N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
L’ambasciatore nel Quattrocento
nascita della diplomazia moderna
di Alessandro Ortis
Il
XV
secolo
ha
rappresentato
un
momento
importante
nella
storia
d’Italia.
Si
sono
avute
molte
guerre
tra
gli
stati
italiani,
come
il
conflitto
tra
Milano
e
Firenze
e lo
scontro,
nel
Regno
di
Napoli,
tra
Luigi
III
d’Angiò
e
Alfonso
d’Aragona.
Tuttavia,
il
Quattrocento
è
maggiormente
noto
perché
ha
visto
svilupparsi
un
fenomeno
che,
nato
già
nel
Trecento,
portò
ad
un
radicale
mutamento
degli
assetti
politici
della
penisola:
la
Signoria.
Questa
nuova
istituzione,
che
causò
un
restringimento
degli
spazi
di
iniziativa
politica
e
determinò,
di
fatto,
una
forte
chiusura
oligarchica
del
potere,
contribuì
molto
alla
rivalutazione
e
allo
sviluppo
di
una
figura
politica
che,
per
lungo
tempo,
aveva
ricoperto
un
ruolo
piuttosto
marginale
negli
affari
dello
stato:
l’ambasciatore.
Questo
ruolo
- su
cui
il
dibattito
storiografico
tra
Otto
e
Novecento
si
divide
tra
coloro
che
considerano
l’ambasceria
un
“compito”
e
coloro
che,
sulla
base
di
importanti
fonti
documentali,
ne
parlano
in
termini
di
“ufficio”,
dando
l’idea
di
una
istituzione
stabile
e
forte
-
esisteva
sin
dall’antichità,
dai
greci
ai
tempi
della
Roma
imperiale.
Si
trattava,
però,
di
inviati
occasionali
che,
una
volta
compiute
le
loro
missive
e
risolte
le
questioni
per
cui
erano
stati
mandati
fuori
dal
proprio
territorio,
tornavano
in
patria.
Non
esistevano
sedi
diplomatiche
come
oggi
noi
siamo
abituati
a
pensare:
non
esistevano
relazioni
diplomatiche
stabili
tra
i
vari
stati
e
regni,
se
non
in
occasioni
particolari,
come
una
lunga
guerra.
Tutti
questi
caratteri
erano
destinati
a
cambiare
radicalmente
proprio
nel
XV
secolo.
Durante
l’età
Comunale,
in
pieno
Trecento,
l’ambasciata
si
compiva
in
rappresentanza
di
tutta
la
comunità
cittadina,
impiegando,
perciò,
volta
per
volta,
i
vari
ceti
della
città
-
artigiani,
mercanti,
bottegai
– e
concedendo
loro
la
tutela
di
interessi
singoli.
Solo
in
casi
eccezionali,
come
una
guerra,
venivano
inviate
vere
e
proprie
delegazioni
cittadine,
in
rappresentanza
del
Comune.
Inoltre,
l’ambasciatore
era
scelto
attraverso
votazioni
e
delibere
di
organi
di
rappresentanza,
come
la
Camera
del
Comune
nel
caso
di
Firenze.
Con
la
formazione
della
Signoria
e la
conseguente
riduzione
di
peso
politico
degli
organi
comunali,
la
figura
dell’ambasciatore
cambia
natura:
ha
un
ruolo
prettamente
politico
e
strettamente
funzionale
al
nuovo
governo
che
l’ha
nominato.
Prendendo
ad
esempio
Firenze,
da
semplice
rappresentante
di
un
ceto
sociale,
l’ambasciatore
viene
ora
considerato
dalla
legislazione
una
«persona
pubblica
che
rappresenta
la
Signoria
al
di
fuori
del
contado
e
del
distretto
di
Firenze»,
creando
così
un
legame
diretto
fra
ambasciata
e
potere
signorile,
senza
più
interposizione
esterna.
Negli
statuti
cittadini
fiorentini
del
1409-1415,
si
legge,
altresì,
come
all’ambasciatore
si
attribuisca
una
dignità
pubblica
pari
quasi
a
quella
dei
Signori,
tanto
da
assegnargli
i
titoli
di
venerabile
et
excelsos,
honorabiles
et
nobiles.
In
questo
modo,
gli
inviati
non
sono
più
i
diretti
rappresentanti
della
società
comunale,
ma
del
suo
“reggimento
politico”.
In
questa
nuova
fase,
quale
poteva
essere
il
compito
dell’inviato?
Principalmente,
egli
doveva
tessere
un
buon
rapporto
politico
con
la
corte
dove
risiedeva,
affinché,
grazie
al
dialogo,
si
potesse
evitare
lo
scoppio
di
nuove
crisi
o si
stringessero
nuove
alleanze.
Importante,
a
questo
proposito,
è la
testimonianza
di
Ermolao
Barbaro,
ambasciatore
di
Venezia
alla
corte
di
Ludovico
il
Moro,
per
il
quale
la
finalità
del
legato
era
«quella
medesima
di
ogni
altra
pubblica
funzione:
di
fare,
di
dire,
consigliare
tutto
ciò
che
consideri
come
pertinente
al
mantenimento
e
l’ampliamento
del
potere
statale».
Inoltre,
le
ambascerie,
con
i
cambiamenti
politici
ed
istituzionali
dei
primi
decenni
del
Quattrocento,
si
prolungarono
fino
a
diventare
vere
e
proprie
rappresentanze
diplomatiche
stabili,
in
particolare
tra
stati
alleati.
Come
veniva
scelto,
però,
un
ambasciatore?
Il
candidato
ideale
a
questo
ruolo,
per
prima
cosa,
doveva
essere
una
persona
affidabile
che
potesse
essere
lo
specchio
del
proprio
ceto,
in
età
Comunale,
e
del
potere
del
signore
poi.
Principi
e
Stati
repubblicani,
ma
anche
le
Signorie,
traevano
i
propri
rappresentanti
dalla
cerchia
degli
artisti,
musicisti,
scienziati,
e
soprattutto
tra
i
letterati,
di
cui
Guicciardini,
ambasciatore
di
Firenze
in
Spagna,
è un
importante
esempio
–
tanto
che
grazie
a
questa
esperienza
scrisse
il
suo
Discorso
di
Logrogno.
Tuttavia,
soprattutto
in
età
Signorile,
l’ambasciatore
veniva
scelto
in
una
stretta
cerchia
di
rappresentanti
e
rappresentati:
a
Firenze
il
compito
della
nomina
spettava
al
«senato
dei
Settanta»
-
creato
dalla
Signoria
- e
agli
«Otto
di
Pratica»,
suo
organo
a
ciò
delegato.
Sebbene
fosse
un
nobiles,
la
vita
dell’ambasciatore
era
assai
difficile.
Come
erano
soliti
fare
tutti
i
viaggiatori
del
suo
tempo,
l’inviato
si
metteva
in
viaggio
solo
dopo
aver
redatto
un
testamento.
I
pericoli
del
viaggio
erano
molteplici:
guerre,
saccheggi,
malattie.
Bisognava
prendere
ogni
precauzione
possibile.
Curiosa,
a
questo
proposito,
è la
vicenda
di
un
ambasciatore
genovese
che,
durante
il
terremoto
del
1456
che
colpì
l’Appennino
meridionale,
rischiò
di
perdersi
nella
neve
e
andare
incontro
a
morte
certa.
Inoltre,
anche
una
volta
arrivati
a
destinazione,
le
cose
non
erano
per
niente
facili.
Le
condizioni
di
vita
risultavano
precarie:
i
soldi
non
erano
sufficienti
per
le
prime
necessità,
date
le
molte
spese
-
pagare
le
osterie
dove
si
alloggiava,
i
servi
che
si
prendevano
cura
dei
cavalli
e
dei
muli.
C’erano
perfino
le
spese
per
le
mance
ai
suonatori
e
per
le
vesti
di
gala
durante
le
cerimonie
pubbliche.
Anche
durante
lo
svolgimento
delle
proprie
funzioni,
l’ambasciatore
si
trovava
in
mezzo
a
molteplici
difficoltà.
Riportano
le
fonti
storiche
che
un
legato
straniero,
in
rappresentanza
presso
il
Regno
di
Napoli,
per
cercare
di
interloquire
con
il
re
Alfonso
d’Aragona,
fu
costretto
a
seguirlo
durante
le
battute
di
caccia,
che
erano
il
passatempo
preferito
del
sovrano.
Inoltre,
lo
stesso
monarca
era
solito
ricevere
i
visitatori
più
benvoluti,
quando
era
costretto
a
letto
per
qualche
malore,
nei
suoi
appartamenti
privati
dove,
mostrandosi
con
la
barba
incolta,
lasciava
sedere
lo
stupefatto
ambasciatore
sulla
sponda
del
suo
letto.
Una
scena
molto
lontana
dalle
comuni
e
sontuose
cerimonie
pubbliche.
Un
ulteriore
esempio
per
potere
capire
le
difficoltà
che
un
ambasciatore
affrontava
nel
suo
lavoro
viene
fornito
dal
milanese
Antonio
da
Trezzo,
diplomatico
presso
la
corte
di
re
Ferrante
di
Napoli
durante
la
guerra
contro
i
baroni
ribelli
e le
forze
militari
del
pretendente
al
trono
Giovanni
d’Angiò.
Nella
battaglia
di
Sarno
del
1460,
il
sovrano
venne
sconfitto
dai
ribelli
e la
sorte
dell’ambasciatore
fu
altrettanto
tragica:
perse
tutti
i
suoi
averi,
la
tenda,
il
letto
da
campo,
i
vestiti
e i
preziosi
resoconti
scritti.
Durante
la
fuga,
venne
perfino
colpito
da
un
nemico,
anche
se
senza
ferite.
Per
alcuni
giorni
si
trovò
lontano
dal
re,
e
perciò
impossibilitato
nel
compiere
il
suo
dovere.
Al
fine
di
evitare
le
truppe
nemiche,
che
lo
consideravano
facente
parte
della
corte
del
re,
dovette
raggiungere
Napoli,
da
Sarno,
passando
per
la
costa
sorrentina.
Nonostante
tutti
questi
problemi,
l’ambasciatore
godeva
di
alcuni
diritti
e
privilegi
presso
il
governo
ospitante.
Dato
che
lo
si
riconosceva
come
massimo
rappresentante
organico
del
proprio
“reggimento
politico”,
l’inviato
veniva
trattato
con
il
tutto
il
rispetto
che
si
darebbe
oggi
ad
un
diplomatico
straniero.
In
questo
senso,
il
«Trattato
riguardante
lo
Statuto
degli
ambasciatori
di
Genova
e
Modena»,
stipulato
dalle
due
città
il
30
giugno
1458,
contiene
alcuni
di
questi
benefici.
L’Articolo
2
afferma
che
«il
Corpo
Diplomatico
[…]
dispone
dell'immunità
diplomatica
su
tutto
il
proprio
territorio»,
definendo
anche
il
concetto
di
immunità
diplomatica:
«Per
immunità
diplomatica
si
intende
una
situazione
giuridica
soggettiva
privilegiata
riconosciuta
e
garantita
a
taluni
soggetti
in
considerazione
della
loro
posizione
e
funzione
istituzionale.
Gli
effetti
delle
immunità
sono
riconducibili
alla
non
processabilità
per
tutti
i
reati
esclusi
[…]
il
brigantaggio,
l’assalto
ai
municipi
o
l’assalto
al
Castello
della
capitale.
Per
questi,
i
rappresentanti
diplomatici
di
entrambe
i
contraenti
rimangono
processabili».
Di
fatto,
due
entità
politiche
riconoscevano
reciprocamente
l’importanza
istituzionale
dell’ambasciatore,
il
quale
doveva
ricevere
un
trattamento
consono
alla
sua
posizione.
L’ambasciatore,
inoltre,
ricopriva
anche
un
ruolo
più
discreto:
la
spia.
Infatti,
non
poteva
esserci
migliore
fonte
d’informazione
sui
movimenti
e
sulle
intenzioni
di
un
potentato
straniero
che
un
funzionario
riconosciuto
ed
insospettabile
al
suo
interno.
Egli
era
il
solo
in
grado
di
stabilire
contatti
personali
nella
corte
ospitante,
imparando
a
conoscerne
a
fondo
le
caratteristiche.
L’inviato
era
visto,
infatti,
come
fonte
autorevole,
dando
un
giudizio
il
più
possibile
oggettivo
su
un
determinato
fatto;
altresì,
egli
selezionava
i
problemi
e le
notizie
da
trasmettere
in
patria,
cercando
di
dare
priorità
a
determinati
eventi.
I
commenti,
le
riflessioni
e le
opinioni
degli
ambasciatori
erano
contenuti
nelle
numerose
lettere
che
scrivevano
ogni
due
o
tre
giorni,
spaziando
nei
più
diversi
campi:
dallo
stile
di
vita
nelle
città,
alle
tradizioni
fino
ai
cambiamenti
e
alle
trame
politiche
che
si
verificavano
a
corte.
Nei
periodi
di
maggiore
tensione
le
lettere
potevano
essere
anche
più
di
una
al
giorno.
Una
volta
redatta
la
lettera,
l’inviato
la
affidava
a
corrieri
che,
in
sella
al
cavallo
o a
piedi,
recapitavano
il
messaggio
a
destinazione.
Ovviamente,
anche
il
viaggio
della
posta
non
era
semplice,
ma
soprattutto
rapido.
Infatti,
affinché
una
lettera
venisse
recapitata,
via
terra,
da
Milano
a
Napoli,
potevano
trascorrere
dai
dieci
ai
quindici
giorni,
mentre
solo
due
o
tre
perché
da
Milano
potesse
raggiungere
Genova.
Infine,
se
l’ambasciatore
si
trovava
fuori
dall’Italia,
i
tempi
si
dilungavano
ulteriormente:
le
Alpi
rappresentavano
un
serio
ostacolo,
e
una
corrispondenza
da
Parigi
all’Italia
poteva
impiegare
anche
un
mese
intero.
Sebbene
il
corriere
potesse
essere
affidabile,
era
necessario
prendere
ogni
tipo
di
precauzione,
soprattutto
in
caso
di
cattura
dello
stesso:
in
particolare,
si
utilizzava
una
scrittura
cifrata
per
le
lettere
più
importanti
e
riservate,
per
evitare
che
potessero
essere
lette
e
comunicate
notizie
riservate.
D’altra
parte,
poteva
verificarsi
che
un
ambasciatore,
magari
scoperto
nel
redimere
una
corrispondenza
“sospetta”,
potesse
diventare
“scomodo”
per
la
corte
ospitante.
Il
già
citato
trattato
tra
Modena
e
Genova
è
ancora
utile
in
questo
senso:
si
parla,
qui,
dello
status
di
«persona
non
gradita»,
dichiarato
dal
governo
e
che
«comporta
il
decadimento
per
tale
membro
dello
status
di
rappresentante
diplomatico».
In
breve
tempo,
dieci
giorni,
avrebbe
dovuto
lasciare
il
territorio
del
governo
ospitante
per
non
incorrere
in
alcun
tipo
di
reato.
Quelle
corrispondenze,
però,
oggi
conservate
presso
molti
archivi
italiani,
ci
permettono
di
conoscere
molto
bene
le
attività
degli
ambasciatori;
le
lettere
sono
capaci
di
offrirci
una
chiara
visione
su
fatti
politici,
culturali
e
sociali
dell’età
del
Rinascimento.
Infine,
i
trattati
“bilaterali”
sugli
ambasciatori,
come
quello
tra
Genova
e
Modena,
l’avvento
di
una
nuova
politica
degli
stati
italiani
e la
nuova
legislazione
hanno
posto
le
fondamenta
del
diritto
internazionale,
che
oggi
governa
il
nostro
tempo,
e
anticipato
i
caratteri
della
diplomazia
moderna.