione
e
l'annientamento
dell'
“altro”
si
mira,
perciò,
ad
identificare
completamente
l'etnia
hutu
con
il “
popolo-nazione
rwandese”.
La
legittimazione
per
questa
via
di
un
conflitto
razziale
ha,
come
prima
conseguenza,
il
consolidamento
di
un
modello
identitario
che
la
studiosa
Michela
Fusaschi
definisce
“armato”,
e
che
si
radica
in
un
potere
totalitario
saldamente
nelle
mani
del
partito
unico
MRND
e
del
clan
presidenziale
di
Habyarimana,
l'akazu,
che
aveva
costruito
le
proprie
basi
di
consenso
proprio
fra
i
Bakiga,
abitanti
del
nord
del
paese
che
incitavano
all'annientamento
non
solo
dei
Tutsi,
ma
anche
degli
hutu
democratici
che
non
si
riconoscevano
nello
slogan
di
regime
Hutu
Power.
Appare
chiaro,
alla
luce
di
questa
breve
ricostruzione
della
storia
di
hutu
e
tutsi
nei
termini
di
“identità
in
conflitto”,
come
le
radici
del
genocidio
rwandese
vadano
ricercate
anche
nelle
dinamiche
storiche
di
lungo
periodo,
precedenti
all'invasione
del
1990
a
opera
del
Fronte
Patriottico
Rwandese
(FPR),
milizia
composta
da
esiliati
tutsi.
Tale
conflitto
porta
agli
Accordi
di
Arusha
del
1993
che,
prospettando
soluzioni
di
power
sharing
con
la
minoranza
tutsi
avversaria,
sospingono
il
regime
verso
una
“soluzione
finale”
del
problema
razziale
tale
da
garantire
il
mantenimento
del
potere.
Ideologia
contadina
e
scelta
ruralista
nella
costruzione
del
consenso
Il 6
aprile
1994
l'aereo
su
cui
viaggia
il
presidente
della
Repubblica
Juvenàl
Habyarimana
viene
abbattuto
durante
l'atterraggio
a
Kigali.
Il
giorno
seguente
viene
formato
un
governo
ad
interim
con
l'appoggio
di
un
gruppo
di
ufficiali
estremisti
capitanati
da
Theonestè
Bagosora,
che
riesce
a
radunare
i
membri
dell'area
presidenziale,
del
partito
CDR,
fortemente
razzista,
e di
certa
opposizione
che
aderisce
al
progetto
Hutu
Power.
I
massacri
hanno
subito
inizio
secondo
una
doppia
logica
politica
ed
etnica
che
mira
da
una
parte
all'eliminazione
del
vertice
democratico
hutu,
simbolizzato
dalla
prima
ministra
Agathè
Uwilingiymana,
e
dall'altra
a
colpire
tutti
i
tutsi,
uomini,
donne
e
bambini,
considerati
intrinsecamente
pericolosi.
Uno
dei
fattori
fondamentali
di
mobilitazione
e
coagulazione
del
consenso
intorno
al
regime
nonché
base
dell'organizzazione
materiale
delle
carneficine
che
seguono
l'attentato
presidenziale,
sono
le
modalità
complessive
della
pianificazione
economica
che
il
presidente
Juvenal
Habyarimana
aveva
formalmente
impostate
sull'autarchia
alimentare
e su
un
modello
di
auto-development
del
paese,
il
tutto
sostenuto
da
una
retorica
politica
che
esaltava
l'elemento
contadino
e un
modello
di
società
rurale.
Come
sottolinea
Philip
Verwimp,
del
Center
for
Economics
Studies
di
Yale,
è
possibile
analizzare
le
linee
della
politica
economica
del
Rwanda
attraverso
il “Dictatorial
Approach”,
un
modello
generale
che
tende
a
mettere
in
risalto
i 3
elementi
necessari
ad
un
dittatura
per
mantenere
e
consolidare
il
proprio
potere:
un
bilancio
consistente,
la
lealtà
di
almeno
una
parte
della
popolazione
e un
apparato
repressivo
che
mantenga
il
controllo
sulle
opposizioni.
Il
Presidente
Habyarimana
ha
spesso
sottolineato
nei
suoi
discorsi
come
obiettivo
della
sua
amministrazione
fosse
l'incremento
del
reddito
dei
contadini
e lo
sviluppo
delle
aree
rurali,
con
lo
scopo
di
raggiungere
l'autosufficienza
alimentare.
Il
mondo
agricolo,
sublimato
ideologicamente,
è
costantemente
glorificato
da
Habyarimana,
che
dipinge
anche
se
stesso
come
“Peasant”
e
non
esita
a
dichiarare
il
1988
“Year
of
the
protection
of
the
peasant
revenue”.
Questo
tipo
di
retorica
è
complementare
a
una
politica
anti-urbanistica
che
mira
a
mantenere
la
popolazione
in
un
assetto
societario
rurale
e
dipinge
le
città
come
covi
di
immoralità,
ruberie
e
prostituzione
in
piena
sintonia
con
quanto
va
affermando
la
Chiesa
Cattolica
Rwandese.
Il
contadino
non
solo
viene
esaltato
come
nerbo
della
nazione
ma,
in
una
prospettiva
monolitica
di
modello
statale,
è
ritenuto
l'unico
membro
produttivo
e
utile
alla
società.
Il
lavoro
manuale
diventa
un
vero
e
proprio
criterio
di
cittadinanza
attiva,
soprattutto
dopo
l'istituzione,
nel
febbraio
1974,
dell'Umuganda
che
impone
il
lavoro
collettivo
non
retribuito.
Riportiamo
un
illuminante
estratto
di
un
discorso
del
Presidente:
“ Il
coup
d'ètat
che
abbiamo
compiuto,
era
soprattutto
un
colpo
di
stato
morale.
E
quello
che
vogliamo,
e
considereremo
la
nostra
azione
come
un
fallimento
se
non
raggiungeremo
questo
traguardo,
quello
che
vogliamo
è
bandire
una
volta
per
tutte
lo
spirito
di
cospirazione
e la
mentalità
feudale.
Quello
che
vogliamo
è
ridare
al
lavoro
e
all'impegno
individuale
il
suo
reale
valore.
Poiché,
lo
ripetiamo,
chi
si
rifiuta
di
lavorare
è
pericoloso
per
la
società”
Nel
1973
il
95%
della
popolazione
rwandese
vive
in
zone
rurali;
ancora
nel
1993,
all'alba
del
genocidio,
la
percentuale
è
rimasta
intatta
e
ciò
illustra
al
meglio
la
scelta
repressiva
del
regime
a
favore
di
una
ruralizzazione
coatta.
Le
forme
fortemente
dislocate
di
vita
in
una
società
rurale
rendono,
infatti,
più
difficile
la
costituzione
di
reti
di
dissidenti
o
anche
semplicemente
la
creazione
di
agglomerati
che
canalizzino
la
comunicazione
individuale
e
favoriscono,
al
contrario,
forme
di
controllo
e
irregimentazione
della
popolazione
che,
nello
specifico
rwandese,
vengono
attuate
dal
partito
unico
MRND.
Lo
storico
G.Prunier
definisce
tale
partito
“essenzialmente
totalitario”:
ogni
cittadino
rwandese
è
costretto
ad
aderirvi
e
tra
i
suoi
quadri
vengono
selezionati
prefetti
e
borgomastri.
Altre
dittature
hanno
basato
la
costruzione
di
un
sistema
totalitario
sulla
ruralizzazione
della
società.
Pol
Pot,
a
capo
dell'ANGKAR
in
Cambogia,
pretendeva
di
essere
un
semplice
contadino
e
David
Large
ci
ricorda,
in
un
pubblicazione
del
1997,
di
non
dimenticare
il
ruolo
della
Germania
rurale
e in
particolare
quello
della
Bavaria,
centro
di
potere
dell'NSDAP,
nell'ascesa
del
nazismo.
Un
dato
saliente
che
va
considerato
è la
forte
somiglianza
tra
parole
ed
espressioni
utilizzate
da
Habyarimana
e le
strutture
della
propaganda
estremista
dei
primi
anni
Novanta.
In
alcune
suoi
recenti
interventi
lo
storico
Mahmood
Mamdani
ha
sottolineato
come
durante
il
periodo
della
Seconda
Repubblica,
nata
dal
colpo
di
stato
di
J.Habyarimana
nel
1973,
il
lessico
e il
discorso
politico
fossero
tesi
a
una
riconciliazione
di
hutu
e
tutsi.
In
realtà,
come
sottolinea,
Philip
Verwimp
il
sentimento
anti-tutsi
costituisce
il
nucleo
ideologico
degli
indirizzi
di
politica
economica
ed è
profondamente
implicato
nell'utopia
di
una
società
rurale.
Ma
ciò
che
è
fondamentale,
ai
fini
della
ricostruzione
delle
basi
consensuali
del
genocidio,
è la
divisione
etnica
che
si
sovrappone
alla
violenta
contrapposizione
alimentata
dal
governo
tra
contadino
e
inurbato,
tra
campagna
e
città.
Tale
linea
di
demarcazione,
nella
propaganda
del
regime
e
nella
percezione
popolare,
identifica
i
tutsi
con
la
borghesia
e
favorisce
l'assimilazione
degli
hutu
all'elemento
contadino,
il
cui
ruolo,
all'interno
della
“Stato-nazione”
rwandese,
è
valorizzato
da
un'ideologia
che
affonda
le
proprie
radici
nell'antropologia
coloniale.
La
visione
organcistica
del
regime
si
rifà
a
dottrine
fisiocratiche
e
propaganda
un
modello
di
società
e di
economia
fondati
sulla
forza
produttiva
dei
contadini
e
dei
proprietari
terrieri
e
sull'individuazione
della
classe
borghese,
a
maggioranza
tutsi,
come
il
nemico
da
combattere.
L'implementazione
di
una
progressiva
pulizia
etnica
contro
i
tutsi,
che
porta
alla
loro
estromissione
dai
settori
amministrativi
e
scolastici,
si
autolegittima,
quindi,
in
quanto
quest'ultimi,
non
essendo
lavoratori
manuali,
vengono
ritenuti
elementi
estranei
e
pericolosi
per
la
società.
Ma
serve
la
crisi
del
prezzo
del
caffè
e la
contemporanea
carestia
del
1989
a
far
deflagrare
la
situazione.
Il
modello
economico
ruralista
e di
autarchia
alimentare
propagandato
dal
regime
è
impossibile
da
realizzarsi
su
base
estensiva,
in
assenza
di
capitali
e di
tecnologie
e in
presenza
di
un
alto
tasso
di
crescita
demografica
e
densità
abitativa
combinati
a
una
scarsità
di
terre
fertili.
L'opzione
del
regime
per
aumentare
la
produzione
di
cibo
si
indirizza
verso
la
semplice
e
non
risolutiva
intensificazione
del
lavoro
dei
singoli,
riservando
energie
e
risorse
per
la
produzione
di
beni
d'esportazione,
come
thè
e
caffè,
i
cui
introiti
servono
a
soddisfare
gli
appetiti
della
mafia
militar-affarista
del
clan
presidenziale
Akazu.
Tuttavia
il
crollo
del
prezzo
del
caffè
sul
mercato
internazionale
fa
naufragare
il
fragile
equilibrio
economico
con
forti
ripercussioni
sulle
già
deboli
economie
di
sussistenza
contadine.
Per
evitare
che
il
malcontento
delle
campagne
si
rivolga
contro
l'èlite
al
potere,
la
classe
dirigente
indica
nei
tutsi,
attraverso
un'accorta
e
martellante
campagna,
il
soggetto
che
attenta
alle
conquiste
della
rivoluzione
sociale
del
1959,
riaffermando
che
il
Rwanda
ha
spazio
e
risorse
solo
per
un
gruppo
etnico.
Propaganda
di
un
genocidio
Durante
tutto
il
periodo
dei
massacri
i
media
mantengono
una
pressione
martellante
sul
“nemico
interno”
mediante
una
propaganda
pensata
nel
dettaglio
e
condotta
con
abilità.
Come
scrive
J.P.Chrètien,
“siamo
davanti
a un
breviario
dell'odio
distillato
con
cura
da
professionisti
del
mezzo
audiovisivo”
che,
soprattutto
a
partire
dal
1991,
riesce
a
costruire
un
discorso
mediatico
fortemente
legato
a
logiche
di
esclusione
e
monolitismo
etnico,
in
cui
la
soluzione
del
genocidio
è a
malapena
dissimulata,
e
che
affonda
le
proprie
radici
in
quel
decennale
processo
di
costruzione
dell'etnia
che
si è
cercato
di
mettere
in
luce.
Paradossalmente,
la
propaganda
del
genocidio
trova
un
punto
di
forza
organizzativo
nell'apertura
al
pluralismo
politico
che,
grazie
alla
pressione
internazionale,
si
concretizza
nella
riforma
costituzionale
del
1991
e in
una
legge
sull'informazione,
dello
stesso
anno,
che
provoca
una
grande
diffusione
di
organi
d'informazione
“indipendenti”.
Tuttavia
dietro
il
paravento
dell'impresa
privata,
il
regime
diffonde
la
propria
ideologia
attraverso
una
programmatica
manipolazione
dell'opinione
pubblica.
Il
nucleo
animatore
di
questa
propaganda
appare
completamente
mobilitato
a
favore
di
una
guerra
civile
totale,
ora
rivolgendosi
contro
gli
Inkotanyi
(attacabrighe)
del
Fronte
Patriottico
Rwandese
(FPR),
ora
contro
contro
i
supposti
complici
tutsi
interni,
gli
Inyenzi
(scarafaggi).
Dei
trenta
giornali
che
vedono
la
luce
nel
1991
almeno
una
decina
sono
fondati
per
sostenere
mediaticamente
le
opzioni
del
vecchio
partito
unico
MRND.
Capostipite
dell'ideologia
dell'integralismo
hutu
è il
bimensile
diretto
da
Hassan
Ngeze,
“Kangura”,
giornale
che
ha
attirato
su
di
sé
l'attenzione
internazionale
a
partire
dalla
pubblicazione,
nel
1990,
dell'
“Appello
alla
coscienza
dei
bahutu”.
Il
testo,
“vero
e
proprio
appello
all'odio
razziale”,
viene
paragonato
da
un
deputato
liberale
belga
alla
dottrina
hitleriana
per
“les
dix
commandements
du
hutu”,
sorta
di
vademecum
ideologico
di
cui
riportiamo
alcuni
estratti
altamente
significativi
del
clima
di
estrema
tensione.
“I
batutsi
sono
assetati
di
sangue
[…]
hanno
usato
tutte
le
loro
armi
per
disgregare
la
coesione
dei
bahutu
[…]i
batutsi
si
sono
serviti
di
due
armi
che
credono
efficaci
contro
i
bahutu:i
soldi
e le
donne
[...]hanno
venduto
le
loro
moglie
e le
loro
figlie
agli
alti
responsabili
bahutu...”
V-,”I
posti
strategici
politici,
amministrativi,
economici
e
militari
e
della
sicurezza
devono
essere
riservati
ai
Bahutu”
VI-”Il
settore
dell'insegnamento
(allievi,
studenti,
insegnanti)
deve
essere
a
maggioranza
hutu”
Sul
modello
di
“Kangura”
nascono
numerosi
quotidiani
che
si
specializzano
anche
nella
delazione
e
nella
compilazione
di
liste
di
“complici
degli
inyenzi”
del
FPR;
tra
questi,
“Intera”,
giornale
di
proprietà
di
un
protetto
del
presidente
e
soprattutto
“Umurwanashyaka”,
quindicinale
diretto
da
un
membro
molto
attivo
dell'akazu,
la
cui
redazione
andrà
a
costituire
il
nerbo
della
RTLM,
“Radio-
televisione
libera
delle
mille
colline”.
Fondata
nel
1993,
la
RTLM
esprime
il
culmine
della
politica
di
sfruttamento
della
libertà
di
stampa
in
favore
di
una
propaganda
portata
avanti
con
la
grande
violenza
di
toni
che
il
suo
carattere
di
emittente
“indipendente”
le
consente.
La
profonda
collusione
con
gli
organi
dirigenziali
dello
stato
è
testimoniata
non
solo
dalla
presenza
di
ben
otto
membri
dell'akazu
fra
i
soci
fondatori
del
progetto
ma
anche
dall'aiuto
tecnico
fornito
alle
nuove
strutture
dall'emittente
statale
“Radio
Rwanda”
i
cui
ripetitori
permetteranno
a
RTLM
di
estendere
in
poche
settimane
il
proprio
broadcasting
a
tutto
il
paese,
fino
al
nord
del
Burundi.
Nel
corso
del
genocidio,
mentre
la
radio
ufficiale
riporta
i
discorsi
di
dirigenti
civili
e
militari,
RTLM
assume
i
compiti
di
far
appello
al
popolo
e di
organizzare
la
mobilitazione.
Si
tratta,
infatti,
di
una
radio
moderna,
che
ricerca
una
comunicazione
interattiva,
facendo
leva
sulle
passioni
che
possono
rafforzare
i
semplici
slogan.
Lo
stile
militante
di
questa
radio
da
“combattimento”,
come
la
definisce
Chretièn,
trapela
soprattutto
dalla
conduzione
radiofonica
di
uno
dei
suoi
speaker
di
punta,
Kantano
Habimana:
“Gli
inyenzi
vogliono
fermare
ogni
forma
di
vita
nel
paese.
[…]
questa
gente,
come
ha
detto
il
mio
amico
Gahigi,
sono
degli
anticristo,
sono
gente
molto
malvagia.
non
so
come
Dio
ci
aiuterà
a
sterminarli.[...]sono
stati
bruciati,
ma
continuano
a
sparare
con
i
loro
fucili.”
”Ma
insomma,
gli
inkotanyi
che
mi
telefonavano,
che
fine
hanno
fatto
adesso?
Ehi!
È
sicuro
che
sono
stati
massacrati!
Venite
a
cantare!
Venite
amici
cari.”
I
contenuti
della
carta
stampata
e i
messaggi
radiofonici
riscuotono
una
ampia
eco.
Il
fondamento
ideologico
di
questi
mezzi
di
comunicazione
razzisti
risiede
nell'accento
messo
sulle
appartenenze
etniche,
sulla
necessità
di
ostentare
la
propria
etnia,
sulla
priorità
della
solidarietà
fra
“uguali”
in
campo
sociale
e
politico
e
sull'ipocrisia
a
priori
di
qualunque
discorso
cancelli
queste
differenze
in
nome
dell'unità
nazionale.
L'obiettivo
affermato
è
quello
di
definire
hutu
e
tutsi
nei
termini
di
“popolo
di
maggioranza”
e
“popolo
di
minoranza”
allo
scopo
di
ridurre
ai
margini
i
residenti
tutsi
e di
neutralizzare
tutte
le
opposizioni.
Il
manicheismo
di
questa
concezione
si
esprime
attraverso
un
linguaggio
codificato:
Gli
Incotanyi
dell'FPR
definiti
anche
Inienzy
designano
l'insieme
dei
tutsi,
associati
in
blocco
ai
complici
hutu
moderati
e ai
belgi
della
MINUAR,
la
missione
delle
Nazioni
Unite.
All'interno
di
un
processo
di
deumanizzazione
ideologica
del
nemico
fioriscono
le
metafore
con
il
mondo
animale
e
ritornano
anche
stereotipi
sociali
come
“feudali”
e
“nostalgici
della
monarchia”.Questo
processo
di
demonizzazione
ha
il
suo
culmine
nella
“scoperta”
di
un
“piano
machiavellico
di
dominazione
tutsi”
della
regione
dei
Grandi
laghi
che
rappresenta
un
“vero
e
proprio
protocollo
dei
saggi
di
Sion”.
I
tutsi
non
sono,
tuttavia,
l'unica
vittima
designata
di
questa
propaganda.
La
denuncia
dei
“traditori”
occupa
almeno
lo
stesso
spazio
riservato
al
nemico
hamita.
Il
gruppo
che
si
radunerà
attorno
a
RTLM
ritorna
costantemente
su
questo
tema
già
nel
corso
del
1992
per
combattere
i
partiti
di
opposizione.
Fra
i
bersagli
privilegiati
di
questa
propaganda
dell'odio
troviamo
anche
i
giornalisti
democratici,
appartenenti
ad
esempio
a “Kanguka”,
“Rwanda
rushya”
e
“Tribun
du
peuple”.
L'integralismo
etnico
hutu
vede,
infatti,
il
popolo
rwandese
come
poco
consapevole
della
propria
appartenenza
ad
una
razza
bantu.
È il
motivo
per
cui,
come
scrive
Chrètien,
“siamo
potuti
andare
ben
oltre
un
banale
conflitto
inter-etnico
e
abbiamo
potuto
parlare
di
nazismo
tropicale”.
Cultura
della
paura
e
società
Certa
storiografia,
mediante
una
spiegazione
“culturalista”,
ha
ricercato
uno
dei
fattori
centrali
della
mobilitazione
genocidiaria
in
una
presunta
società
rwandese
caratterizzata
da
“una
sistematica,
centralizzata
e
incondizionata
obbedienza
all'autorità”
(G.Prunier).
M.
Mamdani,
in
una
critica
a
questa
visione
statica,
pone
l'accento
sulla
“cultura
della
paura”
che
l'ideologia
di
regime
aveva
instillato
nei
contadini,
basata
sul
pericolo
rappresentato
da
una
nuova
dominazione
tutsi
e
dall'invasione
del
FPR
del
1990.
In
realtà
Charles
K.
Mironko
sottolinea
come
anche
un'analisi
di
questo
tipo
fallisca
nel
considerare
l'altro
lato
della
medaglia,
rappresentato
dal
rapporto
di
soggezione
e
paura
che
legava
i
semplici
cittadini
ai
loro
diretti
superiori
hutu.
In
molti
contesti,
infatti,
a
motivare
la
partecipazione
in
massa
di
hutu
ordinari,
non
è la
paura
del
futuro
dominio
tutsi,
ma
uno
stratificato
apparato
di
coercizione
all'interno
delle
strutture
della
società.
L'irregimentazione
della
società
viene
condotta
attraverso
l'estensione
delle
strutture
del
partito
unico
MRND
a
tutti
gli
ambiti
della
vita
societaria
e ha
il
suo
presupposto
nell'apparato
economico
dello
Stato
e
nelle
tradizioni
socio-culturali
del
mondo
rwandese.
La
già
citata
introduzione
dell'Umuganda,
in
base
alla
quale
tutta
la
popolazione
è
costretta
a
fornire
“volontariamente”
il
proprio
contributo
lavorativo
allo
sviluppo
dello
stato,
conferisce
agli
ufficiali
incaricati
della
sua
gestione
un
grande
potere
discrezionale
nella
mobilitazione
dei
lavoratori,
dando
vita
ad
una
struttura
amministrativa
stratificata,
fortemente
centralizzata
e,
nello
stesso
tempo,
capillarmente
diffusa,
il
cui
apparato
viene
sfruttato
durante
l'organizzazione
materiale
delle
violenze.
Forti
meccanismi
di
controllo
operano,
infatti,
fin
nel
livello
più
basso
dell'organizzazione
sociale
rwandese.
Già
a
partire
dall'epoca
coloniale
ogni
quartiere,
istituzione
pubblica
o
impresa
privata
con
un
numero
minimo
di
dipendenti
è
organizzato
in
“Cellule”
formalmente
riconosciute
dallo
Stato,
come
attesta
l'articolo
61
dello
statuto
fondativo
del
partito
MDRN.
Un
comitato
dirigenziale
eletto,
spesso
affiancato
da
commissari
politici
del
partito,
è
incaricato
della
gestione
di
queste
micro-strutture.
In
base
alle
testimonianze
raccolte
da
Charles
Mironko
in “Social
and
Political
Mechanism
of
Mass
Murder:
an
Analysis
of
perpetrators
in
Rwanda”
appare
chiaro
come
questa
fitta
rete
di
piccoli
dirigenti
sia
alla
base
dell'organizzazione
delle
squadre
della
morte
che
perpetrano
i
massacri.
Nel
materiale
raccolto
si
fa,
infatti,
raramente
riferimento
ad
una
partecipazione
individuale
e
“spontanea”
alle
uccisioni
mentre
il
connotato
essenziale
dell'azione
dei
singoli
è il
loro
inquadramento
in
una
struttura
definita
“Igitero”,
termine
indicante
una
forma
politica
di
organizzazione
di
gruppi
che
si
radunano
per
sferrare
un'incursione.
L'igitero
non
è un
istituzione
nuova.
Nella
società
tradizionale
rwandese
connotava
una
mobilitazione
solidaristica
di
una
comunità
di
fronte
ad
un
attacco
o un
pericolo.
Con
il
tempo,
e
soprattutto
nei
mesi
del
genocidio,
tale
forma
di
mobilitazione
perde
i
suoi
caratteri
difensivi
per
trasformarsi
in
forza
aggregativa
offensiva
che
non
ha
nulla
di
spontaneo;
essa,
infatti,
si
realizza
attraverso
un
reclutamento
diretto
dall'alto
che
obbliga
i
civili
a
riunirsi
in
bande.
E'
la
struttura
amministrativa,
dunque,
a
organizzare
le
cellule
della
morte
e a
ottenere
il
consenso
facendo
leva
sulla
paura
che
essa
ispira
ai
propri
sottoposti
i
quali
temono
ritorsioni
di
tipo
fisico,
politico
o
sociale
se
si
sottraggono
agli
ordini.
Sono
molte
le
testimonianze
di
semplici
civili
hutu
messi
di
fronte
all'alternativa
di
essere
uccisi
o di
trasformarsi
essi
stessi
in
carnefici.
L'idea
di
coinvolgere,
direttamente
o
indirettamente,
ogni
singolo
individuo
nelle
uccisioni,
fa
si
che
tutti
si
sentano
complici.
Si
tratta
di
un
meccanismo
di
violenza
endogena,
spesso
non
esplicitata,
che
concorre
al
pari
di
altri
meccanismi
di
indottrinamento
alla
massiccia
mobilitazione
popolare
hutu
all'interno
del
genocidio.
Nonostante
l'aspetto
apparentemente
selvaggio
dell'arma
feticcio
utilizzata
durante
i
massacri,
il
machete,
siamo
così,
anche
nel
caso
rwandese,
in
presenza
di
un
gruppo
di
tecnici
e
“architetti”,
legati
al
potere
centrale
dalla
moltiplicazione
dei
rapporti
di
subordinazione
amministrativa,
che,
mediante
la
minaccia
e il
preesistente
inquadramento
della
società,
dirigono
i
massacri.
Ciò
è
testimoniato,
ad
esempio,
dal
fatto
che,
molto
spesso,
le
uccisioni
sono
compiute
in
orari
determinati
della
giornata,
seguano
schemi
standardizzati
che
presuppongono
una
complessa
programmazione,
come
il
preventivo
raggruppamento
dei
tutsi
in
stadi
o
palestre.
Gli
slogan
e le
parole
d'ordine
utilizzate
richiamano
l'ambito
del
lavoro
contadino
sposandosi
con
l'ideologia
ufficiale
del
regime:
per
indicare
l'uccisione
dei
tutsi
viene
ad
esempio
impiegato
il
termine
“lavorare”
o la
parola
d'ordine
“tagliare
gli
alberi
alti”.
L'organizzazione
del
genocidio,
con
il
coinvolgimento
delle
strutture
di
base
del
partito
e
della
società
rurale,
fa
sì,
secondo
quanto
affermano
numerosi
storici
e
antropologi,
che
gli
hutu
non
abbiamo
mai
compreso
appieno,
neppure
negli
anni
successivi
al
1994,
il
grado
di
corresponsabilità
che
hanno
avuto
nel
genocidio.
6.
Conclusioni
La
dimensione
popolare
di
questo
genocidio,
come
si è
tentato
di
dimostrare,
non
vive
di
un
primitivismo
barbaro
e di
una
partecipazione
popolare
totalmente
spontanea
ai
massacri.
Non
è il
retaggio
di
un'Africa
“selvaggia”
ma
il
prodotto
moderno
di
una
consapevole
scelta
del
regime
per
mantenersi
al
potere
nonostante
la
crisi
economica
gravissima
all'interno,
e la
schiacciante
pressione
militare
del
Fronte
Patriottico
Rwandese,
all'esterno.
Quasi
un
settimo
della
popolazione
del
Rwanda
muore
nei
pochi
mesi
del
genocidio,
ad
un
ritmo
di
10.000
persone
al
giorno.
La
partecipazione
popolare
e la
corresponsabilità
di
massa
nelle
carneficine
sono
state
preparate
e
rese
possibili
utilizzando
diversi
strumenti,
alcuni
fondati
sulla
propaganda
e
l'indottrinamento,
altri
sulla
coercizione
e la
violenza.
Per
anni
il
regime
ha
inneggiato
al
primato
delle
campagna,
all'utopia
della
società
rurale,
alla
superiorità
razziale
degli
hutu
contro
gli
scarafaggi
tutsi
e al
loro
essere
i
veri
e
unici
depositari
della
purezza
etnica
della
nazione
rwandese.
Attraverso
il
discorso
politico,
la
classe
dirigente
ha
alimentato
e
ingigantito
la
“paura”
verso
i
tutsi
che,
nella
propaganda
di
regime
e
nell'immaginario
collettivo
hutu,
sarebbero
stati
pronti
a
riprendere
il
controllo
dei
centri
nevralgici
della
società
e
dell'economia,
come
ai
tempi
del
colonialismo,
asservendo
nuovamente
la
“componente
maggioritaria”
hutu.
Di
fatto
il
regime
non
fa
altro
che
riprendere,
capovolgendolo,
lo
schema
coloniale
di
costruzione
delle
identità
etniche
che
appare,
nel
nuovo
come
nel
vecchio
contesto,
puramente
artificioso
e
funzionale
a
progetti
di
totale
controllo
e
dominazione
della
società.
Tuttavia,
è
proprio
facendo
leva
sul
tema
razziale
che
il
regime
al
potere
in
Rwanda
riesce
a
creare
attorno
a sé
un
grande
consenso
e
un'adesione
ideologico-culturale
militante,
fondamentale
ad
accendere
la
miccia
dei
massacri
che
sarà
costantemente
alimentata
anche
da
un
sistema
mediatico
che
si
fa
virulenta
voce
razzista
e
vero
e
proprio
strumento
organizzativo
dei
massacri.
La
drammatica
dimensione
di
massa
del
genocidio
non
sarebbe,
però,
stata
possibile
senza
la
spinta
coercitiva
del
regime
e il
controllo
violento
esercitato
su
quella
parte
di
popolazione
hutu
più
titubante
a
prendere
parte
al
massacro.
Come
si è
messo
in
luce
è
grazie
ad
una
struttura
capillare
di
partito,
presente
sin
nel
più
sperduto
villaggio,
al
coinvolgimento
degli
apparati
amministrativi,
all'inquadramento
dei
contadini
nel
lavoro
agricolo
“obbligatorio”,
che
si
esercita
il
controllo
sulla
popolazione,
la
si
incita
all'azione
e la
si
obbliga
a
dimostrare
la
propria
fedeltà
al
regime
e
agli
ordini
che
esso
impartisce,
trasformandola
in
carnefice.
Si
tratta
di
un
meccanismo
coercitivo
che
non
ha
bisogno,
quasi
mai,
di
ricorrere
apertamente
alle
minacce
o
alla
violenza
in
quanto
tutti
conoscono
il
prezzo
che
si
paga,
anche
in
termini
di
sicurezza
fisica,
a
discostarsi
dai
suoi
ordini.
Il
carattere
popolare
di
questo
genocidio
fratricida
ha
portato
in
prigione
più
di
120.000
rwandesi,
soprattutto
dopo
l'istituzione
del
Tribunale
Penale
di
Arusha,
in
Tanzania,
incaricato
di
giudicare
i
crimini.
Moltissimi
sono
in
attesa
del
processo
e,
con
i
tempi
della
giustizia
rwandese,
ci
vorrebbe
almeno
un
secolo
per
terminare
i
processi.
Tuttavia,
come
sostengono
numerosi
studiosi,
il
vero
pericolo
per
il
futuro
della
società
rwandese
deriva,
più
che
dall'andamento
dei
processi,
dalla
scarsa
consapevolezza
di
gran
parte
della
componente
sociale
hutu
per
il
ruolo
avuto
nei
massacri
quasi
che
l'aver
agito
all'interno
di
un
“progetto”
di
genocidio
imposto
dall'alto
e
sostenuto
dal
basso
facesse
sentire
i
singoli
individui
meno
responsabili,
con
la
conseguenze
che
il
Rwanda
non
appare
sufficientemente
protetto
dal
rischio
di
altri
massacri
su
base
etnica.
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