N. 146 - Febbraio 2020
(CLXXVII)
costume e diritto nell’antichità
la
condizione
giuridica
e
sociale
della
donna
nel
mondo
etrusco
di Luca
Cherchi
Ricostruire
lo
status
giuridico
e
sociale
della
donna
etrusca
è
un’operazione
che
presenta
molte
incognite
e
variabili.
Anzitutto
è
bene
sottolineare
che
per
il
mondo
etrusco
non
esiste
una
quantità
di
reperti
paragonabile
a
quella
della
civiltà
greca
e
romana
e la
maggior
parte
delle
testimonianze
pervenuteci
si
rifanno
al
contesto
dell’arte
funeraria.
È
inoltre
doveroso
aggiungere
che
la
stessa
lingua
etrusca
cela
ancora
molti
segreti
e,
data
la
scarsità
e la
complessità
dei
testi
giunti
fino
a
noi,
il
lavoro
interpretativo
richiede
parecchi
sforzi.
La
condizione
della
donna
inoltre
non
era
sempre
identica
all’interno
della
società
etrusca
ma,
poiché
tale
civiltà
era
organizzata
in
una
federazione
di
città-stato,
era
facile
che
vi
fossero
delle
difformità
negli
usi
e
nei
costumi
a
seconda
della
comunità
di
riferimento
e,
oltretutto,
che
vi
fossero
delle
disparità
di
trattamento
in
base
al
ceto
di
appartenenza.
Le
teorie
sulla
vigenza
di
un
sistema
matriarcale
nell’antica
Etruria
paiono
ormai
superate,
tuttavia
è
innegabile
che
la
donna
etrusca
godesse
di
uno
status
per
certi
versi
privilegiato
rispetto
alla
condizione
femminile
nell’antica
Grecia
e a
quella
della
società
romana
a
loro
contemporanea.
È
bene
a
tal
proposito
evidenziare
il
fatto
che
le
donne
etrusche
possedevano
al
pari
degli
uomini,
sin
dal
700
a.C.,
una
denominazione
bimembre
composta
dal
praenomen
e
dal
nomen;
un
fenomeno
impensabile
per
la
società
romana
(almeno
quella
precedente
al
principato
e
comunque
contemporanea
alla
civiltà
etrusca),
dove
la
donna
veniva
comunemente
chiamata
solo
con
il
nome
gentilizio
e al
più
poteva
essere
insignita
di
un
nome
riferito
al
sistema
numerale
ordinale
(Prima,
Secunda,
ecc.)
oppure
con
appellativi
quali
Maior
o
Minor.
Emblematico
poi
è
l’affermarsi
nel
sistema
onomastico
etrusco
dell’uso,
oltre
al
patronimico,
del
matronimico.
Ovviamente,
trattandosi
comunque
di
una
società
spiccatamente
patriarcale,
il
matronimico
seguiva
sempre
il
patronimico
tanto
è
vero
che
il
nome
gentilizio
veniva
trasmesso
in
linea
maschile,
tuttavia
sono
anche
presenti
dei
casi
in
cui
il
patronimico
pare
essere
completamente
assente.
Dal
IV
secolo
a.C.
fino
agli
albori
del
periodo
imperiale,
il
patronimico
e il
matronimico
risultano
essere
utilizzati
non
solo
dalle
grandi
famiglie
etrusche,
ma
anche
dai
ceti
sociali
intermedi.
Le
fonti
letterarie
antiche,
soprattutto
di
matrice
greca,
riguardanti
la
donna
etrusca,
seppur
abbastanza
cospicue,
sono
spesso
ricostruzioni
ipocrite
e
faziose,
ma
ciò
nonostante
ricche
di
indizi
circa
gli
usi
e i
costumi
femminili
etruschi.
Diversi
sono
i
passi,
tra
cui
quelli
di
Teopompo,
Timeo,
Aristotele
e
anche
Plauto,
che
si
fanno
beffa
delle
“scostumate”
abitudini
delle
donne
etrusche.
La
maggior
parte
dei
rimproveri
riguardava
la
loro
partecipazione
ai
banchetti
in
qualità
di
mogli
(e
quindi
non
come
serve,
musiciste,
danzatrici
o
cortigiane)
o
ancora
la
loro
usanza
di
sdraiarsi
sullo
stesso
kline
con
il
marito
o
con
altri
convitati
e
poi
la
loro
attitudine
a
bere
vino.
Tale
settarismo
degli
antichi
letterati
non
è
solo
sintomo
di
antichi
rancori
e
rivalità,
ma
anche
di
profonde
divergenze
culturali.
Molte
furono
le
tradizioni
greche
che
vennero
esportate
per
tutto
il
Mediterraneo
diffondendosi
ampiamente
anche
in
Etruria,
ma
molte
di
esse
furono
assimilate
dalle
società
autoctone
attraverso
i
propri
schemi
culturali.
Il
symposion
etrusco
dunque,
che
negli
usi
greci
costituiva
la
seconda
parte
del
banchetto
durante
il
quale
i
convitati
bevevano
vini,
spesso
diversi
da
quelli
utilizzati
per
il
pasto
e
più
inebrianti,
e
che
consisteva
in
musiche,
giochi
e
improvvisazioni
poetiche,
vedeva
le
donne
come
attive
protagoniste
verosimilmente
al
pari
degli
uomini.
Il
banchetto
era
inoltre
considerato
come
un
avvenimento
sociale
molto
importante
all’interno
della
comunità
e il
fatto
che
vi
prendessero
attivamente
parte
le
donne
è
anche
paradigmatico
della
loro
importanza
all’interno
della
società.
Secondo
la
mentalità
greca
la
partecipazione
al
banchetto
e
quindi
al
simposio
della
propria
moglie
era
considerata
una
cosa
indegna.
Le
donne
nell’antica
Grecia,
così
come
nella
Roma
monarchica
e
repubblicana,
avevano
una
vita
sociale
molto
più
ristretta
e
venivano
spesso
confinate
in
casa
custodendo
il
focolare
domestico
e
filando
la
lana;
attività
quest’ultime
comunque
addebitabili
anche
alle
donne
etrusche
ma,
come
è
possibile
vedere
in
molte
raffigurazioni,
esse
godevano
di
maggiore
libertà
di
movimento
e
partecipavano
vivacemente
all’interno
della
comunità
a
differenza
di
quelle
greche
e
romane.
Il
fatto
per
giunta
che
esse
potessero
bere
vino
doveva
apparire
particolarmente
bizzarro
e
stravagante
visto
che
nella
cultura
romana,
secondo
quanto
riportato
da
Plinio
il
Vecchio,
si
usava
che
i
parenti
baciassero
le
donne
per
sentire
se
sapessero
di
vino
puro
(era
a
loro
consentito
bere
solo
certi
tipi
di
vino
dolci
e
non
fermentati),
una
trasgressione
questa
paragonabile
all’adulterio
e
quindi
punibile
con
la
morte.
Pudica,
lanifica
e
domiseda:
questi
sono
gli
appellativi
con
cui
gli
uomini
romani
lodavano
le
proprie
mogli.
Della
partecipazione
delle
donne
ai
banchetti
vi
sono,
come
accennato,
parecchie
tracce
nei
dipinti
e
nei
corredi
funerari
di
diverse
tombe
etrusche,
come
il
famoso
sarcofago
degli
sposi
ritrovato
a
Cerveteri
e
risalente
al
VI
secolo
a.C.
Grazie
all’arte
funeraria
è
possibile
inoltre
constatare
altre
“originali”
abitudini
delle
donne
etrusche
come
la
partecipazione,
almeno
da
spettatrici,
ai
giochi:
più
difficile
è
invece
appurare
se
vi
prendessero
anche
parte.
Il
rinvenimento
di
numerosi
oggetti
recanti
scritte
con
nomi
propri
femminili
nel
corredo
funebre
delle
tombe
di
alcune
donne
etrusche
ha
dato
luogo
a
importanti
riflessioni.
Una
è
strettamente
legata
alla
padronanza
della
scrittura
da
parte
delle
donne
etrusche
(o
almeno
quelle
appartenenti
a
classi
più
privilegiate);
fatto
che
ancora
una
volta
esalta
il
ruolo
che
esse
avrebbero
dovuto
avere
all’interno
di
quest’antica
civiltà.
Un
altro
spunto
interessante
è
invece
correlato
alla
capacità
giuridica
delle
donne
etrusche.
Infatti
per
il
diritto
romano,
almeno
quello
più
arcaico,
la
donna
non
era
considerata
come
persona
giuridica
a se
stante
e
doveva
essere
sempre
costretta
ad
avere
un
tutore
che
ne
gestisse
o
curasse
gli
affari
e
che
la
rappresentasse.
Pertanto
la
donna
romana
non
possedeva
alcun
diritto
di
proprietà
(fatta
eccezione
in
alcuni
casi
per
la
dote)
e
anzi
veniva
essa
stessa
considerata
di
proprietà,
con
conseguente
diritto
di
vita
e di
morte
da
parte
del
pater
familias
o,
una
volta
sposata,
del
marito
(attraverso
il
matrimonio
cum
manu,
in
uso
nel
periodo
più
antico).
Simile
era
la
situazione
della
donna
greca
la
quale
alla
stregua
di
un
incapace
o di
un
minore
era
costantemente
sotto
la
“custodia”
del
padre,
del
marito,
di
un
familiare
o
comunque
di
un
tutore
nonostante
il
diritto
di
vita
e di
morte
sembra
fosse
più
attenuato.
Ricostruire
un
ipotetico
ius
Etruriae
è
invero
molto
arduo,
difatti
pochi
sono
i
riferimenti
alla
legislazione
etrusca
e
poche
sono
anche
le
informazioni
riguardanti
gli
effetti
giuridici
del
matrimonio
etrusco,
tuttavia
vi
sono
elementi
a
sostegno
di
una
diffusa
capacità
giuridica
femminile.
I
ritrovamenti,
come
detto,
di
numerosi
supporti
con
il
nome
proprio
di
persona
di
alcune
donne
fa
pensare
che
la
donna
etrusca
fosse
dotata
di
personalità
giuridica
e
che
potesse
esserle
riconosciuto
il
diritto
di
proprietà.
Alcuni
reperti
quali
ad
esempio
la
pisside-cratere
custodita
presso
il
Louvre
recante
la
scritta
kusnailise,
che
secondo
l’etruscologo
Giovanni
Colonna
indica
l’appartenenza
di
una
bottega
a
una
certa
Kusnai
(una
donna
etrusca),
e i
ritrovamenti
presso
la
tomba
di
Casalecchio,
suggeriscono
che
la
donna
fosse
anche
titolare
di
attività
economiche
e
artigiane.
Fondamentale
a
tal
proposito
è la
tavola
di
Cortona,
una
tabula
di
bronzo,
databile
tra
la
fine
del
III
terzo
secolo
a.C.
e
gli
inizi
del
II
secolo
a.C.,
che
si
ritiene
descriva
un
negozio
giuridico
avvenuto
tra
più
contraenti
dove,
tra
questi,
si
menziona
oltre
a un
certo
Petru
Skevas
anche
la
moglie
Arntlei.
Ciò
fa
credere
che
vi
fosse
un’assunzione
di
responsabilità
anche
da
parte
della
moglie
e
che
quindi
in
caso
di
inadempimento
si
sarebbe
potuto
legittimamente
aggredire
anche
i
beni
della
donna
avvallando
quindi
la
tesi
dell’esistenza
di
un
diritto
di
proprietà
femminile.
Arntlei
sembra
essere
menzionata
come
un
soggetto
giuridico
a se
stante
al
pari
degli
altri,
elemento
che
fa
pensare
all’assenza
di
poteri
tutori
sulla
donna
quindi
detentrice
di
una
condizione
giuridica
sui
iuris.
Analogamente
a
quanto
avveniva
nella
civiltà
greca
e
romana,
anche
nel
mondo
etrusco
le
donne
sembrerebbero
prive
di
personalità
giuridica
di
diritto
pubblico,
infatti
le
cariche
politiche
e
amministrative
più
rilevanti
erano
ricoperte
dagli
uomini
a
eccezione
di
alcune
funzioni
minori
per
lo
più
di
natura
religiosa.
Concludendo,
si
può
dunque
decisamente
affermare
che
la
donna
nell’antica
Etruria
poteva
godere
di
maggiori
libertà
e
diritti
rispetto
a
quanto
avveniva
in
altre
civiltà
antiche
(invero
non
tutte),
ma
certo
sempre
all’interno
di
una
società
marcatamente
androcentrica.
Si è
quindi
ben
lontani
da
una
forma
di
matriarcato
o da
una
figura
di
donna
modernamente
emancipata.
Con
il
graduale
assoggettamento
della
civiltà
etrusca
a
quella
romana
tali
libertà
andranno
comunque
via
via
assopendosi
mischiandosi
con
i
mores
romani
fino
alla
loro
completa
fusione.
Riferimenti
bibliografici:
Cantarella
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Passato
prossimo:
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Tacita
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Sulpicia,
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Editore,
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Indogermanica
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Gli
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Frammenti
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Olschki
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2000.
Kruta
Poppi
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cura
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Donne
dell’Etruria
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dal
VIII
al
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secolo
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tra
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domestica
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Edizioni
All’insegna
del
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Sesto
Fiorentino
2015.
Pallottino
M.,
Etruscologia,
Hoepli,
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1984.
Pecora
B.,
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e
diritti,
Aspetti
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giuridici
del
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con
analisi
del
fenomeno
dello
stalking,
mobbing
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straining,
Key
Editore,
Vicalvi
2017.
Quilici
M.,
Storia
della
paternità.
Dal
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mammo,
Fazi
Editore,
Roma
2010.
Rallo
A.,
Le
donne
in
Etruria,
“L’erma”
di
Bretschneider,
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